Nella lunga intervista rilasciata a Federico Rampini (Kosovo, gli italiani e la guerra, Milano, Mondadori, 1999), Massimo D’Alema presentava l’intervento della Nato contro la Serbia – 79 giorni di bombardamenti, 23.614 bombe e missili sganciati (tra cui 355 bombe a frammentazione e altre all’uranio impoverito), più di 500 morti e 8.000 feriti solamente tra i civili, con l’ambasciata cinese colpita e la sede della televisione di Belgrado semidistrutta, con 16 morti tra giornalisti e tecnici, ecc. – come un’azione di forza volta «a garantire i diritti umani e civili per decine di migliaia di profughi in fuga dalle città e dai villaggi del Kosovo e a riaprire, una volta conseguito questo obiettivo prioritario, il dialogo per giungere a una pace giusta che ponga fine a quel conflitto».
ilponterivista.com Giancarlo Scarpari
D’Alema, il 5 marzo, venti giorni prima che iniziasse la guerra, era andato (convocato?) negli Usa e, ricevuta l’assicurazione da Clinton che si sarebbe fatta «qualunque cosa per riparare» all’ingiusta assoluzione dei piloti responsabili della strage del Cermis, aveva poi parlato della guerra in preparazione e appreso che, se Milosevic non si arrendeva dopo i primi bombardamenti, la Nato li avrebbe proseguiti a oltranza: la promessa sarebbe rimasta senza seguito, la previsione si sarebbe invece concretizzata sul campo.
L’Italia partecipò alla guerra con la messa a disposizione delle basi e l’invio di 52 aerei.
Nell’intervista i due non sembrano interessati a valutare la compatibilità, o meno, di tale scelta con l’impegno stabilito dall’art.11 della Costituzione, visto che non ne parlano proprio.
Ma quando Rampini gli chiede se vi erano alternative alla partecipazione dell’Italia al conflitto, D’Alema replica sostenendo che certo ci si poteva tirare indietro, adducendo la vicinanza territoriale con le parti in lotta, come aveva fatto la Grecia, oppure limitare il contributo al conflitto con la mera messa a disposizione delle basi («e già ci avrebbero ringraziato»); ma, così facendo, «saremmo rimasti un paese di serie B»; siamo invece intervenuti direttamente e «quanto a impegno nelle operazioni militari noi siamo stati il terzo paese, dopo gli Stati Uniti e la Francia e prima della Gran Bretagna»; in tal modo abbiamo avuto voce in capitolo, contribuendo «alla formazione delle decisioni e, al tempo stesso, [abbiamo rispettato] il risultato della decisione collettiva»; e il riconoscimento del nostro ruolo lo abbiamo ottenuto già nel corso del conflitto, quando l’ammiraglio italiano Guido Venturoni ha sostituito il tedesco Klaus Nauman alla presidenza del Comitato militare della Nato.
Molto compiaciuto per i risultati raggiunti (abbiamo ottenuto che «negli ultimi documenti della Nato si parla di un Kosovo autonomo nell’ambito della Repubblica federale iugoslava […] abbiamo stabilito un principio e un precedente: la comunità internazionale non può accettare la barbarie», obiettivi peraltro smentiti dai fatti successivi), D’Alema ricorda, quasi incidentalmente, che a fine aprile, durante i bombardamenti, si era tenuto a Washington un vertice per celebrare il 50° anniversario dell’istituzione della Nato, cui la Russia non era stata invitata, ma in cui era stato annunciato l’ingresso nell’Alleanza della Polonia, dell’Ungheria e della Repubblica ceca, già ex membri del Patto di Varsavia. Il presidente del Consiglio italiano non sembra cogliere il significato politico di quell’assenza e di quelle contemporanee presenze, perché, dopo aver preso atto con favore della trasformazione in atto della Nato («accanto alla sua tradizionale missione, la difesa comune» vi sono ora le «nuove funzioni di sicurezza collettiva»), caratterizzata dalla «politica delle porte aperte» («un’attenzione particolare all’Europa sud-orientale è particolarmente necessaria nella fase attuale»), esprime apprezzamento per questa «nuova architettura di sicurezza paneuropea», nell’ambito della quale «il ruolo della Russia è, e resterà ovviamente, di importanza fondamentale».
Non è chiaro in base a quali elementi D’Alema potesse formulare quest’ultima previsione.
Già nel 1997, infatti, il senatore Joe Biden aveva manifestato l’ostilità che i democratici americani nutrivano per la Russia, ipotizzando che l’allargamento della Nato ai Paesi baltici era fattibile, poiché la cosa avrebbe potuto irritare sì i suoi dirigenti, ma non tanto da determinare una conseguente “reazione militare”; la Russia, poi, non aveva reagito neppure quando, con la guerra alla Serbia, la Nato aveva colpito un suo tradizionale alleato e l’aveva per giunta umiliata sul campo, impedendole di portare proprie truppe aero-trasportate a Pristina, grazie alla no fly zone richiesta e ottenuta da Ungheria, Bulgaria e Romania. La Russia non aveva reagito e non era in condizioni di farlo, perché, proprio in quei mesi, essendo sull’orlo della bancarotta, stava trattando con Michel Candessus, direttore del Fmi, i necessari finanziamenti per evitare il default.
In questo contesto di debolezza economica e politica, la Russia era stata coinvolta nel Partenariato per la pace Nato-Russia, il cui Consiglio permanente era guidato dal Segretario generale dell’Alleanza: tale organismo, tuttavia, aveva compiti consultivi e quindi le sue ricadute pratiche erano assai modeste. Nell’agenda degli Usa, dunque, non era riservato alla Russia quel ruolo di importanza fondamentale per la “sicurezza collettiva” auspicato da D’Alema, tutt’altro. Quello Stato era un nano economico, ma continuava a essere una potenza militare di tutto riguardo per via dell’imponente arsenale atomico che custodiva e gli ideologi del “nuovo secolo americano” intendevano tenerla sotto controllo. Così quando Kagan e Kristol portano, nel 2000, alle estreme conseguenze le previsioni di Zbignew Brzezinski sulle strategie necessarie per conservare la supremazia assoluta degli Usa nello scacchiere mondiale, si preoccupano non solo di Saddam Hussein, ma anche del fatto che «in Russia un regime autoritario potrebbe decidere di reclamare una parte di quanto perso nel 1991»: ebbene, di fronte al pericolo che minaccia il primato americano, gli Usa affermano un inedito “diritto di fare la guerra” per prevenire ogni attacco e, in un simile contesto, «uno degli obiettivi principali della politica estera americana dovrebbe essere quello di provocare un cambio di regime nelle nazioni ostili» (Robert Kagan e William Kristol, Present Danger, 2000). Un compito pesante, ma pienamente legittimo, perché «il destino dell’America è sorvegliare il mondo», come scriverà sul «Financial Times», il 17.02.2003, un entusiasta Max Boot.
Mano a mano che questa nuova lettura della “missione” degli Usa nel mondo si afferma nei piani alti della Casa Bianca, prefigurando significative ricadute sulla natura e l’operatività della Nato, sarebbe stato necessario, per gli alleati europei, riflettere sul nuovo significato che venivano ad assumere le «nuove funzioni di sicurezza collettiva» su cui tanto aveva insistito D’Alema nella citata intervista. Ma come nessuno in Italia e in Europa si era meravigliato quando la Nato, sorta per fronteggiare l’Unione Sovietica era invece sopravvissuta all’estinzione del Nemico, così nessuno si occupò delle conseguenze che un simile cambio di strategia poteva comportare nella pratica delle relazioni internazionali, né considerò quanto la stessa avrebbe potuto incidere sugli interessi dei singoli Stati alleati.
In Europa non vi fu alcuna reazione critica, circostanziata e conseguente – ma solo qualche isolata protesta popolare, nel contesto generale di una acritica adesione – neppure quando, passando dalla teoria ai fatti, gli Usa, dopo l’attacco alle Torri gemelle, decisero di impiegare la Nato nelle guerre contro l’Iraq e l’Afghanistan.
Nel frattempo, progressivamente, all’allargamento dell’Unione Europea corrispose silenziosamente, quasi sovrapponendosi, quello operato dalla Nato: nel 2004 Estonia, Lettonia, Slovacchia e Slovenia entrarono a far parte di entrambe le organizzazioni e la Nato quell’anno accolse anche Bulgaria e Romania (che saranno cooptate nell’Ue tre anni più tardi). Le promesse fatte dagli occidentali a Gorbaciov nel 1991, al tempo della riunificazione delle due Germanie, di non estendere ulteriormente la Nato ai confini della Russia erano state presto dimenticate.
Un analista vicino al Pentagono, George Friedman, in televisione, rivendicò agli Usa il merito di quelle nuove adesioni, ottenute perché gli Stati Uniti «avevano messo in atto una serie di rivoluzioni colorate in tutta la periferia della Russia e una di queste si era svolta in Ucraina».
Qui alle elezioni del 2004 si erano fronteggiati Viktor Juschenko, filoccidentale e Victor Yanukovysch, filorusso, sostenuti da oligarchi di diverso orientamento; il primo era riuscito vincitore con un margine scarso di voti, l’opposizione era scesa in piazza dando vita alla “rivoluzione colorata” e dopo un mese la Corte suprema aveva annullato le elezioni, che, rifatte, avevano dato la vittoria a Juschenko, evidenziando comunque la spaccatura del paese tra un nord-ovest a grande maggioranza filoccidentale e un sud-est a chiara prevalenza filorussa.
Le nostre televisioni avevano documentato le manifestazioni che erano proseguite ininterrotte per circa un mese in Piazza Maidan, grazie al sostegno di alcune Ong non meglio specificate; ma avevano taciuto che la moglie di Juschenko, Kateryna, era stata alta funzionaria del governo americano (il marito, dopo la vittoria, era stato subito ricevuto a Washington); così come, dopo aver fornito un’immagine accattivante di Julia Tymoshenko, nuovo primo ministro, ne avevano taciuto i legami con l’estrema destra ucraina; e, successivamente, sotto silenzio era passato il decreto, con cui Juschenko aveva proclamato «Eroe nazionale» Stepan Bandera, acceso anticomunista, ma anche fondatore del partito collaborazionista dei nazisti, i cui militanti avevano partecipato in forze all’eliminazione cruenta di decine di migliaia di ebrei.
Nel frattempo nuove adesioni consentivano l’ulteriore allargamento a est della Nato: in occasione del Consiglio di Bucarest del 2008, infatti, mentre si dava per prossimo l’ingresso di Croazia e Albania, concretizzatosi infatti l’anno successivo, il presidente dell’Alleanza “apriva le porte” anche alla Georgia e all’Ucraina, ingresso allora bloccato per le resistenze manifestate da Francia e Germania.
Poi l’interesse dei media nazionali era scemato: il governo Juschenko non aveva mantenuto le promesse elettorali e alle successive elezioni aveva rivinto Yanukovysch, questa volta con un ampio margine, e l’esito del voto era stato accolto con apparente distacco. Solo nel 2014, il rifiuto del predetto di concludere un accordo di associazione all’Ue (volto a ottenere i necessari finanziamenti per evitare la bancarotta, poi richiesti alla Russia), farà accendere nuovamente i riflettori sull’Ucraina, ove si svilupperà, in rapida successione, una serie di eventi (i moti di protesta di Piazza Maidan, gli scontri, i morti, la fuga di Yanukovysch in Russia e la nascita del nuovo governo filoccidentale di Poroshenko), cui seguiranno la secessione della Crimea, tramite referendum e quella tentata dai filorussi nel Donbass, tramite le armi, sostenute entrambe dal governo di Putin.
Ma la lineare sequenza dei fatti divulgata dai media occidentali presenta alcuni punti rimasti oscuri (è assodato che in piazza Maidan a un certo punto scesero a sostegno della protesta gruppi paramilitari armati di estrema destra – lì fece la sua comparsa il battaglione Azov – ma non è stato mai accertato chi fossero i cecchini che dall’alto spararono sui manifestanti lasciando nelle strade numerosi morti), mentre altri sono prudentemente sfumati o addirittura taciuti; e tra questi vi sono immagini e parole – già al tempo tuttavia reperibili in Internet – che evidenziano come nel contrasto politico tra l’Europa e l’Ucraina sorto a seguito del mancato accordo, siano intervenuti decisamente gli Usa, tramite suoi rappresentanti di primo piano.
A sostegno dell’opposizione a Yanukovysch, giungono infatti a Kiev, uno dopo l’altro, John McCain, repubblicano e Victoria Nuland, segretaria di Stato aggiunta, vice di John Kerry e moglie del citato Norman Kagan: quest’ultima è ripresa dai filmati mentre contatta in piazza i manifestanti, assicurando loro il sostegno del governo degli Stati Uniti («sono con voi, nelle vostre aspirazioni di giustizia, di dignità umana, di sicurezza, di benessere economico, per il futuro europeo che avete scelto e che meritate»). Ancora più significativo è l’intervento da lei attuato durante la crisi del gennaio 2014 – quando si profila la possibilità di un governo di unità nazionale – poiché, con una telefonata, indica all’ambasciatore americano in Ucraina, Geoffrey Pyatt, chi tra gli estremisti di destra, più o meno filonazisti, dovrebbe entrare nel nuovo esecutivo e chi no (Arseny Yatseniuk, gruppo Svoboda sì, l’ex pugile Vitaly Klitshko e Oleh Tyanibok, Partito della Libertà, no: il primo diventerà però sindaco di Kiev e il secondo, rimanendo estraneo, doveva ugualmente mantenere stretti contatti col governo per «quattro volte la settimana»).
La conversazione, conosciuta sin dal febbraio 2014, era stata diffusa perché nella sua parte finale la Nuland se ne era uscita con la frase («Fuck the UE») con cui aveva rivelato la considerazione con cui venivano tenuti gli alleati (il disprezzo verso gli europei che venivano da Venere e non da Marte era stato un classico della propaganda neocon, da Daniel Pipes a Norman Kagan); ma è la prima parte del discorso, quella ignorata, che qui invece rileva, poiché evidenzia con ben maggiore forza come la sorte dell’Ucraina e non quella dell’Europa stesse a cuore, anche in quella circostanza, agli esponenti del governo degli Usa.
Questi sapevano che in piazza Maidan, oltre ai manifestanti pacifici, erano comparsi gruppi paramilitari armati, variamente legati a Yatseniuk, a Klitshko e a Tyanibok e vedevano bene quali ideologie spingevano i militanti di Settore destro e di Svoboda a fomentare disordini, occupazioni di edifici pubblici e scontri con la polizia; né avevano ignorato che a Odessa almeno 42 manifestanti filorussi erano morti perché quelle milizie avevano dato fuoco all’edificio in cui si erano rifugiati; conoscevano, infine, la composizione della maggioranza che sosteneva il nuovo governo, nella quale Svoboda, con 38 seggi in Parlamento, poteva contare su quattro ministri nell’esecutivo; tuttavia la carica antirussa che animava milizie, maggioranza e governo faceva aggio su ogni altra considerazione, e Yatseniuk, Klitshko e Tyanibok avevano ottenuto pubblici riconoscimenti dai visitatori occidentali, come evidenziava la foto-ricordo che li accomunava a una sorridente Victoria Nuland.
La conferma dell’interesse americano per l’Ucraina, così concretamente manifestata prima e dopo Piazza Maidan, veniva poi confermata dalla diretta partecipazione di Joe Biden, allora vicepresidente degli Stati Uniti, alla cerimonia del giuramento con cui Poroshenko diventava presidente dell’Ucraina. I rapporti personali di Biden con le autorità di quel paese si facevano ancora più stretti, visto che il figlio Hunter diventava in quello stesso anno consulente della Burisma Hildings, la maggiore compagnia energetica dell’Ucraina.
Dopo di che su quello Stato tornava a calare il disinteresse e il conseguente silenzio dei nostri media: poche e confuse notizie sulle discriminazioni imposte alla popolazione russofona, generici riferimenti sulle modalità con cui veniva condotta l’annosa guerra contro i “ribelli” del Donbass, silenzio assoluto sulla decisione del 07.02.2019 del Parlamento volta a inserire nella Costituzione un emendamento che sanciva «l’irreversibilità del corso europeo ed euro-atlantico dell’Ucraina».
Il 31 ottobre dello stesso anno, il segretario della Nato Stoltemberg si recava in visita ufficiale a Kiev, portando al neopresidente Zelensky (vittorioso alle urne su Poroshenko, accusato poi di alto tradimento) il «sostegno incrollabile della Nato, e di tutti gli alleati della Nato, all’Ucraina», nel momento in cui si profilava una possibilità di pace tra i contendenti nel Donbass.
Gli accordi di Minsk non venivano rispettati e le parti si addossavano reciprocamente le cause dell’insuccesso. Nel settembre 2021, in risposta a una grande esercitazione militare effettuata dalla Russia e dalla Bielorussa, che aveva seriamente allarmato il governo di Kiev, il capo delle Forze armate ucraine, Valery Zaluzhny, annunciava l’operazione Rapid Trident, svolta vicino a Leopoli con la partecipazione di vari paesi Nato, denominata riduttivamente «esercitazione ucraino-americana».
Putin, in dicembre, chiedeva “garanzie scritte” agli Stati Uniti sulla propria sicurezza, chiedendo in particolare che cessasse l’allargamento della Nato all’Ucraina; il 9-10 dicembre Biden convocava on line un «Summit per la democrazia», cui partecipavano 111 Stati, 28 membri della Nato, l’Ucraina e 26 paesi dell’Ue, senza l’Ungheria (ma con la Polonia); quanto alla richiesta di sicurezza richiesta dalla Russia, la risposta tardava a venire, ma nell’incontro Blinken-Lavrov di gennaio, l’inviato di Biden chiariva che ogni Stato era libero «di scegliere con chi allearsi» e, per quanto concerneva quel paese di confine, si affrettava a rimediare all’incauta (?) affermazione del giorno prima del suo presidente, secondo cui nel caso di «una piccola incursione» dei russi in Ucraina «noi finiremmo per dividerci». Per cercare di placare lo “stupore” che quella frase aveva prodotto a Kiev, Blinken dichiarava che gli Stati Uniti avrebbero fatto «tutto il possibile» per proteggere quel paese da «qualsiasi tipo» di invasione, precisando comunque che non poteva scattare alcuna automatica risposta da parte della Nato ai sensi del noto articolo 5 del Trattato nord-atlantico.
Malgrado le avvisaglie di guerra fossero sempre più frequenti, completa era l’inerzia dell’Ue e dell’Italia, i cui politici, in particolare, in quegli stessi giorni, erano tutti presi a discutere della candidatura di Berlusconi a presidente della Repubblica.
A febbraio, ricevuta per iscritto la risposta negativa alle sue richieste, Putin, aggrediva militarmente l’Ucraina, definendo la guerra «un’operazione speciale» (“una piccola incursione”?), cercando di occupare l’aeroporto di Kiev, incontrandovi però una forte resistenza, essendo state le sue mosse monitorate per settimane dall’intelligence della Nato, che aveva annunciato più volte l’imminente invasione.
Lo scoppio delle ostilità coglieva di sorpresa il nostro paese, visto che il 26 gennaio le maggiori imprese italiane, in videoconferenza con Putin, ancora discutevano «di rafforzare la cooperazione nei settori dell’energia, industria, finanza e tecnologie ambientali» (gli affari con i russi andavano a gonfie vele, dato che le oltre 500 imprese che vi erano impegnate avevano creato, nel 2021, un interscambio per oltre 20 miliardi di dollari, con un aumento del 44% rispetto all’anno precedente); a questo punto, però, il clima cambiava di colpo, Berlusconi, Salvini oscuravano i precedenti rapporti intrattenuti con Putin, tacendo o parlando d’altro e solo allora i media nazionali si accorgevano che Putin era un dittatore; e prontamente avallavano, con scarse differenziazioni, una narrazione unica secondo cui la Russia aveva aggredito l’Ucraina perché «aspirava a essere di nuovo un grande Impero» (come aveva anticipato, sul «Corriere della sera», Angelo Panebianco il 14.01.2022); di conseguenza gli Stati Uniti e l’Europa non dovevano dividersi nel sostenere la guerra difensiva di quel popolo e dovevano rifornirlo di armi (fugando così i timori di Biden); infine, di fronte all’evidenza dei fatti (per la prima volta la ferocia della guerra veniva vissuta, in diretta, tramite gli occhi e i sentimenti degli aggrediti), era inutile evocare morti e distruzioni che gli Usa, e noi stessi come Nato, potevamo avere inflitto in passato ad altre popolazioni, o interrogarsi sul motivo addotto oggi dall’aggressore (la preoccupazione per un accerchiamento militare in via di completamento), subito liquidato come mero pretesto.
Questo racconto, sin dall’inizio condotto a reti unificate, era viziato nelle premesse (la Nato non era un’alleanza militare solo difensiva), era forzatamente riduttivo (due soli erano considerati i protagonisti del conflitto, l’aggressore russo e l’aggredito ucraino) e fermamente assertivo (la rappresentazione evidente della lotta di Davide contro Golia non doveva essere inquinata da considerazioni fuorvianti).
Senonché, una settimana dopo il sorgere del conflitto, Hillary Clinton faceva già capire quali erano le vere intenzioni degli Usa («L’Ucraina diventerà un nuovo Afghanistan per i russi»), evocando la guerra che aveva “impantanato” l’esercito di Mosca e contribuito alla disintegrazione dello Stato sovietico; commentando quella dichiarazione in tv, l’8 marzo, Dario Fabbri ammetteva che il ruolo degli Usa era tutt’altro che defilato, poiché sosteneva l’Ucraina con l’invio di armi, di intelligence e con la partecipazione al conflitto di veterani americani della guerra in Iraq; poi si sarebbe saputo che armi, addestramento e informazioni erano stati forniti a quel paese dalla Cia sin dal 2015 («Corriere della sera», 04.04.2022).
Intanto il 24 marzo a Bruxelles si svolgevano, con significativa coincidenza, il vertice Nato, la riunione del G7 e quella del Consiglio d’Europa, le cui scelte (sanzioni alla Russia e invio di armi all’Ucraina) erano perfettamente in linea con le decisioni prese dall’Alleanza militare.
A questo punto era sufficientemente chiaro che i protagonisti della guerra non erano due, ma almeno cinque, visto che accanto all’Ucraina si erano via via schierati contro la Russia anche gli Stati Uniti, la Nato e l’Ue, in un concorso di solidarietà armata che molto assomigliava a una cobelligeranza non dichiarata. La situazione, poi, era in costante evoluzione: il 20 aprile il presidente del Consiglio europeo Charles Michel si recava a Kiev e dichiarava a Zelensky: «Vogliamo la vostra vittoria e facciamo tutto ciò che è necessario» («Corriere della sera», 21.04.2022); il 26 aprile nella base Usa di Ramstein, il segretario della Difesa Lloyd Austin convocava i colleghi ministri di 43 paesi per coordinare gli aiuti militari a Kiev; recatosi poi nella capitale dell’Ucraina chiariva che la guerra non solo era rivolta a difendere quel paese, ma era rivolta a indebolire Putin, puntando così alla sua sconfitta militare. E per ottenere questo obiettivo, gli Usa, che dall’inizio del conflitto avevano inviato aiuti in armi per 3,4 miliardi di dollari, ora intendevano stanziare un nuovo pacchetto di 33 miliardi di aiuti, di cui 20 riservati all’invio di «artiglieria pesante, droni, munizioni, missili anticarro e antiaereo» («Corriere della sera», 29.04.2022). In questo modo, aveva detto Austin, dopo essere rientrato da Kiev, «Noi crediamo di poter vincere», correggendosi subito dopo e attribuendo agli ucraini quella possibilità («La Stampa», 29.04.2022).
A chiarire come stesse in realtà la situazione ci pensava, qualche giorno dopo, Stoltemberg, costretto a riprendere lo stesso Zelensky, che aveva aperto alla possibilità di iniziare trattative con Mosca, qualora l’esercito russo si fosse «ritirato sulle posizioni del 23 febbraio»; poiché ciò comportava che non fosse in discussione lo status della Crimea, il segretario della Nato interveniva con decisione, affermando che «l’Ucraina deve vincere questa guerra» e che «l’annessione illegale della Crimea non sarà mai accettata dai membri Nato» («la Repubblica», 08.05.2022), indicando al presidente ucraino la linea da seguire anche nelle dichiarazioni.
La guerra per procura condotta dall’Occidente contro la Russia veniva così rivelata nei suoi vari aspetti; a maggio, un articolo del «NY Times», secondo cui era stata l’intelligence americana ad aiutare «gli ucraini a localizzare e a uccidere i generali russi», confermava le ipotesi già avanzate da più parti circa l’aiuto di informazioni e droni forniti dagli Usa anche in occasione dell’affondamento della nave ammiraglia della marina russa, la Moskva, fornendo perciò un ulteriore tassello al quadro d’insieme ormai sufficientemente delineato.
Il racconto dello scontro tra il Davide ucraino e il russo Golia finiva per andare in crisi; e anche sulle premesse della guerra qualche dubbio veniva autorevolmente espresso: Papa Francesco, con linguaggio inusuale, ha parlato infatti dell’«abbaiare della Nato alla porta di Putin», di non saper dire se la sua reazione «sia stata provocata», ritenendo comunque probabile che «sia stata facilitata»: insomma, accanto alla volontà di potenza dell’autocrate russo, altre concause andavano dunque considerate per poter spiegare il complesso svolgersi degli avvenimenti.
Sugli esiti del conflitto, dopo 90 giorni dal suo inizio, non è possibile ovviamente fare delle previsioni. Ma sin d’ora si può dire che gli Usa hanno riportato una serie di successi e l’Europa e l’Italia alcune significative sconfitte.
Biden e i suoi propagandisti, di gran lunga più abili di quelli assai rozzi che affiancano Putin, hanno contrapposto la Russia non all’Ucraina, ma all’Europa e all’Occidente tutto; il presidente americano ha condotto una guerra per procura, evitando rischi ai propri soldati, ma rifornendo le armi a quelli ucraini, incitandoli alla vittoria contro una potenza nucleare e trasformando in eroi un modesto attore e le milizie filonaziste incorporate nella Guardia nazionale; ha richiamato all’ordine gli alleati della Nato, ivi compreso il riluttante Macron, ottenendo subito quegli stanziamenti in armi vanamente richiesti negli anni passati; ha reso appetibile l’ingresso nell’Alleanza anche a Stati neutrali, come Svezia e Finlandia, puntando così a completare l’auspicato “contenimento” della Russia.
L’Ue che, non avendo un esercito, non può avere una politica estera, si è appiattita su quella dettata dalla Nato, approvando il blocco del progetto, ormai completato, del gasdotto Nord Stream 2, inviso agli Usa, pronti a inviare il loro più costoso gas liquido; ha varato poi, a ripetizione, una serie di sanzioni contro la Russia, la cui efficacia ancora è incerta, mentre sicure sono le ricadute che già si avvertono nell’economia europea, già provata dal Covid; infine, dopo avere stabilito le sanzioni, l’Ue si è subito divisa nella loro applicazione, avendo ogni Stato interessi diversi da salvaguardare.
Il governo italiano, come da tradizione, si è adeguato a disposizioni e direttive da altri deliberate e subito accettate, fornendo armi e parlando di pace. Chi ha osservato che gli interessi degli italiani, in questo caso e come già altre volte in passato, non coincidono con quelli degli Usa e della Nato è stato subito redarguito dai custodi dell’ortodossia atlantica, che l’hanno invitato a «guardare più in là delle proprie tasche» e a ricordare ciò che ci unisce alla «sola potenza mondiale che si riconosce nei nostri stessi valori umani, sociali e politici» (Galli della Loggia, «Corriere della sera», 16.05.2022), dato che «oggi e chissà per quanto tempo l’unico scudo che abbiamo e che avremo è la Nato» e «tutto il resto è chiacchiera inutile» (Panebianco, «Corriere della sera», 18.05.2022).
Giusto il richiamo ai valori (anche se l’enfasi è eccessiva, visto che scarsi sono gli italiani attratti da quelli imperanti nella Russia di Putin), ma non sarebbe male, ogni tanto, verificare l’effettività di quelli vantati dal mondo occidentale, a cominciare da quelli praticati nel paese guida; corretto è poi l’invito al realismo e agli esistenti rapporti di forza, purché non si traduca, come oggi accade, nella supina accettazione di qualsiasi disposizione che provenga dall’altra parte dell’Atlantico; e quanto alle chiacchiere inutili, il clima creato in Italia da tanti perentori richiami ha prodotto le redazioni di liste di filoputiniani da dileggiare pubblicamente, una scelta poco in linea coi professati valori liberali e simile invece a imperativi d’altri tempi («taci, il nemico ti ascolta!»), funzionale solo alla proliferazione di certezze indimostrate.
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