domenica 29 agosto 2021

La tirannia del finto esperto.

Il culto per la competenza si spinge ormai fino all’idolatria, di conseguenza, dalla censura, siamo arrivati all’ostracismo morale e al linciaggio nei confronti di chi osa esprimere un’opinione, un dubbio, un parere controcorrente, non possedendo il doveroso “pezzo di carta” che certifichi con la specializzazione l’appartenenza alla cerchia degli addetti ai lavori riconosciuti.

 

il Simplicissimus Anna Lombroso

Quindi non puoi parlare di diritti se non sei un costituzionalista, di doveri se non hai un ruolo governativo che ti rende consapevole delle prerogative e degli obblighi che sei tenuto a far rispettare  al popolo, di  scienza, tutta, senza distinzione tra le varie discipline, trattandosi di una religione e un credo, con la sua chiesa svincolata da leggi e regole sociali, di gestione del Covid se non puoi esibire con il green pass e il certificato vaccinale un certo numero di conoscenti e parenti che ne siano stati affetti, e perfino  di aria pura e ossigeno se non sei pneumologo.

Pare che sia interdetto anche parlare di morte, non potendone vantare esperienza diretta, e a meno che non sia causata dalla peste contemporanea che la rende speciale distinguendola da  effetti collaterali (bombe sui civili in campagne umanitarie, incidenti sul lavoro perlopiù attribuibili a disattenzione e leggerezza del capitale umano, cancro e altre malattie cancellate dalla lista dei brutti mali del secolo).

Tanto per fare un esempio Paolo Mieli in un editoriale sul Corriere denuncia la superficialità rozza irrispettosa e ignorante di chi ha ridicolizzato le ultime performance di Biden. Eh si, recrimina, “c’è qualcosa di improprio negli sberleffi, nei rilievi a tratti inutilmente offensivi dai quali in questi giorni è sommerso il presidente degli Stati Uniti….”. Perché, deplora, da quando i talebani sono entrati a Kabul, praticamente non è passato un attimo senza che “un improvvisato commentatore di vicende asiatiche non si sia sentito in diritto di spiegare al capo di Stato americano quali errori aveva commesso”, accompagnando il biasimo con “sgradevoli considerazioni sulla sua cultura, sulla sua preparazione e perfino sul suo status mentale”.

Insomma per dire che vent’anni di una insensata occupazione di una nazione dopo una invasione tutt’altro che reclamata dagli indigeni e pacifica – non lo sono mai – miliardi di dollari di costo economico, migliaia di morti, la dispersione di valori identitari e culturali, la creazione di un ceto dirigente locale corrotto e l’addestramento di contingenti militari che se la sono data a gambe appena apparso un talebano consegnandogli generosamente armi e bagagli, sospetti attentati a orologeria che dovrebbero alimentare il nostalgico rimpianto per il recente passato, occorre una specializzazione alla pari dell’esporsi – se non si geriatri – in una azzardata diagnosi di demenza, avendo  visto l’umarell, fermo davanti ai cantieri della guerra, incespicare, confondersi, cadere dalle scale, inabile perfino a leggere il gobbo.

Per non dire dei temi della “civiltà”, dei diritti di donne e uomini, della salvaguardia di storia, memorie e tradizioni secolari, della laicità e autonomia da ingerenze ecclesiastiche che impongono un’etica pubblica, in regime di esclusiva a chi può rivendicare di appartenere a una cultura superiore, quella occidentale, come mi è capitato di leggere su Limes a firma di Mauro Bussani, insigne accademico di Diritto comparato, che scrive: “Aspettarsi che lo Stato di diritto occidentale funzioni ovunque vuol dire dimenticare la storia. Una cultura dei diritti impermeabile alle derive autoritarie e agli estremismi religiosi richiede tempo e fatica”.

Eh si, dice, “È buffo e insieme drammatico pensare che lo Stato di diritto statunitense e occidentale possa funzionare dappertutto, esattamente come nelle sue terre d’origine, soltanto perché la forza e il prestigio delle potenze entro cui è nato lo hanno diffuso in gran parte del mondo”, come sanno bene in America Latina, in Arabia, in Grecia, in Iraq, in Afghanistan, in Africa,  e pure a Comiso, Sigonella, Aviano, in Sardegna, dove interi territori sono stati trasformati in poligoni  e dove si testano armi che non rispondono ai requisiti del principio di precauzione in patria, e dunque è preferibile che si mettano alla prova in remote province che da tempo hanno rinunciato a Stato di diritto e sovranità.

È davvero incoraggiante pensare che siamo paesi che possiedono gli anticorpi, quei prerequisiti, forse antropologici che spiegano secondo l’illustre professore, come “l’articolazione dei nostri istituti giuridici sia rimasta sostanzialmente impermeabile allo scorrere dei regimi totalitari nel Novecento”, salvo viene da dire qualche irrilevante danno collaterale. “Tutto ciò fino a oggi, scrive,   ha rappresentato un’affidabile promessa di superamento di ogni contingenza autocratica: una sorta di siero biotico contro ogni totalitarismo”.

A parte la naturale considerazione che il professore sia posseduto anche lui dalla semantica della narrazione pandemica, c’è da sospettare che in perfetta linea con l’Europarlamento riservi la denominazione di origine controllata di “totalitarismo” solo agli opposti estremismi condannati da Ue e Nato, non comprendendo nella ristretta elencazione quello economico-finanziario e l’ideologia neo liberista che lo ispira e che ha come obiettivo dichiarato la demolizione degli stati, della loro qualità identitaria, per imporre valori globali, e dello stato di diritto che fa parte della loro sovranità, delle forme partecipative, democratiche e popolari.

Si capisce che c’è qualcosa di emotivo, la percezione di una incertezza e instabilità nuove negli orfani del guardiano del mondo che ha mostrato senza ritorno la debolezza del suo pensiero forte prima ancora che della sua azione. E difatti perfino dalle colonne degli Esteri dei giornaloni si fa strada un dubbio che rode le antiche convinzioni: il modo in cui è finita non fa pensare che forse vent’anni fa non doveva cominciare?   Che quale fosse l’origine dell’insensata decisione: mettere le mani sulle immense risorse di idrocarburi e dei minerali preziosi di quell’area, attestarsi come avamposto per contrastare il rischio suprematista della Cina e dell’India,  battere la concorrenza di Putin, l’assassino, scavando in quei giacimenti e di Xi, il delinquente, sempre secondo le meditate definizioni di Biden, a capo di un Paese che è diventato la fabbrica planetaria di ogni bendidio, comunque l’esito è fallimentare e segna il declino dell’Occidente e dell’imperialismo secondo i paradigmi di Washington che pensava di fermare il processo che è stato chiamato di “asianizzazione”.

Sono proprio sconcertati, confusi, suonati i commentatori specializzati, le voci del padrone che devono prendere atto che vent’anni fa la presa di Kabul e la cacciata dei tagliagole avvenne con la potenza delle bombe e che i barbari sono tornati e di sono reimpossessati del “loro” senza colpo ferire.

C’è da pensare che temano che lo smantellamento di principi e strategie dell’imperialismo fuori dai confini nazionali, che il crollo delle pratiche coloniali da remoto metta in forse la loro adozione e applicazione all’interno, di aree politiche “omogenee” e di singole nazioni, proprio come sta facendo da noi Draghi, incrementando disuguaglianze geografiche, sociali, economiche e culturali, conferendo poteri, competenze e opportunità in un centro direzionale  monopolistico, autoritario e repressivo, effetto di una severa selezione dei soggetti “produttivi”  dominanti.

E difatti secondo il Corriere della Sera – a firma di Gianluca Mercuri – la preoccupazione dei residenti nelle geografie della civiltà superiore è dove da ora in poi sarà lecito e legittimo intervenire per esportare il nostro format di democrazia, il nostro modello di stato di diritto, il nostro stile di vita, dopo questo fallimento epocale?

Eh si adesso è arduo autorizzare l’interventismo umanitario, che combina la  compassione con l’esercizio della  padronanza militare, la pietà con l’esportazione di avidità, corruzione, violenza.

Ma possono star tranquilli, la sopraffazione e la bulimia di prendersi, accumulare e  ingurgitare sempre altra roba, trovano sempre nuovi terreni di conquista e altri bottini, altre genti da piegare, umiliare, discriminare e affamare  anche dentro casa.

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