A memoria è la prima volta che l’elezione del presidente della Repubblica è affidata alla volontà di un singolo individuo.
(pressreader.com) Tommaso Rodano Il Fatto Quotidiano
L’intero rito sacrale per la scelta dell’inquilino del Colle, vertice delle istituzioni repubblicane e simbolo dell’unità nazionale, dipende dalla decisione di un uomo solo. In buona sostanza Mario Draghi, santo laico della stampa e dei media, feticcio dei poteri internazionali, sostenuto da quasi tutti i partiti in Parlamento, deve scegliere se fare il capo del governo o il capo dello Stato.
Tutti gli altri protagonisti della vita pubblica possono forse illudersi di influenzare la sua decisione, ma non possono indirizzarla. Draghi resterà protagonista assoluto della politica italiana, è una certezza, ma sceglierà lui stesso se farlo al Quirinale o ancora a Palazzo Chigi: terze ipotesi non sono date. Può lasciarsi accompagnare al Colle da una maggioranza bulgara – chi oserebbe dire di no a Draghi se il suo nome fosse calato in campo? – e influenzare la politica italiana dall’alto per i prossimi sette anni, oppure restare premier e mantenere un ruolo pienamente politico almeno fino al 2023. Per decidere il destino dei fondi europei fino all’ultimo centesimo e fino all’ultimo giorno della legislatura.
La bolla dell’opinione pubblica liberale-europeista-draghiana osserva la situazione con fede assoluta ma con sfumature dottrinali reciprocamente ostili. Le correnti di pensiero interne al draghismo radicale si possono riassumere con un dibattito, forse poco appassionante per le masse, che ha preso forma sulle intime pagine del Foglio e del sito Linkiesta. Christian Rocca, direttore di quest’ultimo, è un estremista draghiano: per lui deve restare al governo a ogni costo, con la missione più alta, “salvare l’Italia”. Farlo traslocare al Colle è un’idea assurda, da traditori, da “autosabotatori dell’Italia”. Un disastro politico: rimuovere Draghi da Palazzo Chigi – sostiene Rocca – significherebbe consegnare il paese alla destra post fascista.
L’amico Giuliano Ferrara, sul Foglio, gli ha risposto con cruentissima eleganza: gli ha dato del cretino, ma con classe. Per la precisione, “cretino politico”. Draghi è indispensabile anche per Ferrara, ci mancherebbe, ma potrebbe essere persino più utile al Quirinale. Sarebbe la migliore garanzia, per sette lunghi anni, del compimento del suo “piano di rinascita europeo”. Con Draghi capo dello Stato si può stare tranquilli anche a prescindere dal prossimo premier, che in ogni caso sarebbe nominato da Draghi medesimo.
Colle o Chigi: questo è il perimetro di gioco. Mentre sugli spalti si agita la torcida dell’opinione pubblica draghiana, in campo ci sono i partiti, quelli che materialmente dovranno eleggere il prossimo presidente. Gli schieramenti cominciano a definirsi. Enrico Letta ha scoperto le carte pochi giorni fa al meeting di Comunione e Liberazione a Rimini: “Mi impegno e impegno il mio partito a sostenere Draghi a essere il nostro primo ministro almeno fino alla scadenza naturale del 2023”. In quell’“almeno” c’è tutto un mondo, oppure una disperata mancanza di alternative.
Matteo Salvini gioca la sua partita nell’altra metà del campo. Il capo della Lega vuole le elezioni il prima possibile. Draghi al Colle aprirebbe una possibilità concreta per la destra a Palazzo Chigi. Persino il più draghiano dei leghisti, Giancarlo Giorgetti, ieri ha mandato un messaggio chiaro: “Chiaramente è una delle persone più adeguate a ricoprire la carica di capo dello Stato”. E se Draghi andasse al Quirinale, la soluzione naturale sarebbero le elezioni: “Siamo in democrazia, meglio il voto piuttosto che soluzioni pasticciate”. Il sottotesto è chiaro: non sarà il Pd a decidere il futuro di Draghi.
Giorgetti ha ragione, anche per un banale calcolo dei numeri in Parlamento: il centrodestra, che aveva iniziato la legislatura in minoranza, grazie agli smottamenti delle truppe grilline e ad altri cambi di casacca detiene ora la maggioranza relativa nelle due Camere: 449 parlamentari contro 438. Per eleggere il presidente della Repubblica dalla quarta votazione servirà la maggioranza assoluta. Secondo chi lavora sul dossier Quirinale, al blocco Lega-FdI-Forza Italia basterebbe aggiungere un’altra cinquantina abbondante di parlamentari. Italia Viva con i suoi 45, tra Camera e Senato, rischia di avere di nuovo un ruolo decisivo. Se il centrodestra dovesse incassare l’assenso di Draghi al trasloco al Colle, è difficile immaginare che qualcuno si metta di traverso.
Insomma, l’ultima parola spetterà a lui, al Migliore dei migliori. L’uomo che non deve chiedere mai. Secondo Gianfranco Pasquino, che accredita un’antica amicizia con il premier, “Draghi non muoverà un dito per fare il capo dello Stato, non l’ha mai mosso in vita sua. È stato nominato a sua insaputa anche in Banca d’Italia”. È il potere che va da lui, non il contrario. E anche stavolta dovranno essere i partiti ad andare in processione, indicandogli il Colle: “Può continuare a dare le carte anche dal Quirinale. Di certo non nominerebbe un premier sgradito”, riflette Pasquino. “Se gli faranno un’offerta decente, l’accetterà”.
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