Per mettere d’accordo 27 leader dopo 92 ore di maratona negoziale si è dovuto sforbiciare qua e là quello che evidentemente si riteneva superfluo. Segnale da Vecchio Continente.
Una pioggia di miliardi sull’Europa, treni carichi d’oro diretti verso Roma.
Ci sono 750 miliardi da investire per i 27 Paesi dell’Unione, addirittura 209 miliardi per l’Italia, divisi in 82 di sussidi e 127 di prestiti.
Metto da parte per un attimo gli ostacoli che ancora restano, dal giudizio dell’Europarlamento ai voti dei Parlamenti nazionali.
Mi limito a un messaggio che è passato. Perché se si chiama Vecchio Continente ci sarà un perché.
Ecco quindi che per mettere d’accordo 27 leader, ma soprattutto due schieramenti – il blocco dei 22 e i 5 ribelli “frugali” – dopo 92 ore di maratona negoziale si è dovuto sforbiciare qua e là quello che evidentemente si riteneva sacrificabile: ricerca, clima, salute.
Sì, perché rispetto ai blocchi di partenza del negoziato i volumi totali dei due interventi economici rimangono invariati: 1.074 miliardi per il quadro finanziario pluriennale e 750 miliardi per il Recovery Fund. Dentro le cifre, però, le differenze sono sostanziali. Per far quadrare i conti e soprattutto tenere aperto il tavolo, il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ci ha sbattuto la testa per quattro giorni e quattro notti: alla fine ha lasciato intatto l’ammontare del Recovery Fund, ma lo ha ridistribuito diversamente. I sussidi sono scesi da 500 a 390 miliardi - vittoria dei frugali, capaci di violare anche la soglia psicologica di quota 400 a lungo difesa dai big della trattativa, Angela Merkel ed Emmanuel Macron, oltre all’Italia di Giuseppe Conte. I prestiti sono invece aumentati da 250 a 360 miliardi di euro. Gli Stati beneficiari dovranno iniziare a ripagare le somme entro la conclusione del prossimo settennato di bilancio Ue, quindi entro il 2027.
A risentire del cambio di strategia sono soprattutto i fondi di ripresa destinati ai programmi Ue, evidentemente meno graditi dai leader rispetto ai soldi da destinare alle riforme nazionali. Vengono così tagliati i fondi per i programmi comunitari Horizon Europe sulla ricerca scientifica - passato in pochi giorni da 13,5 a 5 miliardi – quelli di InvestEU sugli investimenti strategici – abbattuto da 30,3 a 5,6 miliardi – quelli del Just Transition Fund sul clima – da 30 a 10 miliardi, caduto nel vuoto l’appello di Greta Thunberg ai leader - e si arriva perfino a cancellare il programma per la salute Eu4Health - inizialmente finanziato con 7,7 miliardi – nell’anno del Covid.
C’è qualcosa che non va se scendono perfino i fondi europei per la ricerca scientifica. “Questo non è frugale, è stupido” twitta il presidente della berlinese Hertie School of governance, Hertie Enderlein.
E se per Enrico Letta questo è un “super Whatever it takes” – e per carità, l’augurio è che ripercorra anche il successo della strategia di Mario Draghi in termini di efficacia - il messaggio che arriva da Bruxelles è pessimo: su ricerca, clima e salute si può risparmiare. Anche perché se si aspettano che siano gli Stati nazionali a destinare i dobloni che vengono erogati su queste tre voci fondamentali per un cambiamento profondo (e già particolarmente sottofinanziate) il timore è che rimarranno delusi. Non è la loro delusione a preoccupare, quanto piuttosto la scarsa visione di un Continente profondamente Vecchio.
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