di Nicolò Bellanca
Il precedente volume di Thomas Piketty, Il Capitale nel XXI secolo, aveva una lunghezza di oltre 900 pagine. Quello appena uscito in traduzione italiana, intitolato Capitale e ideologia, consta addirittura di 1.200 pagine.[1] Le biblioteche sono piene di libri ponderosi che tanti citano, ma che quasi nessuno legge integralmente. Le opere di Piketty rischiano di subire lo stesso destino: un’analisi basata sui dati di kindle, documentò che il lettore medio lesse, del libro del 2013, appena 26 pagine.[2] Se però, con determinazione e pazienza, prendiamo in mano questa sua ultima monografia, ci accorgiamo che non è prolissa, poiché ogni suo capitolo, animato da una scrittura densa e nitida, si colloca in un disegno intellettuale unitario. Ancor più, ci accorgiamo che essa merita il tempo della lettura, poiché verte, con argomentazioni sempre pregnanti, su alcuni degli argomenti centrali nelle scienze sociali e nel dibattito pubblico: la natura del sistema economico odierno, i processi di cambiamento storico, le ragioni che giustificano lo status quo nelle comunità umane, la possibilità di realizzare un ordine sociale migliore. Nello spazio di una noterella, non posso affrontare i tanti temi che nel libro s’intrecciano. Procedo piuttosto in maniera schematica: sintetizzo alcune delle principali posizioni dell’autore in sette tesi; dopo l’illustrazione di ciascuna tesi, svolgo qualche commento critico, per concludere con poche considerazioni sull’intero ragionamento.
Tesi 1. Le vicende storiche ben documentate sono in grado di spiegarci come funziona il mondo.
Già nel libro del 2013, Piketty è apparso un ricercatore empirico estremamente preparato, con la propensione, tuttavia, a lasciare sottosviluppata la spiegazione teorica dei fenomeni: le sue due famose “leggi del capitalismo” consistono l’una in una tautologia e l’altra in una formula che non riceve alcuna fondazione, se non il riscontro statistico.[3] In questo libro, lo stesso atteggiamento si estende a ogni argomento, perfino i più complessi (come la genesi e la dinamica delle caste indiane) e i più controversi (come le ragioni della temporanea maggiore produttività dell’economia statunitense, rispetto a quella europea).[4]
Ma la teoria non è eliminabile, in quanto permette di concettualizzare nessi causali rigorosi, che la raccolta dei dati potrà (o meno) corroborare. I dati non parlano da soli, vanno interpretati: fin qui è banale e tutti concordano. Il modo scientifico d’interpretare i dati consiste però nel ricondurli ad uno schema teorico, il più semplice possibile: questo ulteriore passaggio è trascurato, da parte di molti ricercatori contemporanei, e Piketty, malgrado il piglio eterodosso, non rappresenta un’eccezione.
Tesi 2. Tutte le società umane esprimono “regimi di disuguaglianza”, caratterizzati dal modo con cui affrontano i problemi della politica, della proprietà e dei confini (pp.17-19, 650n. e 721).
Il regime politico regola il potere sugli individui, e include il controllo sulla trasmissione delle conoscenze, ossia il sistema dell’istruzione, con il suo impatto sulle disuguaglianze; quello della proprietà gestisce il potere sulle cose, e comprende la politica fiscale, con il suo impatto sulle disuguaglianze; infine, quello sui confini stabilisce chi appartiene alla comunità umana cui ci si riferisce, e include le scelte intorno ai flussi migratori, con il suo impatto sulle disuguaglianze (p.840). Piketty si ripromette di indagare ogni società attraverso il suo specifico “regime di disuguaglianza”, che unisce i tre sistemi di regole appena menzionati. Peraltro, per il nostro autore «le disuguaglianze devono essere giustificate e riferite a una visione plausibile e coerente dell’organizzazione sociale e politica ideale» (p.821). Questo porta alla Tesi successiva.
Tesi 3. Le disuguaglianze tra persone e tra gruppi sono un fenomeno di carattere ideologico-politico, non economico e tecnologico (pp.20, 313, 474, 821), poiché esiste «una sostanziale autonomia della sfera delle idee, che è la sfera ideologico-politica» (p.21).[5]
«A scanso di equivoci, Piketty non dice - come hanno fatto gli strutturalisti francesi - che l’ideologia è relativamente autonoma dall’economia: invece afferma che “il regno delle idee, la sfera politico-ideologica, è veramente autonomo”».[6]
Questa netta proposizione appare, a mio avviso, sterilmente unilaterale, e quindi “ideologica” in senso deteriore (adotta dei paraocchi, che occultano ex ante una parte del fenomeno esaminato).[7] È facile infatti opporle casi rilevanti nei quali le dimensioni economica e tecnologica influenzano la struttura delle disuguaglianze. Mi limito ad un esempio eloquente, esaminato a fondo da Timothy Mitchell: l’impiego massiccio dei combustibili fossili, dalla Rivoluzione industriale in poi, ha creato regimi politico-ideologici che si basano sul controllo territoriale di risorse finite e, per loro natura, non democratizzabili.[8] Piuttosto, come quadro teorico mediante cui accostarsi ai dati empirici, sembra preferibile la ricerca degli equilibri economico-ideologici e tecnologico-istituzionali, in cui ciascuna dimensione determina l’altra.[9] Ma perché Piketty sceglie una posizione evidentemente unilaterale? Un elemento di risposta lo fornisce Paul Krugman, osservando che oggi la funzione causalmente primaria conferita all’ideologia sta diventando, all’interno della professione economica, la … ideologia dominante: «di questi tempi, attribuire la disuguaglianza principalmente alle forze ineluttabili della tecnologia e della globalizzazione è fuori moda».[10] Tornerò sul possibile significato di questa concezione.
Tesi 4. L’ideologia moderna che giustifica la disuguaglianza è il proprietarismo, che nella sua versione più estrema diventa il capitalismo.
Piketty definisce «il proprietarismo come l’ideologia politica basata sulla difesa assoluta della proprietà privata, e il capitalismo come l’estensione del proprietarismo all’era della grande industria, della finanza internazionale e, oggi, dell’economia digitale» (p.1097). L’idea che «il capitalismo [sia] intimamente legato al proprietarismo» (p.186), riflette con coerenza l’impianto del Capitale nel XXI secolo: in quel libro, infatti, il termine “capitale” indica il valore di mercato della ricchezza complessiva, dai beni finanziari ai terreni e agli immobili, e quindi rimanda ai diritti di proprietà della ricchezza. In questo modo, la storia del capitalismo si trasforma nella storia della proprietà.[11]
Questa sua posizione si oppone ad una lunga tradizione di studi, oggi espressa in particolare dai neo-istituzionalisti, secondo cui il capitalismo è un’economia centrata sull’impresa, una struttura di comando in cui il capitalista vero non è il proprietario dei mezzi di produzione, bensì colui che, dirigendo il processo di produzione, controlla la relazione sociale con i lavoratori. Con una discontinuità rispetto alle economie precedenti, la proprietà viene quindi, nel capitalismo, erosa delle sue principali funzioni, a favore del controllo.[12] È facile rendersi conto che l’adozione dell’una o dell’altra concezione, comporta conseguenze del massimo rilievo quando si pensa alle alternative: lo vedremo tra poco.
Tesi 5. La sinistra occidentale ha perduto ogni capacità egemonica, nell’ultimo quarantennio, per l’incapacità di rinnovare e adeguare la propria ideologia e la propria progettualità politica, specialmente in merito alle questioni fiscali, all’istruzione e alla politica internazionale (pp.822 e 983).
L’involuzione della sinistra politica, europea e statunitense, deriva dalla subalternità, in tutte le sue componenti, prima all’egemonia neoliberista e, più di recente, alla montante prospettiva xenofoba, protezionista e sovranista. A sua volta, tale subalternità scaturisce da un’inadeguatezza delle idee e della cultura politica, che favorisce alla lunga un cambiamento della base sociale: mentre nel dopoguerra gli elettori si dividevano prevalentemente secondo i canoni tradizionali, per i quali chi aveva basso reddito e bassa istruzione si schierava in prevalenza a sinistra, e quelli con alti redditi e alta istruzione stavano soprattutto a destra, oggi gli elettori di sinistra sono caratterizzati da un alto livello di istruzione, e quelli di destra da un più elevato patrimonio (p.827). Pertanto, annota Piketty, negli attuali sistemi politici si alternano al potere un’élite intellettuale benestante “progressista” e un’élite mercantile e finanziaria “conservatrice” (p.975).[13]
Ma, con la sua solita acutezza, Branko Milanovic suggerisce una spiegazione che, integrando quella di Piketty, la riconduce con i piedi a terra. È stato proprio il successo, almeno parziale, delle socialdemocrazie a determinare il mutamento della base sociale della sinistra: l’apertura all’istruzione e ad una condizione benestante, per persone che provenivano da famiglie modeste, ha comportato che costoro continuassero a votare per i partiti collocati a sinistra, mentre di fatto i loro interessi e la loro visione del mondo non corrispondevano più a quelle dei genitori. D’altro canto, immutabilmente, i partiti di destra hanno continuato a rappresentare il mondo degli affari.[14] In Toscana, la regione in cui vivo, questo processo è evidentissimo. È corretto notare che oggi nei principali paesi occidentali si muove una pluralità di élite. Questo fenomeno si è però formato non tanto per le avventure dell’ideologia, quanto per le caratteristiche della recente dinamica del sistema capitalista: da un modello in cui vi era una frazione chiaramente egemone, il sistema è passato ad una configurazione frammentata, che innesca la conflittuale convivenza di una molteplicità di gruppi privilegiati.[15] Questi ultimi, come ammette Piketty, sono animati da «due ideologie meritocratiche, diverse e complementari» (p.927), quella centrata sull’istruzione e quella basata sui soldi. A differenza della lettura dell’autore, tende però a prevalere la complementarità: si manifestano, nei vari paesi occidentali, continui tentativi di costituire un “blocco borghese”, che riconcili la “sinistra intellettuale benestante” e la “destra mercantile”.[16] Insomma, lo scolorirsi delle divergenze politiche deriva non dal dominio, a sinistra, degli intellettuali benestanti, come sostiene Piketty, bensì dalla dialettica tra le élite, che alterna fasi di contrasto a fasi, più frequenti, di mutuo appoggio. Anche questa spiegazione, come quella evocata da Milanovic, richiama una sequenza causale nella quale non sembra che il primum movens sia l’ideologia.
Tesi 6. Il progresso della storia umana avviene entro gli, e grazie agli, Stati nazionali.
Piketty rivisita la grande parte della storia antica mondiale con la categoria delle società ternarie, composte di una classe religiosa e intellettuale, una guerriera e una lavoratrice. In queste società le posizioni sono fisse e la disuguaglianza è severa. Finalmente, con la costruzione dello Stato moderno, la sicurezza di persone e beni viene garantita su un vasto territorio, grazie ad apparati sempre meno legati alla nobiltà militare, mentre l’istruzione e la cultura si svincolano dalla classe clericale (pp.76, 186 e 294). Così, il progresso si realizza mediante «una rigorosa separazione tra diritto di proprietà, ritenuto aperto a tutti, e poteri sovrani, riservati unicamente allo Stato centrale» (p.477).
Un italiano avrebbe più difficoltà di un francese, nel conferire questo ruolo demiurgico allo Stato-nazione: la storia di ognuno conta, sebbene non possa rimpiazzare la teoria.[17] «Purtroppo Piketty indossa sempre le vesti del consigliere di un principe o di un popolo illuminato, che una volta persuaso non avrebbe alcun problema ad applicare le giuste riforme. Nel mondo ideale di Piketty il governo è sempre benevolo. I cittadini si fidano degli uomini politici e non li puniscono quando aumentano le tasse (ma provate a chiedere a Giuliano Amato o Mario Monti). I sindacati non difendono mai le rendite improduttive e non portano mai le aziende al fallimento con la collusione dei politici (avrà sentito parlare di Alitalia?). I ricchi sono fonte di tutti i mali e una volta che ci saremo sbarazzati di loro andrà tutto magnificamente».[18] Questo ruolo demiurgico dello Stato costituisce uno snodo cruciale per l’elaborazione di Piketty, poiché, come vedremo con l’ultima Tesi, il modello di socialismo da lui proposto è essenzialmente una realizzazione statalista.
Tesi 7. Affinché la sinistra occidentale riconquisti l’egemonia, la condizione necessaria e sufficiente è un rilancio ideologico (pp.14, 740 e 859), basato su quattro misure dirigiste introdotte dagli Stati nazionali: i diritti di voto nelle imprese, gli assetti proprietari, l’accesso all’istruzione e la permeabilità dei confini.
Secondo Piketty, per affrontare in modo soddisfacente l’aumento delle disuguaglianze, occorre rilanciare il programma socialdemocratico su proprietà sociale, accesso egualitario alla formazione, imposta progressiva sulla proprietà, dotazione universale di capitale, equilibrio tra i diritti di voto dei dipendenti e quelli degli azionisti, superamento dello Stato-nazione e regolamentazione dell’economia su scala mondiale (pp.659, 661 e 680). Più in dettaglio, il suo modello di socialismo partecipativo, proposto specialmente nel capitolo 17 del libro, poggia su due pilastri, che mirano a superare l’attuale sistema della proprietà privata: la proprietà temporanea e la proprietà sociale. La proprietà diventa temporanea a misura che s’impedisce l’eccessiva concentrazione della ricchezza, mediante imposte progressive sul reddito e sulle successioni. Il capitale non si fossilizza presso gli stessi gruppi, ma circola effettivamente, a misura che il sistema fiscale viene integrato da un’imposta progressiva annuale sui patrimoni, per finanziare una dotazione universale di capitale, ricevuta da ognuno all’ingresso nell’età adulta (in Europa, essa sarebbe pari a 120.000 euro).[19] D’altro canto, la proprietà diventa sociale a misura che, nelle grandi imprese, la metà dei seggi nel consiglio di amministrazione spettino ai rappresentanti dei dipendenti, oppure limitando i diritti di voto degli azionisti che detengono più del 10 percento del capitale dell’impresa.[20] In breve, la proprietà temporanea e la dotazione di capitale garantiscono che la ricchezza non rimanga sempre agli stessi e che non si accumuli più rapidamente di quanto cresce l’economia, mentre la proprietà sociale assicura che nelle imprese le decisioni siano espresse anche dai lavoratori. Accanto a questi pilastri, un terzo riguarda le opportunità d’istruzione dei cittadini: un’altra fondamentale condizione per ridurre le disuguaglianze. Piketty difende, quale criterio di giustizia, che tutti i bambini abbiano diritto alla stessa spesa per l’istruzione (p.1142), e che l’accesso alle migliori scuole avvenga con «un peso molto limitato ai voti (al di sopra di una certa soglia), assumendo come obiettivo prioritario quello della mixité sociale» (p.1146). Infine, l’autore argomenta a favore di un “social-federalismo” nel quale le relazioni socioeconomiche tra i paesi dovrebbero essere soggette a obiettivi vincolanti in materia di giustizia sociale (come un salario minimo e altri diritti dei lavoratori), fiscale (come la tassazione comune minima dei maggiori attori economici transnazionali) e ambientale (come obiettivi verificabili di emissioni di carbonio).[21]
Nelle corrosive parole di Raghuram Rajan, «Piketty vuole tasse drasticamente progressive su reddito, ricchezza, emissioni di carbonio e, se qualcuno è riuscito in qualche modo a trattenere qualsiasi ricchezza dopo tutto ciò, sulle eredità. […] Il governo utilizzerà le entrate per creare un sistema educativo più egualitario, dare una dotazione di capitale considerevole a ogni giovane adulto, in modo che possano studiare di più o aprire un’attività, e garantire a tutti un reddito minimo di base pari al 60% di quello medio, al netto delle imposte sul reddito. Et voilà, abbiamo la società dei nostri sogni».[22] Il punto problematico non riguarda tanto le eventuali conseguenze negative delle imposte progressive su produttività, investimenti o innovazione; e nemmeno la praticabilità di una tassazione del patrimonio: sono queste le obiezioni canoniche della destra, e verso di esse Piketty esibisce robusti argomenti. Il problema sorge piuttosto dalla visione di un post-capitalismo imperniato unicamente sulla redistribuzione dirigistica. Quello che accade all’interno della sfera produttiva e riproduttiva della società, sembra interessare assai poco Piketty. La divisione del lavoro, e quella del rischio sociale, non vengono toccate.[23] Sul controllo gerarchico egli interviene assegnando diritti di voto, negli organismi aziendali, alla burocrazia sindacale. La risposta alle disparità della conoscenza consiste nello spendere lo stesso importo per ogni studente, indipendentemente dalle sue capacità e soprattutto dal suo impegno, e nell’introdurre forme di discriminazione positiva, per l’accesso alle scuole migliori, un meccanismo che può rimpiazzare vecchie con nuove forme di ingiustizia sociale.[24] Il denominatore comune a queste soluzioni è che si tratta di misure dall’alto, giuridicamente uniformi: esse «richiedono, per poter essere realizzate, una capacità statale, amministrativa e fiscale piuttosto avanzata» (pp.1095, 478, 557 e 1164n.).[25] Il rilancio della sinistra è affidato ad un’élite intellettuale e realizzato dallo Stato. «Piketty chiama “socialismo partecipativo” il sistema che dovrebbe prendere il posto del capitalismo. In altri tempi lo si sarebbe semplicemente chiamato capitalismo di Stato».[26]
Avviamoci a concludere.[27]
L’intento di Piketty è dichiarato fin dalle pagine iniziali. Nel suo
libro precedente, l’evoluzione della distribuzione e redistribuzione
della ricchezza venne trattata «come se fosse una specie di scatola
nera» (p.11). Adesso egli s’impegna ad aprire quella scatola, per
documentare che, in ogni luogo e tempo, una coalizione socio-economica
vince o perde «sul terreno delle idee» (p.54). L’evoluzione delle
variabili distributive è dunque determinata, sostiene l’autore,
dall’evoluzione delle ideologie. A loro volta, le ideologie sono la
capacità di dare senso ai propri comportamenti; nel caso in esame, esse
sono la capacità, da parte di una coalizione distributiva o
redistributiva, di «giustificare le disuguaglianze» (p.13). Il
capitalismo, in questa prospettiva, non è che la realizzazione
estremista di un’ideologia, quella proprietarista. Se una coalizione
odierna desidera espungere il capitalismo dalle vicende umane, deve
anzitutto smantellare il proprietarismo «sul terreno delle idee»; una
volta che vi riesce, essa può modificare l’assetto proprietario e
patrimoniale, con interventi a favore della proprietà temporanea e di
quella sociale. Come ho prima rilevato, è questo uno schema che si pone
in linea con una posizione oggi in gran voga all’interno della
professione economica: anziché esaminare come mutano, spesso in maniera
conflittuale, i rapporti tra persone e tra gruppi nelle istituzioni,
esso preferisce ricondurre tutto a una battaglia di idee tra èlite
intellettuali. Ed è uno schema rassicurante: basta che un’élite
intellettuale elabori e affermi idee di sinistra, affinché, con la
sconfitta delle idee di destra, cadano anche le pratiche
dell’ipercapitalismo. Piketty, con i suoi grandi libri, diventa il
campione di questa ideologia.
NOTE
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[1] Thomas Piketty, Capitale e ideologia
(2019), traduzione di Lorenzo Matteoli e Andrea Terranova, La Nave di
Teseo, Milano, 2020. Nel testo e nelle note successive, quando indico
soltanto il numero di pagina, mi sto riferendo a questo libro.
[2] Vedi https://www.huffpost.com/entry/piketty-book-no-one-read_n_5563629?guccounter=1
[3] Vedi Daron Acemoglu e James A. Robinson, “The Rise and Decline of General Laws of Capitalism”, Journal of Economic Perspectives, 29(1), 2015, pp.3-28. La “seconda legge” afferma che il tasso medio di rendimento del capitale oltrepassa durevolmente il tasso di crescita economica, ed è espressa con la formula r>g, dove r indica il saggio di rendimento della ricchezza (ossia profitti netti + rendite in rapporto alla ricchezza netta), mentre g è il saggio di crescita del PIL. A parte i periodi in cui il tasso di crescita del PIL è elevato, come in Europa e negli USA nei decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale o nella Cina odierna, sul lungo periodo la crescita del PIL non supera mai, empiricamente, di molto l’1-1,5% l’anno. D’altra parte la rendita media del capitale è di solito, empiricamente, del 4-5% l’anno. Ma se la rendita del capitale supera il tasso di crescita dell’economia, le disuguaglianze si ampliano, poiché i grandi patrimoni provenienti dal passato si ricapitalizzano più velocemente dell’aumento della produzione e dei redditi. La fondazione teorica di questa legge è affidata a poche osservazioni: oltre ai vantaggi provenienti dalle economie di scala, i grandi patrimoni s’incrementano soprattutto perché hanno accesso a una più ampia gamma di opportunità d’investimento rispetto ai piccoli.
[4] Egli scrive, ad esempio, che «questa è la conclusione più evidente dell’indagine storica qui presentata» (p.20); «grazie alla prospettiva storica che oggi ci è concessa, e soprattutto alla luce dei successi e degli insuccessi osservati nel corso del XX secolo, diventa possibile …» (p.677); «tutti i dati storici oggi disponibili suggeriscono che …» (p.564); «una realtà storica ricca di insegnamenti per il futuro perché permette di eliminare alcune “false piste”» (p.621); «la storia ci dice che» (p.622); «alla luce della storia degli ultimi due secoli» (p.624). Passi analoghi sono numerosissimi. Essi vengono formulati come premessa fondativa per la proposizione che l’autore si accinge a sostenere, sostituendo la giustificazione teorica.
[5] Sul rapporto tra ideologia e politica, in un’intervista Piketty precisa: «Nella mia concezione, l’ideologia è più ampia della politica, ma allo stesso tempo meno istituzionale. Le persone possono nutrire l’ideologia che esprimono nei loro ambienti familiari intimi, o nei romanzi, o in una varietà di forme che non sono direttamente politiche. Ma ovviamente le due nozioni sono molto correlate». Vedi https://tocqueville21.com/interviews/thomas-piketty-capital-ideology/
[6] Paul Mason in https://www.theguardian.com/books/2020/mar/01/capital-and-ideology-thomas-piketty-review-paul-mason
[7] La Tesi 3 è ben espressa in questo brano: «Il mercato e la concorrenza, il profitto e il salario, il capitale e il debito, i lavoratori qualificati e non qualificati, i soggetti nazionali e gli stranieri, i paradisi fiscali e la competitività non esistono in quanto tali. Sono categorie sociali e storiche che dipendono interamente dal sistema legale, fiscale, dell’istruzione e politico che si sceglie di istituire e dalle categorie che ne derivano. Scelte che rimandano prima di tutto alla concezione che ogni società si forma della giustizia sociale e dell’economia giusta, oltre che dei rapporti di forza politico-ideologici fra i diversi gruppi e fra le diverse narrazioni. Il punto importante è che tali rapporti di forza non sono solamente materiali: sono anche, e soprattutto, intellettuali e ideologici. In altre parole, le idee e le ideologie contano, nella storia» (p.20).
[8] Timothy Mitchell, Carbon Democracy. Political Power in the Age of Oil, Verso, London, 2013.
[9] Vedi, ad esempio, Masahiko Aoki, Towards a Comparative Institutional Analysis, The MIT Press, Cambridge (Mass.), 2001; Bruno Amable, “Institutional complementarities in the dynamic comparative analysis of capitalism”, Journal of Institutional Economics, 2016, 12: 1, pp.79-103.
[10] Vedi https://www.nytimes.com/2020/03/08/books/review/capital-and-ideology-thomas-piketty.html
[11] Nicolas Brisset, “Capital and Ideology: a critique”, https://www.researchgate.net/publication/340038031_Capital_and_Ideology_a_critique [12] Vedi, ad esempio, Samuel Bowles, Microeconomics: Behavior, Institutions, and Evolution, Princeton University Press, Princeton, 2006, capitolo 10. [13] Vedi anche Thomas Piketty, “Brahmin Left vs Merchant Right: rising inequality & the changing structure of political conflict”, WID.world Working paper, 7, 2018. Il caso italiano è al riguardo una conferma esemplare: il consenso del Partito Democratico, appare confinato alla classe medio-alta di stampo intellettuale. Vedi Lorenzo De Sio, “Il ritorno del voto di classe, ma al contrario”, 6-3-2018, https://cise.luiss.it/cise/2018/03/06/il-ritorno-del-voto-di-classe-ma-al-contrario-ovvero-se-il-pd-e-il-partito-delle-elite/
[14] Vedi https://promarket.org/2019/09/06/thomas-piketty-new-book-brings-political-economy-back-to-its-sources/
[15] Vedi, ad esempio, due importanti libri di economisti francesi: Bruno Amable, Structural Crisis and Institutional Change in Modern Capitalism. French Capitalism in Transition, Oxford University Press, Oxford, 2017; Robert Boyer, Économie politique des capitalismes, Éditions La Découverte, Paris, 2015.
[16] Vedi Bruno Amable e Stefano Palombarini, L’Illusion du bloc bourgeois. Alliances sociales et avenir du modèle français, Raisons d’agir, Paris, 2017. Lo stesso Piketty si trova, qui e là, a concedere non poco alla posizione di Amable: «La “sinistra intellettuale benestante” infatti appare indecisa tra una posizione a favore della redistribuzione e una più attenta al mercato; allo stesso modo, la “destra mercantile” presenta una fazione tentata da un atteggiamento nazionalista o nativista e un’altra che preferisce una linea orientata principalmente al business e al mercato. Secondo la tendenza prevalente all’interno di ciascun campo o delle nuove sintesi emergenti, possono verificarsi diverse traiettorie e biforcazioni con effetti potenzialmente stabili» (p.961).
[17] Un italiano avrebbe difficoltà a sottoscrivere, ad esempio, questa apologia della tassazione: «Gli strumenti principali che consentono a una comunità di mobilitare risorse per un progetto politico comune sono e rimangono le tasse, discusse e decise collettivamente e poi riscosse, in completa trasparenza, in base alla ricchezza e alla capacità contributiva di ciascuno» (p.806).
[18] Francesco Guala in https://www.doppiozero.com/materiali/la-societa-giusta-di-thomas-piketty
[19] «Il concetto di tassazione giusta deve fondarsi sull’equilibrio fra tre tipologie, legittime e complementari, di tassazione progressiva: imposta progressiva sul reddito, imposta progressiva sulle successioni e imposta progressiva annuale sulla proprietà» (p.626).
[20] Occorre attutire la natura gerarchica dell’impresa capitalista, con l’elezione dei membri del consiglio d’amministrazione da un’assemblea congiunta di azionisti e dipendenti, oppure formando due organi di governo, uno composto da dipendenti e l’altro da azionisti, fra loro paritetici, come accade nelle democrazie rappresentative bicamerali (p.583).
[21] Le implicazioni di questo approccio per l’Unione Europea non le posso affrontare qui. Vedi però il Manifesto, largamente dovuto a Piketty: http://tdem.eu/it/manifesto-2/
[22] Vedi https://www.ft.com/content/5a393b5a-4f23-11ea-95a0-43d18ec715f5
[23] Sul concetto di divisione del rischio sociale, un fenomeno la cui rilevanza è aumentata in tempo di pandemia, vedi Denise Celentano, “Il lavoro diseguale: la lezione del virus”, Micromega, 4/2020.
[24] Vedi, ad esempio, Michael Sandel, Giustizia, Feltrinelli, Milano, 2007, capitolo 7.
[25] In questa chiave, il libro di Piketty si affianca a quello di Saez e Zucman, che sono anche tra i suoi più stretti collaboratori, i quali propugnano una de-globalizzazione della politica fiscale, che dovrebbe tornare appieno sotto la giurisdizione degli Stati-nazione, attaccando la finzione per cui società transnazionali come Apple e Amazon posseggono i beni più preziosi in piccole isole con aliquote fiscali basse, piuttosto che nei paesi occidentali dove stanno le loro sedi direzionali. Gli autori descrivono quattro modalità per tassare il reddito delle grandi imprese. Il primo è la tassazione correttiva: le strategie dei paradisi fiscali diventano inutili, poiché gli Stati nazionali costringono le società situate all’interno dei propri confini a pagare un’aliquota fissa di imposta sull’insieme dei loro profitti, indipendentemente da dove questi vengono guadagnati. Apple o Amazon potrebbero reagire trasferendosi interamente in qualche paradiso fiscale. Per escludere ciò, il secondo pilastro è il coordinamento internazionale intorno a un’aliquota fiscale minima sulle società, che verrà imposta da tutti i paesi alle grandi imprese transnazionali. La terza strategia è quella che Saez e Zucman chiamano tassazione difensiva: i governi nazionali possono addebitare alle società situate altrove un’imposta che viene calcolata sulla base della quota di vendite che ha luogo in quel paese: fintanto che un’impresa vuole vendere nel tuo paese, deve pagare. Infine, gli autori auspicano sanzioni contro i paradisi fiscali. Vedi Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, The Triumph of Injustice: How the Rich Dodge Taxes and How to Make Them Pay, WW Norton, New York, 2019.
[26] Raffaele Alberto Ventura in https://www.lastampa.it/tuttolibri/recensioni/2020/06/20/news/la-ricetta-radicale-di-piketty-per-salvare-il-capitalismo-dalla-rovina-1.38981893?ref=fbpp&fbclid=IwAR0_UZgKhaPRZCNyn1V32BT1SWAI-C6Bt64I90PpTJDsvYbVeI1pUICLiwU
[27]
Varrebbe la pena di aggiungere una Tesi 8, che riporto in nota perché
meno organicamente inserita nel filo della mia esposizione. Essa dice: le sfide decisive della disuguaglianza e del clima si affrontano assieme.
L’aumento delle disuguaglianze e il cambiamento climatico
costituiscono, per l’autore, i problemi decisivi del pianeta all’inizio
del XXI secolo. Ma «la risoluzione del problema del riscaldamento
globale, o almeno una sua mitigazione, richiederà mutamenti sostanziali
degli stili di vita. Affinché questi siano considerati accettabili dalla
grande maggioranza delle persone, è essenziale che i sacrifici
richiesti siano ripartiti nel modo più equo possibile. Una simile
esigenza di giustizia è tanto più evidente, in quanto sono proprio i più
ricchi – sia i paesi, sia gli individui residenti nei paesi – i
responsabili di una quota sproporzionata delle emissioni di gas serra,
mentre le conseguenze del cambiamento climatico si riveleranno molto più
gravi per i più poveri» (p.750). L’argomento è corretto. Appare però
riduttivo misurarsi con il tema ecologico attraverso il solo prisma
della disuguaglianza. Le ragioni del possibile collasso della biosfera
non vengono discusse in alcuna parte del libro. Piketty dichiara che le
due sfide «sono strettamente collegate» (p.750), ma di fatto ne analizza
soltanto una.
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