Anteprima – E’ in uscita nelle librerie Tondini di ferro e bossoli di piombo. Una storia sociale delle Brigate rosse, di
Matteo Antonio Albanese, Pacini editore. Il volume, che si ferma al
1974, propone alcune importanti scoperte documentali e delle nuove
proposte interpretative che faranno discutere. Ne ho parlato con
l’autore.
Alcuni
anni fa il sociologo Pio Marconi scrisse che le Brigate rosse,
attraverso la categoria di Stato imperialista delle multinazionali,
avevano individuato con largo anticipo la fase di internazionalizzazione
del modo di produzione e del mercato capitalistico, successivamente
definito “globalizzazione”. Nel tuo lavoro aggiungi un fatto nuovo:
sostieni che le Brigate rosse furono in assoluto le prime ad introdurre e
descrivere il fenomeno della globalizzazione del sistema capitalistico.
Puoi spiegare come sei giunto a questa scoperta?
Lessi alcuni dei lavori di Pio Marconi mentre preparavo il mio progetto di ricerca per l’ammissione al dottorato. Mi ricordo che in quei mesi avevo cominciato a leggere con un poco di attenzione le varie pubblicazioni, scientifiche e non, sul fenomeno brigatista. Vivendo, allora, a Milano mi sembrò naturale cominciare un giro dei vari luoghi della città in cui quella memoria era stata in qualche modo conservata.
La
libreria Calusca e l’archivio Primo Moroni sono stati passaggi
importanti per cominciare ad inquadrare il fenomeno. Nello specifico,
però, fu una bancarella di libri alla festa de l’Unità il luogo dove trovai, ed acquistai, un paio di numeri di Sinistra Proletaria.
Un articolo, in particolare, mi colpì molto: era intitolato “la globalizzazione del capitale finanziario” ed è contenuto nel numero luglio-settembre 1970.
Nel
corso degli anni ho poi avuto modo di scoprire, grazie ad Harold James,
professore di storia economica a Princeton, che quella definizione
elaborata in quella data anticipava di quasi un anno la prima
categorizzazione conosciuta di questo fenomeno in questi termini (tutti i
riferimenti sono presenti in un articolo scritto da me e Harold James
ed uscito il 2 febbraio 2011 su Project Syndicate).
Mi
sembra, poi, interessante ricordare come, tra le carte del fondo Pci
all’Istituto Gramsci di Roma, mi sono imbattuto nella stessa
pubblicazione che, evidentemente, i militanti del Pci deputati allo
studio dei gruppi della sinistra extraparlamentare avevano trovato,
ritenuto degno di nota e catalogato.
Era
una prima ma fondamentale scoperta “archivistica” che ha cominciato a
farmi riflettere sulla dimensione del dibattito in corso in quegli anni e
che mi riportato alla memoria alcuni saggi sui Quaderni Piacentini e poi su Quaderni Rossi.
Ecco,
credo che lo sforzo più grande non sia solo confinato al mero dato
cronologico dell’utilizzo della categoria, che pure rimane indicativo,
ma che, invece, ci metta nella direzione per contestualizzare
quell’utilizzo, per comprenderne i legami semantici e politici dentro un
campo politico preciso.
Ancora
oggi molti studiosi e osservatori che si occupano dell’esperienza
brigatista si soffermano su una loro presunta inadeguatezza culturale,
eppure queste scoperte storiografiche ci descrivono una situazione
diversa. Alla luce di queste nuove evidenze, che giudizio suggerisce
allo storico la distanza che emerge tra il respiro prospettico
dell’analisi brigatista e il tatticismo nel quale era incagliato il Pci,
alla continua ricerca di formule e alleanze politiche che gli
fornissero una legittimazione istituzionale?
La domanda è molto importante e la sua risposta per cercare di essere esaustiva necessita di una precisazione importante. Le Brigate rosse sono state un gruppo rivoluzionario, il partito comunista in quegli anni aveva da tempo dismesso l’idea e ogni tipo di strategia rivoluzionaria.
La domanda è molto importante e la sua risposta per cercare di essere esaustiva necessita di una precisazione importante. Le Brigate rosse sono state un gruppo rivoluzionario, il partito comunista in quegli anni aveva da tempo dismesso l’idea e ogni tipo di strategia rivoluzionaria.
Non
dico assolutamente che dentro quel partito non fossero rimaste culture e
fascinazioni rivoluzionarie, ma credo sia storicamente accurato dire
che il Pci non fosse un’organizzazione che si poneva la rivoluzione come
orizzonte strategico.
Le
Br invece sì. Le Br, al pari di molti altri soggetti rivoluzionari (o
presunti tali) del tempo, nascono e crescono dentro un dibattito
internazionale sulle forme di trasformazione. Fu un dibattito articolato
e ricco che ebbe la fortuna di vivere anche grazie all’apporto di
alcuni dei migliori intellettuali del momento.
Le
Br, poi, fanno un passo ulteriore e cioè quello dell’intuizione – più
che di piena comprensione parlerei di intuizione – della
globalizzazione. Sono convinto che l’internità ad alcune realtà di punta
del capitalismo di quel periodo abbia fornito la “materia prima” per
quell’analisi sviluppata dal gruppo di studio interno della Ibm; a
questo aspetto si unisca la sensibilità di Curcio (e di altri tra cui
Margherita Cagol il cui ruolo, forse, è troppo sottostimato) che aveva
studiato intensamente la sociologia industriale americana.
Se
di inadeguatezza, invece, si può parlare questa, a mio modo di vedere, è
sulla ricaduta politica di quella trasformazione. L’idea che la crisi
del fordismo, ed in ultima analisi della sua scomparsa dal mondo
occidentale, potesse essere l’occasione per una rivoluzione in senso
socialista rimane il punto debole dell’analisi brigatista.
Non
è, questa, una critica che si possa muovere alle sole Br, in quanto
molti altri gruppi, da prospettive differenti, cadono nello stesso
errore. L’errata valutazione del profondo cambio sociologico, financo
antropologico, che stava avvenendo dentro la classe operaia e le sue
strutture sfugge all’analisi della sinistra rivoluzionaria.
Da
questo punto di vista la lenta trasformazione del Pci in partito
socialdemocratico, elemento colto pienamente da Moro, è irreversibile e
profondamente innervato nel corpo vivo di quel partito e la sua ricerca
di una diversa collocazione sia internazionale che istituzionale, già
cominciata sul finire degli anni ’60, rimangono il nodo storiografico e
politico ineludibile.
Eppure
la scelta di portare l’iniziativa armata fuori dalle fabbriche mettendo
radice nei territori ed in particolare nelle periferie di alcune grandi
città, come Roma, poi Napoli (in quelle milanesi – come sottolinei nel
tuo lavoro – erano presenti fin dalla nascita), sembra dimostrare che le
Br fossero consapevoli di questa mutazione (sulla scia della
riflessione che proveniva dell’esperienza operaista). Più che l’avvio di
un processo rivoluzionario, la distanza storica ci permette forse di
dire che esse agirono come una controtendenza che si oppose ai processi
di ristrutturazione produttiva dell’economia e dello Stato? Si può dire
che la presenza della lotta armata ha ritardato di almeno un decennio la
rottura di quegli argini che hanno lasciato via libera agli spiriti
animali del capitalismo ultraliberale più selvaggio? In fondo la Fiat
riesce a realizzare la massiccia ondata di licenziamenti, i famosi 23
mila del settembre 1980, solo dopo lo smantellamento della colonna
torinese e genovese provocata dalla delazione di Fabrizio Peci.
Come cercavo di dire, ed è per questo che nel libro si può incontrare spesso la parola “cultura” e la categoria di habitus,
le Br sentono questo cambiamento, lo avvertono e non sono sole. Tutta
l’elaborazione negriana sull’”operaio sociale”, che affonda le proprie
radici nel pensiero di Tronti (anche in polemica con esso), è un
processo di riflessione collettiva sulle trasformazioni in atto.
Per
intenderci, non credo ai cattivi maestri; penso che da un punto di
vista storico siano i processi, che sono plurali per loro natura e,
molto raramente i singoli, a fare la differenza.
Insomma,
in Italia, e non solo, c’è un processo endogeno di lunga durata che
investe centinaia di migliaia di persone (alle elezioni del 1972 le
liste alla sinistra del Pci raccolgono mezzo milione di voti) e che per
almeno un decennio ha un problema centrale: la presa del potere e la
rivoluzione in un paese come l’Italia.
Possiamo
leggere le Br fuori da questo contesto? No, non scherziamo. Ora se il
processo di cambiamento del modello produttivo (non del modo,
chiaramente) è un accidente che dura da circa 4 decenni, le variabili da
considerare sono molte. È stato Serge Mallet a scrivere di questa
trasformazione già agli inizi degli anni ’60 soprattutto, come spesso
avviene, nelle realtà più avanzate del capitalismo francese.
La
riproduzione sociale del capitale portava, quasi (il “quasi” è
estremamente importante) forzosamente, le lotte fuori dalla fabbrica. Di
nuovo non sono le sole Br a riflettere su temi quali la casa, i
trasporti ed in generale alle condizioni extra-produttive della vita dei
lavoratori ma stanno dentro un movimento ampio. Sicuramente furono un
fenomeno di controtendenza e la loro presa dentro le fabbriche e nei
quartieri popolari si può, ed a mio parere si deve, leggere dentro il
contesto della crisi.
Quanto,
poi, quella crisi si sia dipanata anche a causa dell’azione dei
soggetti e quanto, invece, abbia vissuto di tempistiche legate al
progetto di ristrutturazione che investiva un ciclo produttivo sempre
più globalizzato è, a mio parere, solo abbozzato nel libro e mi
riprometto di studiarlo in maniera più approfondita.
Proponi
una strumentazione concettuale ispirata alla lezione di Pierre
Bourdieu, in particolare ti soffermi con molta efficacia sulla nozione
di “habitus” e sul peso che ha avuto nel determinare la radicalità del
movimento operaio e di altri segmenti sociali che si intrecciano e
associano alle sue lotte fino alla crescita di una area politica
rivoluzionaria alla sinistra del Pci.
Non posso assumermi meriti non miei; fu il mio allora relatore di dottorato Gerhard Haupt, che è un profondo conoscitore del pensiero di Bourdieu, ad indirizzarmi in questa direzione. Da parte mia ho cercato di calare quella teoria sia dentro le ricerche esistenti, da Marco Revelli a Giuseppe Berta ed altri, e alle carte degli archivi sindacali che ho visitato.
Non posso assumermi meriti non miei; fu il mio allora relatore di dottorato Gerhard Haupt, che è un profondo conoscitore del pensiero di Bourdieu, ad indirizzarmi in questa direzione. Da parte mia ho cercato di calare quella teoria sia dentro le ricerche esistenti, da Marco Revelli a Giuseppe Berta ed altri, e alle carte degli archivi sindacali che ho visitato.
In
particolare, mi colpirono molto una serie di volantini di alcune
fabbriche del milanese datati fine 1972 (Borletti ed altri) che
cominciavano a parlare delle lotte contro la cassa integrazione e contro
i primi processi di internazionalizzazione delle produzioni. Questi
primi “sintomi” di globalizzazione si legavano a doppio filo non solo
con l’articolo di Sinistra Proletaria che ho già citato, ma anche con un
volantino molto simile dei Comitati di Base Pirelli dell’ottobre 1969.
Di
fronte a queste testimonianze documentali ed a questa letteratura ho
cominciato a pensare alla tuta blu non solo come abito ma come habitus,
appunto, come conglomerato sociale e culturale e come narrazione
salvifica che era stata “venduta” ai milioni di contadini che emigrarono
al nord con il sogno del posto fisso in fabbrica.
Una fabbrica che, invece di espandersi, come pensava un certo operaismo, stava cercando di fuggire verso
altri lidi. Cosa succedeva a quella narrazione ed a quel sogno
inseguito con tanta caparbietà da quella generazione? Come mutava non
solo la condizione sociale e culturale di chi perdeva il lavoro ma anche
quella dei figli di quel soggetto?
Ecco, credo che se la guardiamo attraverso questa lente, e tenendo presente che per il filosofo francese la “costruzione” dell’habitus
è un processo di violenza simbolica, e qui di violenza si parla, le due
cose non possano essere non messe in collegamento. Un collegamento non
diretto e meccanicista ma culturale, sociale e di narrativa.
Per
quanto riguarda la nascita alla sinistra del Pci credo che il tutto
vada messo nella giusta ottica; soggetti, pur piccoli, alla sinistra del
Pci esistono dal 1960 con le varie scissioni di gruppuscoli maoisti che
cominciano a portare una critica serrata a quel partito che si stava,
inesorabilmente, trasformando.
Semmai
c’è da porsi la domanda di quanta compenetrazione ci fu tra gruppi
della sinistra extraparlamentare e movimento operaio, perché se è vero
che gli studenti “andarono al popolo” non penso che questo dato vada
sovrastimato, senza sottolineare anche le diffidenze che pezzi di mondo
del lavoro mantennero sempre nei confronti di quei giovani che, spesso,
provenivano, comunque, da contesti sociali più agiati.
L’arco
temporale che affronti nel volume va dal 1968 al 1974. Un periodo
caratterizzato da mutamenti sociali ed economici rapidi, drastici
passaggi di fase: in quegli anni si sviluppa fino al suo apice la spinta
delle lotte operaie tra biennio 68-69 e fazzoletti rossi alla Fiat, ci
sono eventi acuti come lo stragismo, lo choc petrolifero. Le Br non
credono a svolte golpiste, sono molto attente invece alle proposte
avanzate dalla Trilateral, raccolte nel famoso rapporto preparato da
Croizier e Huntigton sulla “crisi della democrazia”
e la loro governabilità. Tuttavia nello loro prime azioni selezionano
obiettivi che appartengono a quel personale fascista recuperato dagli
apparati di comando delle imprese. Come spieghi questa dualità?
A questa domanda, in realtà, hanno risposto le Br nell’autointervista che è pubblica fin da subito, nel 1971: i fascisti, o meglio il neofascismo, rimane lo strumento del capitale, ma il progetto non è più quello di una svolta dittatoriale ma la costruzione di una cultura autoritaria di massa.
A questa domanda, in realtà, hanno risposto le Br nell’autointervista che è pubblica fin da subito, nel 1971: i fascisti, o meglio il neofascismo, rimane lo strumento del capitale, ma il progetto non è più quello di una svolta dittatoriale ma la costruzione di una cultura autoritaria di massa.
In
questo sta la distanza con Feltrinelli che, invece, pensava ad una
riedizione del fascismo tout-court. Questa linea che si intravede già
nelle rivendicazioni delle prime azioni con la dicitura «fascisti in
camicia bianca» porterà, come conseguenza logica, allo sviluppo della
campagna di primavera del 1974 con il rapimento Sossi.
Va
da sé, però, che le Br hanno nei primi anni della loro vita politica
due obiettivi: il primo è quello di accreditarsi presso il soggetto
sociale di riferimento che era la classe operaia e, quindi, intervenire
sulle contraddizioni quotidiane dei luoghi in cui militavano era quasi
scontato. Le Br nascono in fabbrica, e molto meno nel movimento
studentesco, e da lì “devono” partire.
Hanno,
però, sempre ribadito, fino a dire nel 1973 che i fascisti erano di per
sé poco importanti, che il progetto delle classi dominanti era quello
della costruzione di una democrazia autoritaria di stampo gaullista.
C’è, poi, un altro elemento centrale: l’egemonia sulla classe operaia si
svolge con e contro un avversario politico: il Pci ed è per questo che
la relazione con quel partito e le sue strutture fu così importante.
Veniamo
ad un’altra novità che si trova nel tuo libro: negli archivi del Pci
hai trovato due documenti inediti che mettono in luce nuovi aspetti del
rapporto conflittuale tra Pci e Br. Ce ne puoi parlare?
Sì, nell’archivio del Pci trovo documenti che, insieme alle interviste, mi aiutano a comprendere meglio la relazione tra Br e Partito: una relazione che, lo ripeto, è quanto meno duale.
Sì, nell’archivio del Pci trovo documenti che, insieme alle interviste, mi aiutano a comprendere meglio la relazione tra Br e Partito: una relazione che, lo ripeto, è quanto meno duale.
Quello
che mi interessava sottolineare erano due punti e credo, anche grazie a
questa documentazione di esserci riuscito: il Pci conosceva le Br e le
conosceva bene. Sapeva non solo chi fossero, almeno a grandi linee, ma
ne conoscevano la linea politica perché le Br erano soggetto interno
alla classe ed alle sue organizzazioni.
Su
questo punto non si può più tornare indietro. Di conseguenza tutta la
pubblicistica sulle “sedicenti” Br va letta ed interpretata come uno
scontro, quasi una pedagogia nel paternalismo che caratterizzava quel
partito, tutto interno alla sinistra italiana. Sono convinto che,
anziché affidarsi a strambe teorie del complotto, vada letto lo scontro
in atto tra un partito, enorme ed innervato nella società, contro un
gruppo rivoluzionario.
Almeno
fino alla fine del 1973 questo scontro il Pci cercherà di regolarlo,
appunto, come uno “screzio di famiglia” (altro che album!). Non le
disconosce le Br, anzi, le riconosce pienamente come avversario e le
tratta con condiscendenza nell’idea, assolutamente fondata, che fossero
espressione del radicalismo espresso da pezzi di movimento ed ha
l’obiettivo di far rientrare quel gruppo, o almeno una gran parte di
esso, dentro l’alveo della sinistra istituzionale.
A questo compromesso le Br non scendono e lì si apre tutta un’altra storia ed una diversa relazione politica tra i due soggetti.
In effetti c’è un’ammissione fatta da Enrico Berlinguer, nel corso di una intervista a Repubblica
del 22 aprile 1978, nella quale il segretario del Pci dichiara che le
Br: «sono i nostri antagonisti diretti, sostenitori di un’opzione
alternativa nella sinistra». Una frase pronunciata nei giorni del
sequestro Moro, stranamente sfuggita al linguaggio sempre controllato di
Berlinguer e che tuttavia non ha mai attirato l’attenzione degli
storici.
Tonino
Paroli, uno degli esponenti del gruppo dell’appartamento che partecipò
alla fondazione delle Br, da me interpellato sui documenti che hai
scoperto, si è mostrato molto perplesso. Sostiene che nessuno dei Br che
provenivano dall’esperienza dell’appartamento è poi rientrato nel Pci. A
suo avviso, probabilmente, si tratta di alcuni esponenti
dell’appartamento che hanno frequentato il Cpm, Sinistra proletaria,
magari sono andati un pochino oltre, forse commettendo anche qualche
piccola azione illegale, ma poi si sono fermati rientrando nel Pci.
Allora la domanda ha una sua complessità e devo dividere la risposta in due parti: in primo luogo è assolutamente possibile che l’interpretazione di Paroli sia esatta: quelli che si ritrovano a bussare alla porta del partito sono stati elementi “minori” che non hanno, poi, aderito integralmente al progetto politico brigatista.
Allora la domanda ha una sua complessità e devo dividere la risposta in due parti: in primo luogo è assolutamente possibile che l’interpretazione di Paroli sia esatta: quelli che si ritrovano a bussare alla porta del partito sono stati elementi “minori” che non hanno, poi, aderito integralmente al progetto politico brigatista.
Questo,
però, ci parla di nuovo della dimensione assunta, in un certo momento,
dal fenomeno Br. Quanti sono stati le donne e gli uomini che hanno
gravitato in quell’area in diversi momenti? A mio parere molti di più di
quanto ancora oggi non si sappia o non si voglia sapere.
Questo,
in sé, non muta la natura di quel documento, non sposta di una virgola
il nodo della relazione politica tra Br e Pci e non la sposta anche
perché, almeno fino alla fine del ’73 le Br non sono, da un punto di
vista strettamente penale – che era quello che più preoccupava il Pci –
accusate di grosse cose.
A
dirla così oggi, si può sorridere, ma il livello di illegalità sul
quale si muovevano le Br non era affatto dissimile da quello di decine e
decine di altre sigle più o meno estemporanee della sinistra italiana
inclusi alcuni membri del Pci.
Quello
che è interessante in quel documento non è tanto che alcuni militanti,
inseriti a pieno titolo o meno cambia poco in quella fase, vogliano
ritornare nel Pci spaventati o perché, forse, fanno considerazioni
politiche altre, ma è la risposta del partito ad essere importante con
tutto ciò che ne consegue.
Il
secondo punto, poi, che mi fa riflettere su quanto detto da Paroli
afferisce alla seconda mandata di documenti – come sai, sono 2 fascicoli
diversi – in cui si parla apertamente di elementi a quell’epoca di
punta delle Br conosciuti dal Pci e c’è la famosa proposta di collegio
di difesa pagato dal Pci a membri delle Br.
Questo
accenno è importante non solo perché lo riporta anni prima Franceschini
nel suo libro, ma anche perché lo ribadisce Curcio nel corso della sua
chiacchierata con me, quando mi dice che vi fu una riunione tra Br ed
alcuni esponenti del Pci; riunione nel corso della quale la proposta fu
formalizzata e respinta dalle Br.
Tre indizi, insomma mi sembrano sufficienti a fare, non dico una prova, ma almeno ad indicare una direzione di ricerca.
Nel corso delle tue ricerche sulle relazioni tra Pci e Br dài
corpo al dubbio che l’operazione Girotto, che portò all’arresto di
Curcio e Franceschini, non sia opera solo di Dalla Chiesa, ma ci sia
stato anche un intervento pesante del Pci.
Come giustamente dici, è un dubbio. La storia si fa solo con i dubbi i quali però devono essere supportati da qualche indizio documentale. Su questo punto, lo dichiaro nel libro, non ho prove schiaccianti, ma solo un’inferenza logica che non è sufficiente; non prova nulla ma apre, semmai, la strada per eventuali altre ricerche.
Come giustamente dici, è un dubbio. La storia si fa solo con i dubbi i quali però devono essere supportati da qualche indizio documentale. Su questo punto, lo dichiaro nel libro, non ho prove schiaccianti, ma solo un’inferenza logica che non è sufficiente; non prova nulla ma apre, semmai, la strada per eventuali altre ricerche.
La
risposta sta nella domanda successiva. Se il Pci deve intervenire nel
corso del processo Sossi per bloccare la disponibilità di Cuba ad
ospitare i militanti della XXII ottobre in caso di scarcerazione, com’è
possibile che poche settimane dopo si presenti un ex prete guerrigliero
chiedendo informazioni sulle Br portandosi dietro delle credenziali
cubane?
Non
mi sembra né un caso né, in quel clima politico internazionale, una
svista possibile. Girotto fa il nome di un uomo dei servizi cubani che
gli firma una lettera con la quale si presenta a Lazagna, lo stesso
Lazagna non si fida pienamente di lui. Ora è possibile che i cubani,
ripeto poche settimane dopo il problema con Sossi ed i militanti della
XXII ottobre, non si pongano il problema prima di firmare “patenti di
comunismo” ad un italiano di avvisare il partito comunista italiano? A
me, francamente pare inverosimile.
Per
di più, e questo ce lo dice Dalla Chiesa, sappiamo che dopo il rifiuto
delle Br all’offerta del partito, il Pci comincia un’opera di
collaborazione con la polizia che diventerà sempre più stretta con il
passare degli anni e con l’aumento della ferocia degli attacchi
brigatisti.
Di nuovo tre indizi non faranno una prova ma ci indicano una direzione fino ad oggi negletta.
Nel
volume citi una significativa testimonianza di Sergio Flamigni che, a
mio avviso, rende palese quanto sia falsa e dolosa la narrazione
dietrologica avviata dal Pci negli anni 80. Se Berlinguer è costretto a
chiamare Mosca per chiedere di fare pressione su Fidel Castro, affinché
ritiri la propria disponibilità ad offrire asilo ai militanti della XXII
ottobre in cambio della liberazione di Sossi, cosa mai c’entrano la
Cia, la Nato, gli americani, la P2? E’ una storia tutta interna alla
terribile dialettica del movimento comunista. Dubito che Flamigni non
abbia avuto mai conoscenza dei documenti della federazione di Reggio
Emilia. Sulla storia delle Brigate rosse la sua posizione è dettata da
una malafede totale.
La testimonianza di Flamigni sulla telefonata è stata molto importante: tu dici dolosa, posso concordare, io ti dico dolorosa. Intendiamoci, non giustifico il complottismo, non mi piace e credo sia chiaro; penso anche, però, che per molti militanti e dirigenti del Pci di quella generazione e di quella successiva sia stata incomprensibile la rottura.
La testimonianza di Flamigni sulla telefonata è stata molto importante: tu dici dolosa, posso concordare, io ti dico dolorosa. Intendiamoci, non giustifico il complottismo, non mi piace e credo sia chiaro; penso anche, però, che per molti militanti e dirigenti del Pci di quella generazione e di quella successiva sia stata incomprensibile la rottura.
Per
quanto conoscessero a fondo, anche per via dell’infiltrazione che
praticavano in molti gruppi, le tematiche che si agitavano dentro la
sinistra rivoluzionaria, non hanno mai compreso e non sono riusciti a
processare quello che, ai loro occhi, era un tradimento. Di fronte a
questo tradimento hanno reagito costruendosi una comoda realtà parallela
nella quale chiunque rifiutasse la via Pci era, per forza, manipolato o
peggio prezzolato.
Lo
dico nel libro, il livello di paranoia era altissimo ma, allo stesso
tempo, sono gli anni delle stragi e delle trame neofasciste, non
possiamo non tenere conto di questo dato. Se mi chiedi cosa c’entrassero
la Cia o la Nato con l’operazione Sossi ti dico: assolutamente nulla.
Allo stesso tempo quei soggetti erano presenti in modo decisivo nel
paese in quegli anni. Lo spettro dell’interferenza americana era una
costante ad ogni livello.
Ripeto
il disastro creato dal complottismo è enorme e serviranno anni per
uscirne, ma allo stesso tempo non si deve ignorare che le trame per la
destabilizzazione del paese c’erano ed erano reali. Sia chiaro il
complottismo non fa bene alla ricostruzione storica di quegli come di
altri eventi, ma è altrettanto vero che per decenni si è chiesta una
verità almeno storica sulle stragi e siamo ancora lontani dall’aver
accesso a tutti i documenti che, probabilmente, farebbero chiarezza su
molti aspetti.
Sulla
questione delle stragi, della cosiddetta “strategia della tensione” che
ritengo una categoria inadeguata, tendo a separare il dato
storiografico assodato – gli attentati dinamitardi realizzati in grande
quantità in quegli anni dall’estrema destra con la supervisione, il
controllo a distanza, il lasciar fare, degli apparati, le connessioni
con alcuni servizi militari esteri – dall’uso politico che di tutto ciò
si è fatto. La denuncia di trame e complotti è diventato dentro la
sinistra un alibi per giustificare i propri fallimenti politici,
l’incapacità di leggere i mutamenti di fase, giustificare la continua
ricerca di un capro espiatorio su cui riversare i propri insuccessi: da
Portella delle Ginestre fino al ponte di Genova, la storia della
Repubblica viene letta come un continuum criminale di trame animate da
un disegno comune, una «scatola nera unica», come ha scritto tempo fa
Travaglio (che di sinistra non è). De Lorenzo, le stragi, Moro, l’agenda
rossa, Berlusconi, la trattativa Stato-Mafia.
Penso
ad un magistrato come Guido Salvini che tanto ha fatto per ricostruire
le vicende di piazza Fontana e Brescia. Nominato consulente della
commissione Moro 2, chiusasi senza risultati, si è mosso con lo stesso
paradigma di pensiero. Convinto che la storia delle Br e del sequestro
Moro non fosse diversa da quella delle stragi di Stato, ha fatto una
pessima fugura.
Come
sai mi sono occupato per parecchi anni, ed ancora lo faccio, di
estremismo di destra e neofascismo, quindi, parlo con un poco di letture
alle spalle e quel minimo di approfondimento della questione: sono
d’accordo quando dici che “strategia della tensione” è una categoria
inadeguata, tanto quanto lo è quella di guerra civile strisciante per intenderci.
Ci
siamo, forse, tutti me compreso, adagiati su questa dicitura
giornalistica che, però, ha il pregio dell’immediatezza. Di nuovo debbo
spezzare la risposta in due punti: in primo luogo il disegno che vede
insieme pezzi degli apparati di sicurezza dello Stato, non solo
italiani, ed estremismo neofascista, per quanto fosse gridata a gran
voce da molti- penso al libro inchiesta su Piazza Fontana, che pur
contenendo alcuni errori si rivelò nel tempo piuttosto preciso – tu sai
bene quanti anni ci sono voluti per appurare da un punto di vista penale
e storico quei legami e quelle responsabilità.
Questo ci rimanda direttamente alla costante e meticolosa opera di disinformazione posta in essere da quel grumo di poteri
che comprendevano mass media, uomini d’affari, pezzi della maggioranza
governativa, alte schiere militari, solo per citarne alcuni. Capisci che
in quegli anni fu estremamente difficile per tutti riuscire ad
intravedere la verità dietro quella cortina di fumo.
Per
quel che riguarda, invece, l’uso strumentale che una certa sinistra ha
fatto nel corso degli anni dello stragismo, io credo che ci sia
un’ulteriore precisazione importante: tu parli di incapacità di leggere i
mutamenti e posso essere d’accordo, io, però, non sottovaluterei delle
scelte che vengono fatte in maniera consequenziale.
L’idea
della trasformazione dell’Italia in una democrazia parlamentare
maggioritaria all’interno della quale il Pci si trasformasse in un
partito socialdemocratico era l’asse portante della strategia di Moro,
ma non è che a Botteghe Oscure non lo sapessero. L’idea che bisognasse
uscire da una fase di contrapposizione sociale fino ad espellere
qualsiasi forma di contrasto – Schmitt direbbe di politica – non è un’idea soltanto della Dc.
Allora,
io credo che i risultati di alcune inchieste saranno sempre poveri se
non si fa lo sforzo di comprendere come sia cambiato il quadro di
riferimento politico, e anche sociale, del paese tra la metà degli anni
’70 fino al 1992, con la scomparsa dei regimi sovietici.
Veniamo
agli aspetti, a mio avviso, problematici della tua ricerca: introduci
una periodizzazione innovativa che anticipa di due anni la svolta delle
Br con l’assalto alla sezione missina di Padova, del 1974, anziché con
l’azione Coco del 1976.
Le
periodizzazioni in storia sono sempre difficilissime; quello che ho
tentato di fare è di dare unitarietà alla storia brigatista di quei
primi anni. L’omicidio Coco è la continuazione dell’operazione Sossi ma,
nel frattempo, l’omicidio è già entrato nella storia delle Br. Inutile
nasconderci dietro un dito il fatto che a morire siano stati due
militanti missini per anni ha fatto sì che questo episodio venisse in
qualche modo derubricato a momento secondario e minore.
Le
divisioni tra prima e dopo non mi fanno impazzire ed il tentativo di
riportare la morte di Giralucci e Mazzola dentro l’alveo della storia
brigatista, a mio parere, è una parte importante di un ragionamento: le
Br erano un gruppo armato e la questione, almeno a livello teorico, era
patrimonio culturale e politico condiviso. Su questo, infatti, c’è una
distanza enorme con altre sigle che in quel periodo avevano le stesse
pratiche ma non rivendicavano, come la nascente Autonomia Operaia.
Se
assumiamo la rivendicazione, di cui parlerò dopo, come gesto politico
allora gli va dato il giusto peso ed a quel momento (che, ricordiamolo,
avviene a ridosso della strage di Brescia), va attribuita una valenza
che può fare da spartiacque; anche se, ripeto, vedo una rottura nella
storia brigatista almeno non fino al cambiamento sociologico portato dal
movimento del ’77 che fu, effettivamente, peculiare.
E’
vero, la scelta di assumere politicamente quelle uccisioni ha una
valenza particolare sempre sottovalutata dal punto di vista
storiografico, vicenda che per altro provocò la rottura dell’asse con
Negri e l’uscita dei suoi dalla rivista Controinformazione.
E’ anche vero che questo episodio smonta l’artificiosa suddivisione tra
prime Br, vere, integre e buone, e le successive: quelle morettiane,
sanguinarie e “dubbie”. L’orizzonte dell’omicidio politico era già stato
oltrepassato ben prima, quando a dirigere il gruppo c’erano ancora
Curcio e Franceschini. Inoltre, pochi mesi dopo, a settembre, Carlo
Picchiura, membro della nascente colonna veneta, in un conflitto a fuoco
occasionale ad un posto di blocco, uccise un agente di polizia.
Tuttavia, la vicenda di Padova fu un incidente di percorso: un’azione
pianificata male e realizzata peggio. L’azione Coco resta un punto di
svolta perché dopo una fase di confronto nazionale, una sorta di tavolo
comune che riuniva diversi gruppi e aree combattenti, le Br rompono gli
indugi e tornano sulla scena concludendo l’azione Sossi, dopo aver
avviato una importante riorganizzazione interna e logistica. Stavolta
non vi è nulla di improvvisato, ma l’intenzione di indicare a tutto il
movimento rivoluzionario quale è la via da seguire se si vuole fare la
lotta armata in Italia.
L’azione
Coco è un’azione preparata e pensata come risposta diretta di tutta
l’organizzazione alla campagna contro Sossi, su questo punto non ci
piove. Ed il momento di confronto con le altre sigle rafforza la mia
idea.
Eravamo
in una fase di stallo dal punto di vista di coloro i quali pensavano
alla lotta armata. Rimane, a mio parere, importante l’azione padovana
perché per chiunque, persino per le “cattivissime” Brigate rosse,
uccidere un uomo (o due come nel caso specifico) è un passo gigantesco.
Affermare i principi della lotta armata e praticarli sono cose diverse.
L’azione
padovana è pensata (non è per intenderci un brigatista che vistosi
fermare ad un posto di blocco inatteso, spara) ed attuata male, lo
dicono tutti. La mia domanda di ricerca, la cui risposta come capita a
chiunque può anche non essere corretta, è stata: nella pianificazione di
quell’azione pensata e svolta così male, c’è la possibilità che alcuni
membri delle Br abbiano visto un’opportunità?
In
realtà non ho fatto altro se non trattare le Br per quelle che furono,
cioè un gruppo politico armato, e sgombrare il campo da un mostro
mitologico che è stato rappresentato come un cubo unanime e non
scalfibile.
Altra
questione da te proposta è la presenza di una dialettica interna tra
una presunta ala militare e un’ala politica, dovuta – secondo quanto
sostieni – alla divisione che ci fu a conclusione del sequestro Sossi.
Uno strascico che avrebbe provocato una forzatura dell’ala militare
nell’azione di Padova.
Questo
punto che è stato sviluppato dentro la trattazione del duplice omicidio
padovano è, probabilmente, la parte più complessa del libro e mi preme
fare due precisazioni anche se so che su questo punto specifico ci
possono essere disaccordi. Prima precisazione: la retorica delle Br come
cubo d’acciaio l’ho sempre trovata un’invenzione. Le Br furono un
gruppo politico e come all’interno di ogni altro gruppo politico che vi
fossero scontri sulla linea è un dato di fatto. Credo che sorvolare su
questo aspetto alimenti l’idea di chi crede all’esistenza del cervello
unico, cosa che nella storia dei gruppi politici non è mai esistita,
neppure nella destra neofascista.
Il
tentativo di articolare questa visione intorno al nodo del “passare
all’azione” mi sembrava fosse quasi naturale, visto le ricostruzioni
fatte da molti dei protagonisti del tempo ed alla luce dell’esito finale
dell’operazione Sossi che, anche se frutta al gruppo una visibilità
politica enorme, non raggiunge l’obiettivo della scarcerazione dei
militanti della XXII ottobre.
Il
secondo punto si annoda inevitabilmente al primo ed ha a che fare con
il “teorema 7 aprile”. Ho già detto di non credere ai cattivi maestri e
non credo nemmeno all’esistenza del partito armato. Credo, invece,
nell’esistenza di una galassia armata all’interno della quale c’era un
dibattito, a volte anche aspro, tra organizzazioni e dentro la stessa
organizzazione. Credo che il passaggio di militanti da una sigla
all’altra fosse nell’ordine delle cose.
Non
vedo, però, rapporto di subordinazione o capi, né tra gruppi che
internamente ai gruppi stessi. Se il capo delle Br non è mai esistito,
potevano esserci, semmai, singoli che avevano più o meno influenza
dentro un dibattito; la “leggerezza” con la quale viene preparata
l’effrazione nella federazione del Msi la leggo, a pochi giorni dallo
scontro su Sossi e a ridosso dalla strage neofascista di Brescia, come
una parte di quel dibattito interno.
Non
penso, insomma, a due “ali” contrapposte che non condividevano l’idea
di fondo della lotta armata, ma ad un dibattito articolato che, in un
gruppo armato, si materializza non soltanto nella rivendicazione ma
nella prassi.
Che
nelle Br si discutesse molto e ci fossero sensibilità, culture e nel
tempo fossero emerse linee diverse, è un fatto storicamente accertato.
Esiste una mole documentale importante, ci sono le molteplici scissioni,
i distacchi, gli abbandoni. Le Brigate rosse sono state attraversate
dagli anni 70, molti militanti vi hanno transitato – come tu stesso
ricordi – per periodi più o meno brevi per poi uscirne per ragioni non
sempre personali: basti anche solo pensare a Gianfranco Faina, comunista
libertario, che contribuisce in modo decisivo alla nascita della
colonna genovese e che presto si distaccherà per fondare un suo gruppo, o
Corrado Alunni, Susanna Ronconi e Fabrizio Pelli che esce su posizioni
libertarie. Il problema è definire in modo corretto i termini della
dialettica interna: il dualismo che tu proponi subito dopo Sossi mi
sembra errato anche nella scelta degli interpreti.
Di nuovo io credo che sia quello il nodo del dibattito; in un’organizzazione armata che le contraddizioni che emergono nel corso di un dibattito politico possano avere delle ripercussioni, dirette o indirette, nell’azione a me non sembra peregrino.
Di nuovo io credo che sia quello il nodo del dibattito; in un’organizzazione armata che le contraddizioni che emergono nel corso di un dibattito politico possano avere delle ripercussioni, dirette o indirette, nell’azione a me non sembra peregrino.
Come
dico nel libro non ho mai creduto alla divisione in “ala militare” ed
“ala politica” perché la scelta della lotta armata era condivisa da
tutti. La questione semmai si innesta sull’opportunità e mentre per Coco
questa opportunità sarà largamente condivisa, l’azione padovana è
confusa al punto che alcuni membri sicuramente carismatici come Curcio
lamenteranno di non esserne stati informati in modo esaustivo.
Allo
stesso tempo mi sembrava interessante – non dico che sia la sola chiave
di lettura – perché c’è l’elemento dell’inchiesta interna, doverosa
visto il risultato tragico dell’azione, che le Br svolgono (anche questa
era prassi normale) e che non divide l’organizzazione in ali; per
intenderci lo stesso militante poteva essere in generale più cauto sulla
questione Sossi ed avere, invece, l’idea che quell’incidente sul lavoro
avesse, in realtà, “sbloccato”, il dibattito interno.
* da Insorgenze
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