lunedì 20 luglio 2020

Gli apprendisti partigiani del mutualismo.

Durante il lockdown l’impegno solidale dal basso è andato molto oltre i soggetti che già prima della pandemia tentavano di ricostruire i legami sociali. Cosa significa tutto questo? Una tavola rotonda tra esperienze romane.



I giorni del lockdown sono stati attraversati da un’esplosione inaspettata a livello nazionale e internazionale di esperienze di mutuo soccorso. Jacobin Italia le ha seguite da subito con attenzione. Sono state parte centrale de «La cura» che abbiamo proposto sul nostro ultimo numero della rivista. Durante il festival di letteratura sociale Contrattacco si è svolta una tavola rotonda sul mutualismo tra alcune esperienze romane che ha coinvolto Emilia Giorgi della Libera Repubblica di San Lorenzo, Fabio Sparagna della Cassa nazionale di solidarietà, Silvia Baralla di Terzo a domicilio e Alberto Campailla di Nonna Roma, coordinati da Giulio Calella di Jacobin Italia e della casa editrice Alegre. Un primo confronto politico romano – sbobinato ed editato per maggiore chiarezza – che speriamo stimoli una riflessione più ampia su cosa è successo in queste settimane a livello nazionale. 
 
GIULIO CALELLA: Nel pieno dei giorni del lockdown abbiamo pubblicato un articolo di David Harvey in cui lanciava la suggestione di seguire le tracce dell’esplosione delle pratiche di mutualismo durante la pandemia per alimentare una nuova «immaginazione socialista». La sua provocazione è stata: «Non è forse questo un momento propizio per pensare davvero al dinamismo e alle possibilità di costruzione di una società alternativa? […] Dopotutto, nel mezzo di questa emergenza, stiamo già sperimentando sistemi alternativi di ogni tipo, dalla fornitura gratuita di alimenti di base a quartieri e gruppi poveri, a trattamenti medici gratuiti, strutture di accesso alternative attraverso Internet e così via. In effetti, i lineamenti di una nuova società socialista sono già stati messi a nudo, motivo per cui l’ala destra e la classe capitalista sono così ansiosi di riportarci allo status quo ante». Questa suggestione di provare a utilizzare in modo radicale il tempo terribile che abbiamo vissuto è stata il filo a piombo dell’ultimo numero di Jacobin Italia, che prova a mettere a fuoco alcune scoperte fatte a livello di massa durante il lockdown.
In una lettera a Kugelmann, Marx scrive che una nazione è destinata a soccombere se interrompe l’attività lavorativa anche solo per un paio di settimane. Guardando ai cali del Pil previsti per i prossimi mesi a livello mondiale – e in Italia in modo particolare – possiamo dire che ci è andato molto vicino. Se il sistema capitalistico non è crollato completamente è solo perché abbiamo scoperto che esistono i «lavori essenziali» che non si possono fermare nemmeno durante una pandemia – e sono proprio quelli meno pagati e più sfruttati. Insieme ai lavori essenziali abbiamo poi scoperto che la società nel momento di crisi risolve i propri problemi non attraverso la tanto decantata meritocrazia, ma attraverso la solidarietà sociale. 
Già da qualche anno come Alegre ci poniamo il tema di tornare alle origini del movimento operaio, alle pratiche di mutuo soccorso e di solidarietà di classe, per dare una risposta alla scomparsa della sinistra. Non a caso due anni fa abbiamo pubblicato il libro Mutualismo. Ritorno al futuro per la sinistra di Salvatore Cannavò e promosso un convegno nazionale sul mutualismo insieme alla rete Fuorimercato e al Centro sociale Scup. Durante il lockdown l’impegno solidale dal basso ha superato in modo impressionante le realtà associative che già prima della pandemia tentavano di ricostruire i legami sociali. Ed è stato un fenomeno per nulla scontato anche perché per mettere in pratica il mutualismo le persone hanno dovuto disobbedire alle norme dei vari Dpcm che impedivano qualsiasi possibilità di movimento se non per lavorare e consumare. Ma mentre il governo trasformava il necessario distanziamento fisico in «distanziamento sociale», i legami sociali si dimostravano fondamentali per contrastare gli effetti della pandemia. Per le realtà più organizzate il mutualismo mostra anche la capacità di rimescolare le culture politiche, non a caso tra i testi che abbiamo segnalato per questa discussione c’è anche un classico dell’anarchismo di Pëtr Kropotkin appena ripubblicato da eleuthera, Mutuo appoggio, perché il mutualismo rimescola le culture marxiste, anarchiche e socialdemocratiche all’origine del movimento operaio e nella pratica concreta rompe anche alcune gelosie e competizioni tra odierne piccole aree politiche.
Inizierei raccontando le nostre esperienze e racconto ciò che abbiamo fatto durante il lockdown come Alegre. La campagna di mutuo soccorso Adotta una libreria infatti ci ha permesso più degli aiuti del governo di coprire una parte del buco di bilancio della nostra cooperativa editoriale causato dalla chiusura delle librerie. Ci siamo messi in rete con altri 7 editori e proposto a 70 librerie indipendenti di 37 città, quelle più legate al nostro lavoro culturale, un meccanismo solidale per scongiurare i rischi di fallimento e rompere il monopolio delle vendite dei libri su Amazon di quelle settimane: in un giorno specifico adottavamo una libreria, quella libreria consigliava i libri che preferivano del nostro catalogo al loro giro di contatti, e una percentuale intorno al 40% del ricavato dei libri venduti quel giorno dal sito dell’editore e spediti a casa andavano alla libreria – come se fossero stati presi dai loro scaffali. I risultati sono andati oltre ogni aspettativa: 1.700 libri venduti e 10.000 euro redistribuiti alle librerie.
EMILIA GIORGI: Interessante la vostra campagna con le librerie, e si collega a ciò che abbiamo fatto anche noi a San Lorenzo durante il lockdown, creando una rete di supporto con alcune attività commerciali del quartiere, tra cui le librerie indipendenti.
La Libera Repubblica di San Lorenzo è una rete immateriale che mette in relazione realtà eterogenee, ma con indirizzi politici e culturali comuni, attive nel quartiere in vari campi. Penso all’Anpi San Lorenzo, ad associazioni per lo sport popolare come l’Atletico San Lorenzo e la Palestra popolare, centri sociali come Communia, Esc e Nuovo Cinema Palazzo, associazioni come Il Grande Cocomero che lavora nel campo della psichiatria nell’età evolutiva o a La Gru e  Civico S. Lorenzo entrambe attive con iniziative per bambini. Ognuna ha proprie specificità e settori di intervento, i collettivi studenteschi, le aule studio, le attività teatrali, gli sportelli del lavoro come quelli delle Clap, Camere del lavoro autonomo e precario. Durante il lockdown abbiamo subito avviato il progetto «Quarantena solidale», individuando le persone del quartiere più vulnerabili per motivi di età o salute e attivandoci per fare la spesa di alimenti e farmaci al posto loro. Successivamente abbiamo deciso di ampliare la nostra azione sul territorio, collaborando con l’associazione Nonna Roma. Con loro abbiamo dato vita alla «spesa sospesa», seguendo circa 40 famiglie del quartiere in difficoltà economica, a cui abbiamo recapitato settimanalmente a casa un pacco con i beni alimentari. L’intento è sempre politico, non ci interessa il semplice assistenzialismo ma per noi è fondamentale supportare le persone affinché possano identificare e far valere i propri diritti, anche grazie ai nostri sportelli e alle battaglie che continuiamo a sostenere e promuovere. Il progetto si è poi allargato e come accennavo abbiamo lanciato il «libro sospeso», collaborando in particolare con le librerie Giufà e Tomo e con la casa editrice Momo, per sostenere queste realtà indipendenti e al contempo aiutare le persone a non smettere di coltivare l’immaginazione. La maggior parte dei libri che abbiamo distribuito sono state storie per bambini, che esprimono con la fantasia la possibilità di costruire il futuro. E questo è fondamentale specie per le nuovissime generazioni, totalmente assenti dal dibattito politico durante l’emergenza sanitaria. Oltre al libro abbiamo anche lanciato il «fumetto sospeso», collaborando con un’edicola che è punto di riferimento importante del quartiere. Infine con l’iniziativa «Finestre su San Lorenzo» abbiamo pubblicato sul nostro sito internet e sulle pagine social, una serie di video prodotti dalle associazioni e anche dalle attività commerciali del quartiere, per raccontarsi in un momento così difficile e al contempo costituire un piccolo archivio della quarantena. Nonostante ci fosse imposta per ragioni sanitarie la distanza fisica, abbiamo cercato di combattere la distanza sociale, restando vicini per rafforzare la comunità che vive nel nostro territorio e al contempo relazionarci con il resto della città. Anche da qui, da un percorso di questo tipo, si possono costruire le basi per un percorso politico e sociale futuro.
FABIO SPARAGNA: Faccio parte del laboratorio Controtempo, nato da esperienze di vario genere di attivisti impegnati in diversi campi sociali e quadranti della città. Già nel nostro nome ci definiamo «laboratorio per il mutualismo e i movimenti», con l’intento di mettere a disposizione riflessioni e risorse per esperienze di questo tipo. Ad esempio durante il lockdown, in collaborazione anche con Alegre, abbiamo organizzato una serie di seminari online per spiegare la dimensione e gli effetti della crisi economica che ci troveremo ad affrontare. Imparando dalla risposta mutualistica dal basso che stavamo vedendo, grazie alla nostra collaborazione con alcuni insegnanti della scuola popolare di Tor Bella Monaca e ad alcune competenze al nostro interno sulle materie di diritto del lavoro, abbiamo messo in piedi uno sportello telematico per orientare i cittadini sui sussidi esistenti, visto quanto erano complicate le misure, le modalità e i tempi per ottenerle.
Sulla scia di questa idea più sindacale di mutualismo abbiamo poi aderito alla Cassa nazionale di solidarietà nata su proposta della rete nazionale Fuorimercato con un appello dal basso di esperienze come la fabbrica autogestita Rimaflow, lo spazio Rimake di Milano, l’ex Asilo Filangeri di Napoli, lo spazio Terranostra di Casoria, il Bread&Roses di Bari, la rete Sfruttazero pugliese che combatte il caporalato autoproducendo la salsa di pomodoro, la storica associazione Attac Italia, ecc. Dopo il «contagio» delle pratiche mutualistiche nei territori, l’esigenza è provare ad andare oltre: rispondevamo a decine di chiamate che chiedevano aiuto per avere accesso alle misure emergenziali, a volte riuscivamo a rispondere con successo altre no, e ci siamo chiesti: cosa proponiamo a coloro per i quali non sono stati previsti sussidi dal governo? L’idea è stata quella di avviare un meccanismo di organizzazione in cui l’aspetto economico è comunque inaggirabile. La cassa viene alimentata attraverso il crowdfunding, con l’obiettivo di mettere a disposizione queste risorse a singole persone o esperienze, in alcuni casi singoli palazzi che hanno problemi a pagare le utenze e si organizzano in modo comunitario. Si tratta di un’esperienza che guarda al medio periodo per affrontare la prossima drammatica fase dal punto di vista sociale. La cassa sarà gestita in modo trasparente e già da fine luglio distribuiremo alcune risorse raccolte. A Roma vorremmo concentrarle per affrontare il problema della dispersione scolastica – si stima che migliaia di ragazzi dopo il lockdown rischino di abbandonare gli studi – sostenendo un progetto della Scuola popolare di Tor Bella Monaca di acquisto di libri di testo da dare in comodato d’uso agli studenti. L’obiettivo è rendere duraturi i meccanismi solidali nati in questo periodo difficile.
SILVIA BARALLA: Come definirsi? Una cordata di solidarietà nel terzo municipio di Roma, uno dei quartieri più popolati della città. Ci eravamo trovati già da ottobre ad avviare una collaborazione con Nonna Roma insieme a varie realtà del terzo municipio come Astra, Puzzle, Grande come una città e Brancaleone. Con l’arrivo del virus la rete ha avuto un’immediata accelerazione: ci siamo reinventati con la spesa a domicilio, una dinamica simile a quella raccontata per S. Lorenzo. Abbiamo fatto appello a una rete di volontari che hanno «adottato» persone anziane, disabili o in difficoltà con un meccanismo per cui il volontario si prendeva cura della persona adottata semplicemente portando la spesa a domicilio. Pian piano le chiamate che ci arrivavano non erano più solo richieste di persone in grado di pagare la spesa ma più vulnerabili di fronte agli effetti del virus, ma anche di chi aveva attacchi di panico, di chi cercava di capire come ottenere i buoni spesa promessi dal Comune o di altri ancora che non avevano materialmente i soldi per acquistare il cibo. Abbiamo allora deciso di organizzarci diversamente, mettendo ognuno a disposizione la propria energia e il proprio tempo: da Puzzle con il suo  sportello legale gratuito «Tuteliamoci» con cui ha supportato le richieste dei buoni spesa e portato avanti istanze legali per chi aveva diritto a sussidi e non aveva ricevuto nulla, a un gruppo di psicologi volontari con il loro sportello psicologico per sostenere chi ne aveva bisogno. Abbiamo poi, in collaborazione con la piattaforma di crowdfunding di Nonna Roma, attivato anche noi «la spesa sospesa» acquistando settimanalmente cibo con quanto raccolto dal crowdfunding o creando i contatti con alcuni supermercati del quartiere e redistribuendo poi il cibo settimanalmente prima a domicilio durante la fase 1 e presso Astra a via Capraia durante la fase 2. Le famiglie raddoppiavo ogni settimana di lockdown: da 35 famiglie a 70, da 70 a 150 e oltre. La fine del lockdown ha segnato un ritmo diverso: la distribuzione del cibo è divenuta mensile e non più settimanale per varie ragioni. Adesso si sta anche lavorando per la creazione di una nuova piattaforma, «Diamoci una mano», creata con lo scopo di raccogliere e redistribuire prodotti alimentari, materiale scolastico e farmaci con la partecipazione di organizzazioni no profit (associazioni, parrocchie, centri sociali) insieme ad aziende che vogliono donare i propri prodotti. Nel periodo emergenziale ci siamo mossi bene come rete in modo spontaneo, ora serve sicuramente uno sforzo in più per sostenere questo lavoro.
ALBERTO CAMPAILLA: Grazie per aver organizzato questo confronto perché dopo aver passato gli ultimi mesi immerso in un’attività che risucchia sia fisicamente che emotivamente, serve iniziare a pensare non solo a cosa abbiamo fatto ma anche a cosa è successo a questo paese e a questa città negli scorsi mesi.
Nonna roma è nata tre anni fa per lottare contro la povertà e le disuguaglianze e già dall’inizio abbiamo intercettato fasce di popolazione in povertà assoluta e relativa con la distribuzione del cibo, i dopo-scuola popolari, gli sportelli per i diritti sociali e del lavoro, e le attività sociali e culturali – anch’esse precluse a una parte della popolazione perché anche andare al cinema è diventato un fatto di classe. Con il lockdown abbiamo capito che avevamo di fronte non solo un’emergenza sanitaria ma anche sociale, e oggi possiamo dire che siamo di fronte a una catastrofe umanitaria che ha bisogno di risposte nuove e importanti. Già prima del lockdown seguivamo alcune centinaia di famiglie con una pratica rodata nella distribuzione del cibo, per questo abbiamo messo a disposizione la nostra esperienza a tante realtà come Ong, associazioni, spazi sociali, sindacati per moltiplicare le energie e rispondere collettivamente a questa situazione drammatica. Abbiamo così messo in rete circa un centinaio di «spese sospese» fatte in supermercati, piccoli alimentari o fruttivendoli in varie parti della città, e poi attivato la raccolta fondi che ci ha permesso di acquistare cibo per diverse migliaia di euro distribuito a oltre 8.000 famiglie non solo a Roma ma anche nel comune di Ciampino. È un dato gigantesco raggiunto grazie a tantissime realtà, di cui qui ce ne sono solo una piccola parte, e a oltre trecento volontari che ogni fine settimana mettevano a disposizione la propria macchina e benzina, prendevano i pacchi e li distribuivano da Fidene fino a Contrada Finocchio. Sono dati che ci parlano di una società tutt’altro che morta, di persone che hanno voglia di impegnarsi: secondo una recente indagine di Coldiretti 4 italiani su 10 durante il lockdown si sono impegnati in iniziative solidali di vario genere. Credo che questa sia una speranza per chi si pone l’obiettivo di una trasformazione sociale. Abbiamo visto tante esperienze anche piccole nei condomini che facevano spese solidali con una moltitudine di pratiche. La ragione della capacità che abbiamo avuto è proprio aver intercettato una parte di questo fermento esistente.
Con la fine del lockdown siamo tornati a distribuire il cibo in presenza perché è fondamentale per conoscere le persone, discutere insieme i problemi e attivare meccanismi di autonomia e anche processi di soggettivazione politica – che è ovviamente la cosa più difficile. Anche se per fortuna a qualcuno è arrivata la Cassa integrazione e alcuni sono tornati a lavorare, l’emergenza sociale è tutt’altro che finita e anzi la povertà sta per diventare strutturale. In questi mesi è già cambiata radicalmente la composizione sociale delle povertà: eravamo abituati ad avere a che fare con soggetti da tempo in situazione di indigenza, la nuova povertà aggredisce invece anche chi viveva del lavoro sommerso e non ha avuto accesso agli ammortizzatori sociali, chi svolgeva lavoro di cura ed è stata lasciata per strada spesso senza il permesso di soggiorno, e tanti giovani professionisti con partita iva e gradi di istruzione elevati che non potendo più fatturare si son trovati in una situazione economica che non avrebbero mai immaginato. Questa nuova povertà ci pone di fronte anche a nuove sfide politiche.
GIULIO CALELLA: Nei giorni del lockdown l’assenza della sinistra, ossia di una proposta alternativa al sistema esistente, è stata lampante e la scena è stata occupata dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte e dal nuovo presidente di Confindustria Carlo Bonomi. I due hanno avuti ruoli sicuramente differenti, ma nelle proposte di fondo per la ripartenza hanno divergenze solo nei dettagli: l’idea di entrambi è puntare sulla liquidità delle imprese e su un rilancio basato sulle «grandi opere» inutili e dannose per l’ambiente, con i classici meccanismi di «economia dei disastri» illustrati da Naomi Klein nel suo Shock economy. La credibilità politica di un’alternativa è del tutto assente, eppure dal basso come avete detto la società si è mostrata meno brutta di come pensavamo: del resto quando siamo entrati nella pandemia temevamo che stessimo diventando tutti salviniani. Il punto non facile ora è mettere in rete e valorizzare politicamente queste esperienze solidali che alludono a un’altra società.
Dobbiamo però chiederci quale tipo di mutualismo può far fare davvero un salto di qualità politico: esiste un mutualismo lenitivo che va semplicemente a coprire le mancanze dello stato sociale e a calmare possibili conflitti sociali; ma anche un mutualismo conflittuale che può divenire strumento di autorganizzazione per rivendicare diritti. Alcune esperienze di mutualismo hanno anche un’ulteriore potenzialità politica: sono dei luoghi di contropotere che accorciano la distanza tra la politica e la società che ha prodotto la scomparsa della sinistra. Gli effetti della crisi del 2008 hanno cambiato il panorama politico a livello mondiale, con la scomparsa o trasformazione di molti soggetti politici tradizionali e la nascita di nuovi sia a destra che a sinistra. Ma anche questi nuovi soggetti non sono stati capaci di ridurre la distanza tra politica e società, e come abbiamo visto in Italia con i Cinque stelle – e in modo più amaro anche in Grecia con Tsipras – senza dei solidi mattoni sociali su cui poggiare, senza delle esperienze di contropotere a cui riferirsi, più che «prendere il potere» si rischia di essere presi dal potere.
Io vi rivolgo allora la domanda che si pongono Marie Moïse e Lorenzo Zamponi nel loro articolo sull’ultimo numero di Jacobin Italia: Quanta politica c’è nella solidarietà che abbiamo visto in questi mesi? E quanta politica alternativa si può costruire a partire da queste esperienze mutualistiche?
FABIO SPARAGNA: Hai ragione: il punto è non disperdere queste energie e fare rete per colmare il divario tra politica e società. In questi giorni si vive il lutto in generazioni di elettori di sinistra perché la Lega apre una sede in via delle Botteghe oscure… la scomparsa della sinistra storica è un nodo irrisolto tra chiunque si riconosce in un’idea alternativa di società, e lo smarrimento per l’assenza di una voce alternativa ha prodotto la nascita dei vari tentativi sconfitti in questi anni, quasi esclusivamente elettorali. Ma queste sconfitte derivano dal non aver fatto i conti con due questioni fondamentali. La prima è che la crisi della democrazia rappresentativa non è solo una questione di malcostume, incapacità amministrativa e tradimento degli impegni presi: la crisi democratica è anche una questione economica. I rider sono una figura ormai simbolica della precarietà contemporanea e tutti sappiamo quanto sia difficile per un rider riuscire ad autorganizzarsi per chiedere un miglioramento delle proprie condizioni di lavoro: come possono porsi anche il problema del governo del paese? La lavoratrice dei servizi di una cooperativa che vive di appalti al ribasso come fa, con la paura del rinnovo del contratto, a porsi il problema del governo del paese? Non manca solo il soggetto politico, mancano i rapporti di forza sociali per entrare nel terreno direttamente politico. La seconda questione sta nel dato che segnalava Alberto: i 4 italiani su 10 che fanno azioni di solidarietà esistono forse da quarant’anni ma questa capacità di resistenza sembra non esistere nella politica e ci fa parlare di «un paese senza sinistra». Non sarebbe invece già di per sé una componente politica da valorizzare? Ciò che va colmata è la distanza tra l’attivismo sociale da una parte e l’assenza di un partito di sinistra che lo rappresenti dall’altra.
Il mutualismo politico è lo spunto da cui partire per smettere di logorarci per l’assenza della sinistra e valorizzare le istanze politiche che pongono queste esperienze. Forse è vero che manca il partito, ma non quello che si candida alle elezioni ma un «partito sociale», un soggetto organizzato di movimento, in grado di mettere insieme queste esperienze di autorganizzazione sociale. Le esperienze che raccontiamo prese singolarmente sono eccezionali risposte sociali, ma collettivamente possono porre veramente un problema politico. Sappiamo che da sole non bastano ma se le organizziamo e non le disperdiamo possono diventare un fattore su cui lavorare politicamente da qui in avanti. Strada facendo ci porremo poi i problemi successivi, e forse la soluzione non sembrerà più così impossibile.
SILVIA BARALLA: Io vivo a Roma solo da dieci anni. In Sardegna, dove vivevo, il mutualismo è una pratica spontanea nei piccoli paesi dove chi è in difficoltà trova sempre solidarietà. Solo venendo a Roma ho avuto realmente coscienza della situazione sociale. Quando succede che qualcuno ti dica «ho cinque figli e non riesco materialmente a comprare il cibo necessario», ti senti provenire da un mondo fatato dove queste cose non possono accadere. A Roma ho visto disuguaglianze profonde e conosciuto il conflitto sociale e con le istituzioni. Mi è rimasta però la cultura pragmatica da cui provengo, per questo mi limito a fare una provocazione. Noi ci siamo messi in rete con Nonna Roma per costruire il nostro intervento mutualistico, ma realtà simili a noi e a voi ce ne sono molte in tutta la città: perché non riusciamo a metterci insieme? Ho l’impressione che troppo spesso in questa città ci si incontri per raccontare le proprie esperienze invece di intrecciarle. Occorre unirsi per rivendicare tutti insieme le risposte politiche necessarie e che singolarmente non possiamo ottenere.
ALBERTO CAMPAILLA: Salvatore Cannavò in Mutualismo cita gli appunti sulla riproduzione sociale di Alisa Del Re, in cui sottolinea l’ambivalenza di esperienze come le nostre: «Se da un lato costituiscono straordinari dispositivi di soggettivazione, dall’altro sembrano perfettamente compatibili con le politiche di austerità in quanto strumenti di socializzazione dei costi di riproduzione». È vero, ci portiamo dentro questa contraddizione e spesso ci troviamo ad avere rapporti di sussidiarietà con alcune istituzioni, così come altrettanto spesso con le istituzioni abbiamo rapporti conflittuali. Ma come sostiene Cannavò nel libro, esperienze come le nostre sono «pietre di un mosaico in divenire». Del resto quante delle esperienze a cui hanno partecipato i 4 italiani su 10 hanno un’ambizione trasformativa e quante no? Il mutualismo politico deve prima analizzare chi intercettiamo e poi costruire dei processi di autonomia e lotte collettive. Il tema della credibilità politica è reale, sei forte se hai costruito un ambito dove l’idea di trasformazione la riesci a praticare. E non si può più pensare a queste esperienze come «cinghia di trasmissione del partito», sono esse stesse che devono determinare dei processi di costruzione politica in tutti i sensi, compresa la rappresentanza, capendo però che c’è il tempo della costruzione e che, come dice Silvia, ci si deve porre il problema dell’unità. Perché esperienze come le nostre da sole non vanno da nessuna parte, ma tutte insieme possono costruire un proprio punto di vista dentro un orizzonte politico.
Vanno colte le potenzialità create dall’emergenza, che oltre a questa esplosione di solidarietà ha fatto venir fuori una nuova centralità dell’intervento pubblico. La strada rimane in salita perché ci mancano le infrastrutture organizzative, ma esiste ora una maggioranza sociale d’accordo con noi ad esempio sulla sanità pubblica e sul fatto che la scuola va rilanciata a partire dalla stabilizzazione degli insegnanti e dalla riduzione del numero di alunni per classe. Nei prossimi giorni, di fronte all’aumento della povertà, sarà per noi una sfida mobilitarci tutti insieme per estendere l’attuale reddito di cittadinanza e renderlo universale, così come per il diritto alla casa.
EMILIA GIORGI: Sono d’accordo con Silvia: è fondamentale costruire e rafforzare una rete, all’interno della città e del territorio nazionale, tra tutte queste esperienze per pensare anche a un nuovo progetto politico. Come ho detto prima, a noi non interessa l’assistenzialismo fine a sé stesso ma a queste azioni di solidarietà, necessarie in un momento di emergenza e carenza istituzionale, affianchiamo piccole e grandi battaglie e progetti che portiamo avanti nel nostro quartiere. Una delle rivendicazioni su cui stiamo lavorando come Libera Repubblica di San Lorenzo è quella per la sostenibilità ambientale all’interno del territorio urbano: durante il lockdown ci siamo resi conto in maniera ancora più chiara di quanto parte della città, e in particolare il nostro quartiere, sia inadeguato rispetto alle sfide future, con pochi spazi verdi, di socializzazione, e zone pedonali e ciclabili. Abbiamo scritto una lettera alle istituzioni, a cui abbiamo affiancato una serie di azioni, per un ripensamento dei luoghi pubblici che «non può che passare per l’individuazione di nuovi spazi urbani che possano ospitare attività didattiche ed esperienze educative, di svago, di socializzazione, di incontro, capaci di trasformare il necessario distanziamento fisico in esperienza innovativa». Vorremmo riappropriarci e rafforzare lo spazio pubblico in un quartiere così densificato e cementificato, in cui gli spazi sociali, attivi in questo periodo di emergenza sanitaria e sociale, sono minacciati quotidianamente. E la nostra rete, così come la nostra comunità locale, che è stata così forte durante l’emergenza sanitaria, deve dimostrarsi altrettanto forte con azioni di conflitto da allargare al resto della città.
Voglio citare in chiusura un articolo scritto da Luciana Castellina su Il manifesto lo scorso 25 aprile che è stato per me di forte ispirazione. Castellina, con una straordinaria forza immaginativa, nell’articolo conduce un confronto tra la liberazione dal regime nazi-fascista a opera dei partigiani e la lotta che l’emergenza sanitaria ci spinge a condurre per un futuro di giustizia sociale e ambientale: «In quell’epoca, non si trattava di ‘resistere’ ma della sconsiderata ambizione di dar vita a qualcosa che non si sapeva cosa avrebbe potuto essere. Si dirà che al virus invece si deve solo resistere, in nome del ritorno al modo di vita preesistente. E invece così non è e celebrare il 25 aprile oggi vuol dire come non mai far rivivere lo spirito di quella che sappiamo esser stata non semplice resistenza ma azzardata offensiva per inventarsi uno stato che tutti potessero sentire legittimo». Castellina ci invita a farci «apprendisti partigiani» per il nostro futuro comune. E l’aggettivo «apprendisti» ci concede la possibilità del dubbio, di sperimentare, di commettere errori, per poi ricominciare con nuove idee e opportunità.

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