Per questo bisognerebbe anzituttoche le masse europeedecidessero di svegliarsi,si scuotessero il cervello e cessasserodi giocare al gioco irresponsabiledella bella addormentata nel bosco.Frantz Fanon, I dannati della terra(Traduzione di Carlo Cignetti, Einaudi, 1962, p. 85)
effimera.org Gianni Giovannelli
Accadono strane cose, contraddittorie e difficili da ricondurre all’interno di un disegno politico unitario, di un progetto complessivo capace di riunire l’intera compagine che detiene il potere. Certamente tuttavia, e sul punto non ci possono essere dubbi, siamo alla vigilia di un mutamento. La transizione era gia iniziata, con l’ingresso impetuoso della comunicazione informatica e la profonda modifica del tradizionale rapporto di forza che caratterizzava lo scontro di classe. La sempre più rapida diffusione della condizione precaria e il susseguirsi di crisi finanziarie, già negli anni scorsi, hanno poi reso visibile l’inadeguatezza delle strutture di gestione governativa, di controllo sociale nel territorio, di organizzazione produttiva, dei movimenti migratori.
Dopo il crollo della vecchia Unione Sovietica il comunismo cinese è rimasto autoritario, ma si è sviluppato in una nuova forma di capitalismo ibrido, finanziario, manageriale, con un ramificato controllo statale di ogni comunità e di ogni territorio; altri paesi di minore dimensione hanno percorso strade analoghe.
Nelle democrazie liberali del cosiddetto Occidente sono comparsi movimenti reazionari, nazionalsovranisti, non di rado apertamente razzisti, con un notevole consenso elettorale che ha consentito il loro ingresso al governo; Trump negli Stati Uniti, Orban in Ungheria e Kaczynski in Polonia hanno vinto grazie al voto popolare ottenuto mescolando i sussidi alla xenofobia prepotente. In Asia, Africa e America Latina dittature, esperimenti fragili di socialdemocrazia, guerre, neocolonialismo feroce compongono nel loro insieme un variegato mosaico, mobile e senza coerenza. Nel gran disordine mondiale i progetti di un nuovo ordine erano davvero tanti, nascevano e morivano in breve volger di tempo, senza quasi lasciar traccia del loro effimero esistere.
Inattesa e sconvolgente la pandemia ha scombinato tutti i piani e tutti i progetti, silenziosa ma efficace nel suo esordio, poi minacciosa e violenta, un vero simbolo di quanto precaria sia ormai la condizione esistenziale. Le abitudini di vita degli abitanti nelle grandi metropoli sono cambiate quasi d’improvviso; il processo di trasformazione produttiva, istituzionale, sociale ha accelerato il suo corso e sembra ormai un fiume in piena. Poiché il cambiamento viene percepito dal sentiment popolare come un elemento ormai irreversibile, gli avventurieri che guidano il moderno capitalismo finanziarizzato, lesti come furetti, si sono subito dedicati a pianificare le mosse necessarie per cogliere l’occasione e ricavarne utile d’impresa. Hanno capito di dover intervenire nella costruzione di un nuovo equilibrio, per prevenire i danni connessi ad una situazione troppo confusa, al rischio dell’incontrollabile. Certo. Non sono abituati a considerare programmi di lungo periodo e neppure a radicarsi in un qualsiasi territorio, in forme stabili. Preferiscono tessere e disfare rapidamente, puntando a singoli obiettivi, di volta in volta. Enrico Mattei coniò un celebre aforisma sui partiti politici italiani, equiparati a taxi su cui salire, o scendere, all’occorrenza. Spinti dalla necessità, magari di malavoglia, i nuovi capitalisti hanno elaborato lo schema, estendendolo ai governi, alle strutture delle diverse religioni, alle cosche criminali, alle forme istituzionali dei singoli stati. Hanno indetto una gara d’appalto per tracciare un ordinamento – o più esattamente una pluralità di ordinamenti – per completare la transizione incrementando gli utili. Politici, economisti, sociologi, criminali, scienziati, giuristi, tecnici della comunicazione, militari, poliziotti, giornalisti, programmatori del consenso, preti, sciamani, guru, filosofi, condottieri, moralisti, filantropi: scelgano loro i meccanismi di aggregazione, inventino una soluzione, la più efficace a prescindere dalle ideologie e dalla fede. I nuovi capitalisti amano il denaro e detestano i principi. Aspettano risultati, senza perder tempo.
Anche in Italia, un formidabile laboratorio con esperienza secolare, è tutto un brulicare di attività. Si elaborano trame e complotti per conquistare qualche roccaforte o qualche posizione strategica dalla quale far partire l’attacco. Si cercano le vie per impadronirsi delle risorse finanziarie con cui rendere operativa l’espansione di strutture legate al progetto: amministrative, politiche, militari. Si studia la maniera di acquisire consenso nel territorio, con il bastone della minaccia o con la carota di oculati modesti benefici. E si costruisce un nuovo assetto sociale, economico, giuridico, istituzionale che consenta al nuovo ordine capitalistico di appropriarsi del comune, inteso non solo come ambiente o come territorio, ma anche come cooperazione sociale complessiva. Ancora una volta la posta in gioco è l’esistenza; dunque è in fase di costruzione una forma istituzionale e giuridica che codifichi e legittimi la vita messa a valore.
Non voglio peccare di ottimismo, e per essere franco non sono per nulla ottimista in questa congiuntura storica, complessa e poco allegra. Ma la partita non è affatto chiusa, lo scontro non ha un esito certo, o scontato. Le variabili sono tali e tante in questo disordine globale da rendere azzardata qualsiasi previsione di futuro. Quello che tuttavia non possiamo nasconderci, ove il senso di paura e di sconforto non travolga la lucidità dell’esame, è che, piaccia o non piaccia, siamo vicini al bivio, siamo prossimi al passaggio. Potrebbe essere la Pasqua (pesah) biblica, ovvero la liberazione dalla schiavitù; o il suo contrario, il passaggio ad una condizione in cui l’intera esistenza viene ceduta. Nessuno aveva in animo una così brusca resa dei conti, una violenta accelerazione del conflitto; ci ha pensato un virus dispettoso con il salto di specie, quando già spiravano venti di guerra in tutto il pianeta, l’esodo migrante si moltiplicava, le crisi allargavano la forbice fra ricchi e poveri. Ha trovato un terreno fertile il minuscolo corona; ormai lo spazio della mediazione si è consumato, bisogna prenderne atto. Picadores e banderilleros
Le bande costituite dentro le principali organizzazioni politiche sono in costante subbuglio, dedite a piccole provocazioni quasi sempre pretestuose, con il solo scopo di creare un clima di instabilità e ottenere un qualche risultato con il ricatto. Il rinnovo delle cariche al vertice delle grandi società controllate dallo stato compete al governo in carica; durante la trattativa, poi conclusa con un accordo di spartizione, gli agguati parlamentari, a colpi di emendamenti, si sono susseguiti con temporanee alleanze trasversali di maggioranza e opposizione, incomprensibili ai più. C’era chi proponeva di regolarizzare i clandestini (decreto n. 34, rilancio, 18 maggio 2020, pubblicato il 29 maggio), in particolare braccianti agricoli e collaboratori domestici/badanti; chi pretendeva le dimissioni del ministro di grazia e giustizia imputando a lui la scarcerazione di mafiosi; chi esigeva elezioni subito e chi le voleva rinviare a ottobre; chi suggeriva immediato uso dei fondi MES e chi rifiutava lo strumento. Un continuo alternarsi di risse e di tregue, in cui si vanno costruendo le prime basi di un rinnovato assetto del comando, in cui emergono nuovi e ambiziosi personaggi avidi di successo, pronti a mutare collocazione politica con grandissima disinvoltura. Il parlamento italiano, nell’ottocento, seppe inventare il trasformismo di cui De Pretis fu il maggiore interprete; oggi maggioranze a prima vista incompatibili si sono susseguite senza soluzione di continuità con il medesimo presidente del consiglio.
Anche i professionisti del sondaggio e gli architetti del consenso appaiono perplessi. Il governo Conte mantiene un elevato indice di popolarità, cresciuto dentro la pandemia fino al 65%. Al tempo stesso il dato si pone in palese contrasto con la distribuzione del voto, che vede un netto prevalere della destra all’opposizione. La flessione della Lega è compensata dall’incremento dei Fratelli d’Italia; insieme superano comunque il 40% e con gli alleati avrebbero la maggioranza assoluta nelle due camere. Il travaso di adesioni fra le due componenti sovraniste antieuropee non dovrebbe essere motivo di giubilo per i partiti di maggioranza; Meloni guida un partito che non nasconde le proprie origini neofasciste, coltiva un nazionalismo pericoloso. Ma il prevalere della neo-reazione non assicura affatto stabilità; appare anzi come un elemento di disturbo e preoccupa non poco il mosaico di comando, incerto sul da farsi. Ed è incerto soprattutto perché la sinistra affidabile, quella favorevole al mercato libero e al prevalere del privato, appare ormai sconfitta dagli eventi, ridotta ai margini, senza futuro. La scelta fra sovranismo nazionalista e populismo di sinistra quale forza prevalente in una coalizione rattoppata non costituisce certo alternativa allettante per il neocapitalismo finanziarizzato, che mira a cambiare il quadro.
Lo scontro in atto, acuito dalla pandemia, ricorda una corrida. La prima provocazione viene dai picadores , i quali hanno il compito di costringere il toro alla carica, di ferirlo al collo perché possa attaccare solo a testa bassa. Non rischiano, usano cavalli ben bardati; la loro abilità sta proprio nella capacità di indebolire molestando. Il giornalista Giletti è stato un picador perfetto. Prima ha colpito usando un punto debole, il capo del DAP, nominato durante il governo gialloverde con una procedura quanto mai sospetta, eliminando Di Matteo, il procuratore del processo trattativa inviso alla destra. Il ministro Bonafede, rimasto al suo posto nel governo giallorosa, lo ha difeso maluccio, con qualche errore; e ha rischiato di cadere sotto i colpi del fuoco amico. In cambio del suo salvataggio il dottor Cantone è stato nominato dal CSM procuratore di Perugia, grazie al voto congiunto (e decisivo) di PD, 5 Stelle, Forza Italia. La procura di Perugia è competente per le delicate indagini sui magistrati romani, in particolare sul “caso Palamara”; la direzione di un inquirente da tempo distaccato al ministero come il dottor Cantone non è cosa di poco conto e rappresenta uno strappo in stridente contraddizione con la linea dell’associazione magistrati e con il progetto di riforma Bonafede.
Anche la conferma di Descalzi alla guida dell’ENI, nonostante polemiche e processi, è il risultato di una mediazione sofferta, favorita da numerosi picadores incaricati di disinnescare l’annunciato diniego dei pentastellati, operazione riuscita senza necessità di grandi baruffe, con la sola minaccia. Nell’arena sono scesi, nel frattempo, anche i banderilleros (o se si preferisce rehileteros), che in gruppo si incaricano di infilzare il toro, evitando con abilità di rimanere coinvolti. Agiscono all’interno della compagine governativa (simulando magari improvvisa indignazione a fronte di qualche evento inatteso) o attaccano dall’esterno, agilissimi. Possono essere deputati o (più efficaci, nella sostanza) senatori che cambiano casacca, assottigliando la maggioranza o di contro rinforzandola, secondo le circostanze. Il loro scopo è di mantenere alta la tensione, di coltivare l’incertezza, senza tuttavia assestare ferite decisive. Un banderillero può diffondere il finanziamento del Venezuela al defunto Casaleggio, infilare un emendamento in sede di conversione dei decreti legge e far vacillare così il governo, pubblicare un’intervista capace di agitare le acque, sostenere una nomina imprevista aprendo contraddizioni (per esempio: scegliere come maggioranza il membro dell’opposizione da designare, come accaduto in Regione Lombardia per la Commissione d’Inchiesta sulla sanità). In occasione dell’assegnazione dei fondi stanziati, in sede di conversione dei decreti legge emergenziali, lobbisti e provocatori hanno mostrato le loro indubbie capacità tecniche, lasciando la situazione del tutto instabile e pur tuttavia evitando qualsiasi crisi di governo. L’ultimo intervento di disturbo è recentissimo, ovvero il cambio di casacca annunciato dalla senatrice Alessandra Riccardi, ora leghista di opposizione dopo aver lasciato i Cinque Stelle incrinando ulteriormente la già risicata maggioranza. I senatori in pensione ora possono seriamente sperare di poter accedere nuovamente al vitalizio precedente, cancellando i tagli introdotti dai grillini all’inizio della legislatura. Nessun guastatore invece ha mai ritenuto di sollevare questioni in ordine ai sette detenuti morti, in una sola giornata, nel carcere di Modena, cui si sono nell’immediatezza aggiunti i due trasferiti (Abdellah Rouan ad Alessandria e Gazi Madidi a Verona, prima di raggiungere la destinazione finale, prevista a Trento). Sono passati più di tre mesi senza che la procura della città emiliana abbia provveduto ad informare i familiari dei defunti in ordine all’esito dell’autopsia, senza dar conto delle indagini svolte, senza rendere pubblici i risultati dell’inchiesta. Il procuratore aggiunto, dottor Di Giorgio, si era affrettato ad indicare overdose quale causa di tutti i decessi (compresi quelli dei due trasferiti); ma questa intuizione investigativa rimane ad oggi una mera ipotesi non suffragata o smentita dalle risultanze oggettive riscontrate dai medici. Il manovratore può essere disturbato solo dai banderilleros autorizzati; gli altri sono semplici abusivi non meritevoli di attenzione. E questa par essere un’altra caratteristica dello stato di bonaccia insidiosa in cui viviamo, in attesa di un cambiamento che potrà essere differito, ma non evitato.
Tercio de muleta
Le continue provocazioni e il clima d’instabilità preparano il terzo tempo, quello in cui si deciderà l’esito dello scontro, il nuovo equilibrio. Nella corrida viene denominato tercio de muleta, il torero scende nell’arena e abbatte il toro. Gli aspiranti toreri sono numerosi, vivono di spettacolo, cercano sostegno nelle piazze e nella rete, debbono dimostrare capacità di controllo e abilità nel disinnescare qualsiasi forma di dissenso; ci sono mediatori come l’odierno primo ministro Conte, prepotenti come Salvini, maneggioni come Renzi, intriganti come Colao, navigati come Draghi, nazionalisti nostalgici come Meloni, capi popolo, sognatori, nani e ballerine. Nessuno, ovviamente, vuol fare la parte del toro; ma un toro, inevitabilmente, ci sarà maigré tout, maigré lui.
Nessuno, al momento, ha intenzione di far davvero cadere il governo, per una pluralità di ragioni. Salvini è perfettamente consapevole che la pur probabile vittoria elettorale (piena e con accesso quasi sicuro al premio di maggioranza) non è tuttavia sufficiente a garantire in sede europea lo stanziamento effettivo degli aiuti economici che si vanno delineando come possibili, e neppure potrebbe ripiegare sul MES senza perdere la faccia. Francia e Germania non si fidano di lui, i nazionalisti dell’est postcomunista seguono altri percorsi, i paesi cosiddetti frugali sono pronti a cogliere l’occasione per sottrarre risorse all’Italia. In questa fase di crisi il centrodestra populista, nazionalista e reazionario si troverebbe a gestire, senza risorse, una situazione problematica, senza sbocco. Il Movimento Cinque Stelle uscirebbe più che dimezzato nella rappresentanza parlamentare; LEU rischierebbe di scomparire; Italia Viva uscirebbe di scena; il PD si troverebbe a guidare una opposizione divisa, con una poco consistente pattuglia di parlamentari, escluso dai posti di comando. E permane all’orizzonte la tagliola degli eletti, essendo scontato l’esito del referendum costituzionale previsto a settembre. Al momento appare più probabile che i cambi di casacca trovino opportuni bilanciamenti, senza rompere il giocattolo, rattoppando l’esecutivo attuale.
Ma non è detto. A tirar troppo la corda il rischio che si rompa è concreto; ove accadesse davvero nessuno può seriamente azzardare previsioni sulle reazioni a catena connesse al trauma di un voto di sfiducia calato a ridosso della pandemia, prima di qualsiasi ripresa (o rilancio come viene chiamato con un certo ingiustificato ottimismo dalla maggioranza), soprattutto in assenza di fondi europei per far fronte al deficit di bilancio e alla necessità di ricostituire la liquidità compromessa dalla spesa nei mesi scorsi.
Ci sono fortissime tensioni. Il progetto di riforma del Consiglio Superiore della Magistratura divide quasi trasversalmente i partiti, fra chi intende mantenere, o perfino rafforzare, il controllo politico sul settore giudiziario e chi invece vorrebbe una più ampia autonomia sia delle funzioni inquirenti sia delle funzioni giudicanti, negando a chi viene usato fuori ruolo per incarichi ministeriali o amministrativi l’accesso alle cariche apicali, o magari cancellando l’odierno (e scandaloso) permesso di partecipare agli arbitrati stragiudiziali (che consentono ad una ristretta cerchia di magistrati proventi elevatissimi, su chiamata di singole parti private). Questa è una lotta di potere reale, combattuta dietro le quinte, ma senza esclusione di colpi, con largo ricorso al ricatto e al complotto. Al tempo stesso si vanno preparando le strutture per mettere le zampe sui fondi europei attesi in un arco temporale comunque rientrante nell’odierna legislatura; e poiché le nomine o gli stanziamenti saranno in gran parte irrevocabili la trattativa si presenta articolata, complessa, con la minaccia alternata alla promessa, senza che nessuno si fidi del proprio inaffidabile interlocutore. Sembra la fotografia di un gruppo di gatti fermi sul muretto, apparentemente immobili eppure pronti ad afferrare la preda sottraendola alla concorrenza. Durante questa legislatura, sempre che non chiuda in anticipo, è prevista l’elezione del Presidente della Repubblica; ben diversa si presenta una nomina con la composizione attuale rispetto a quella di eventuali nuove elezioni prima della scadenza (forse con Salvini o Meloni al posto di Mattarella!).
La partita non è chiusa, bisogna assolutamente impadronirsi di questa idea forza, l’unica che consente di comprendere il corso degli avvenimenti, di prendere parte al conflitto nell’unico modo in cui ha senso farlo: per vincerlo e non certo per contenere il danno. Il virus ha incrinato la macchina capitalistica, specialmente nelle metropoli, ma anche nell’intero villaggio globale. Il prodotto immateriale rimane al centro del processo di valorizzazione e anzi acquisisce una sorta di nuova centralità; al tempo stesso la cooperazione sociale appare come l’elemento senza il quale nessuna attività lavorativa è in concreto possibile. Ma senza le soggettività espropriate della loro stessa esistenza per metterla a valore nessuna cooperazione sociale potrà aver luogo, sottraendo al capitalismo estrattivo, al liberismo, al ciclo finanziarizzato di guadagnare. La cooperazione sociale intesa come presupposto necessario della moderna produzione ci conduce nel terreno del comune, dunque della lotta in corso per mantenerlo (secondo l’interesse e il punto di vista precario) o per impossessarsene trasformandolo in merce (secondo l’interesse e il punto di vista del capitale). Non c’è spazio per ridurre il danno; il capitale non ha neppure scelta, o prende tutto o soccombe. E ne è consapevole.
Per entrare davvero nel conflitto è necessario ridefinire la rivendicazione di un reddito non condizionato, o universale che dir si voglia. Va liberato dal vincolo di una connotazione semplicemente sindacale, e al tempo stesso deve incarnarsi, in singole situazioni e con le più diverse modalità, in una sequenza variegata di obiettivi, comprensibili, ragionevoli, conquistabili, possibili. Il reddito incondizionato è legato, in un rapporto di causa ed effetto, al comune sottratto al capitale, difeso o conquistato; e al controllo della cooperazione sociale. Un programma strategico con mille articolazioni tattiche. Questo è un momento di coalizione, e non di divisione. Di una capacità di coalizione assolutamente elastica nel momento del singolo passaggio, al tempo stesso legata alla precisa consapevolezza di puntare ad un radicale cambiamento dello stato di cose presente. La solita vecchia talpa!
La bonaccia di questi mesi e lo stallo della pandemia non possono durare in eterno. In questi mesi di lockdown i nodi si sono avvicinati al pettine. Il capitale pretende una soluzione, e al momento propende per una soluzione autoritaria, d’ordine; ma al tempo stesso deve assicurarsi il consenso (magari estorto, magari fondato sulla paura, ma un consenso) necessario per poter utilizzare la cooperazione sociale. La liberalizzazione dei contratti di lavoro, accelerata in questi mesi con l’introduzione di modalità informatiche già prima esistenti ma ora legittimate, va in questo senso; l’ulteriore contenimento delle retribuzioni costituisce ulteriore corollario. E l’uso spregiudicato del distanziamento accompagnato da sanzioni del tutto discrezionali sembra essere diventato una norma di cui l’esecutivo può disporre quando ritiene sia opportuno, senza troppe spiegazioni e assai rapidamente.
Potrà essere una forma di autoritarismo leggero che non tocca alcune scelte personali di vita (religione, matrimonio, orientamento sessuale) e mantiene almeno in parte gli ammortizzatori sociali; o potrà concretarsi in un autoritarismo più aggressivo e invasivo, discriminante, intollerante. Entrambe le opzioni sono possibili; come è possibile che per eccesso di litigiosità si vada stupidamente verso il disastro collettivo.
Ma potrebbe essere l’occasione di cominciare a costruire una risposta all’offensiva, di piegare il cambiamento alle ragioni del precariato, di migliorare la propria condizione complessiva. Sono comportamenti collettivi che nascono per loro natura imprevisti e imprevedibili, quando i tempi sono maturi e il presente viene percepito come inaccettabile. E’ accaduto in Francia, prima e durante l’epidemia. In Italia qualcosa c’è stato: l’adesione massiccia alle proteste sul clima (la generazione di Greta), l’esperienza di Nonunadimeno, il malessere generale, il sentiment che invoca una ecologia politica capace di individuare le strade di una nuova stagione.
Tira una brutta aria di tempesta. Non c’è modo di evitarla, bisogna farsene una ragione. Arriva per tutti, che la si voglia o meno. Tanto vale affrontarla.
Come cantava tale Rudi Assuntino alla fine degli anni sessanta: non serve domandarci se poi ce la faremo. Proviamoci e basta.
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