Ancora oggi, il progetto della costruzione di un’Internazionale rivoluzionaria di massa resta un obiettivo ineludibile per contrastare e sconfiggere un modo di produzione globale sempre più inumano e distruttivo.
Ci pare che questo contributo ne fissi alcune importanti coordinate.
anticapitalista.org Daniel Bensaïd
Il mondo si trasforma. La vecchia “cortina” staliniana è un campo di rovine. Le illusioni si sfaldano. Ma è il disfacimento della memoria a perseguitare il movimento operaio. Da qui nasce l’interesse di una continuità di pratica e di programma per orientarsi nelle ampie ricomposizioni che verranno.
Dalla formazione dell’Opposizione di Sinistra alla fondazione, nel 1938, della IV Internazionale, la battaglia di Trotsky contro la degenerazione staliniana si è concentrata nella difesa dell’internazionalismo rivoluzionario di fronte alla crescita dello sciovinismo e della ragione di Stato. Mezzo secolo più tardi, la posta in gioco storica sarebbe apparsa in tutta la sua ampiezza.
Da un lato, l’internazionalizzazione della produzione, degli scambi, della divisione del lavoro, dell’informazione, dei servizi ha fatto progressi a passi da gigante. Un battito d’ali di farfalla allá borsa di Tokyo ha un effetto immediato su quella di New York. La borghesia e le multinazionali si dotano di un vasto dispositivo di concertazione e azione monetaria, diplomatica e militare, in cui si combinano vertici, patti (NATO, SEATO), organismi finanziari (FMI, Banca Mondiale) ecc…
Dall’altro, il movimento operaio si è progressivamente frammentato e spezzettato nel quadro degli Stati nazionali. All’avanguardia e in anticipo sulla storia con la fondazione, più di un secolo fa, della Prima Internazionale, è oggi in ritardo sulle multinazionali e sui governi nell’organizzare la sua risposta ai progetti di unione economica e monetaria, anche solo a livello continentale europeo! Lo iato è enorme e duraturo.
Le sfide tenaci
Anche l’internazionalismo è stato sfigurato. Dapprima a causa della stretta associazione dei partiti socialdemocratici con le borghesie imperialiste, il sostegno attivo offerto alle politiche coloniali e, oggi, allo sfruttamento e alla rapina del terzo mondo. Poi a causa della subordinazione del movimento comunista agli interessi della burocrazia di Stato staliniana e a una madre patria del socialismo reale, che fosse sovietica o cinese. Gli “amici” dell’URSS , della Cina, dell’Albania, hanno sostituito, ovunque nel mondo, rivoluzionari capaci di collaborare nell’uguaglianza e nel rispetto reciproco. Infine, la degenerazione burocratica delle rivoluzioni vittoriose è arrivata fino alle sue logiche conseguenze: i conflitti sino-sovietici, sino-vietnamiti, la guerra tra il Vietnam e la Cambogia.
Tuttavia, gli avvenimenti in corso mettono in nuova luce l’attualità dell’internazionalismo e il suo insostituibile ruolo. Quanti compagni latino-americani o asiatici, autenticamente rivoluzionari, ci hanno rimproverato di criticare irresponsabilmente il “campo socialista” che, nonostante i suoi difetti, costituiva ai loro occhi una retroguardia logistica politica e materiale indispensabile nei rapporti di forza mondiali?
Al principio della rivolta operaia in Polonia, nel 1980-81, un vecchio amico cileno ci diceva:
“Ciò che accade in Polonia è formidabile. È la dimostrazione eclatante della realtà della burocrazia e delle rivendicazioni di una movimento sociali indipendente. Ma poiché non c’è alcuna possibilità di vincere, di stabilire alle frontiere dell’URSS un socialismo democratico, per noi è meglio che i sovietici ristabiliscano l’ordine il più presto possibile”
Cinismo, realismo in trompe l’oeil, doppia coscienza? Discussione fatta più e più volte. Noi rispondemmo che questo presunto realismo aveva la vista corta; che le società burocratiche dell’Est erano minate da contraddizioni reali e che queste contraddizioni avrebbero finito per esplodere in un modo o nell’altro; che rifiutare di prepararsi a questo avrebbe condotto, nella migliore delle ipotesi, a un approccio incoerente: i rivoluzionari del terzo mondo potevano contare soltanto sulla solidarietà dei popoli, sulla comunità della lotta di classe, sull’internazionalismo cosciente e non sulla fedeltà diplomatica di Stati marci fino al midollo, né sulla solidità di un qualsiasi “campo socialista”. Nella peggiore delle ipotesi, la loro “realpolitik” li spingeva nel campo degli oppressori, fino a sostenere la normalizzazione a Praga o a varsavia, non per amore della burocrazia, ma in funzione di un mal inteso antimperialismo che, in nome della lotta contro il nemico principale, sacrificava i loro soli alleati naturali alle baionette del nemico secondario. Questa discussione è oggi giunta a termine.
Su un campo di rovine. L’internazionalismo in briciole.
Da dove vien fuori, non la rinascita spontanea di un internazionalismo di massa, ma la ripresa di conflitti esasperati, di fanatismi religiosi, di integralismi etnici, di nazionalismi stantii e decotti. C’è una ragione politica profonda. Non si spreca impunemente una speranza formidabile, un formidabile slancio di fraternizzazione dei popoli, come quello suscitato dalla Rivoluzione d’Ottobre. La storia non fa deviazioni, non apre parentesi rispetto a una via prestabilita. Le sue esperienze e le sue improvvisazioni danno tutta la misura del peso dei suoi disastri.
Questo secolo è stato particolarmente fecondo di catastrofi. A causa di apparati politici e militari sempre più mostruosi, lo scontro tra Stati, blocchi e campi ha respinto la logica della lotta di classe. Lo sciovinismo delle burocrazie socialdemocratiche e staliniane ha infettato il movimento operaio in maniera duratura. Non ci si libererà con un magico colpo di spugna degli effetti profondi delle guerre “patriottiche”, delle guerre coloniali pienamente avallate, o della compiacenza nei confronti della xenofobia contro gli immigrati (storia di diritto di voto e bulldozers).
In tutta evidenza, c’è una ragione sociale, che solo una visione angelicata potrebbe ignorare. Gli sfruttati non sono mai spontaneamente uniti. Possono convergere nella lotta comune, ma la concorrenza sul mercato del lavoro li mette incessantemente gli uni contro gli altri. Ciò vale per un paese e, a maggior ragione, vale sul piano internazionale, e non soltanto con l’utilizzo delle politiche migratorie, ma in modo ancora più semplice. Noi lottiamo nei paesi europei contro gli effetti della crisi, le politiche di austerità, la disoccupazione. Ma questi effetti sono stati per il momento ammortizzati dalle conquiste passate del movimento operaio (welfare, indennità di disoccupazione).
Le borghesie non sono state in grado di gestire questi equilibri se non trasferendone il costo sui più deboli (terzo mondo e paesi dell’Est). La socialdemocrazia ha ottenuto successi elettorali presentandosi come il campione del male minore. Tuttavia, la base materiale di questi nuovi compromessi sociali è una concentrazione delle ricchezze, delle tecnologie d’avanguardia, di capitalizzazioni di borsa senza precedenti nei sette paesi più ricchi, e di una rapina sempre più pronunciata dei più poveri: da un decennio, il terzo mondo, è bene ripeterlo, è esportatore netto di capitali a vantaggio delle metropoli.
In queste condizioni, non è sufficiente che il Muro di Berlino sia crollato, che le illusioni dei rivoluzionari asiatici o latino-americani sulla realtà e il ruolo del “campo socialista” siano crollate con esso affinché si ritrovi la via dell’internazionalismo militante. Il problema è evidentemente posto solo a tentoni, nei primi tentativi di riflessione e di riorganizzazione (come l’incontro dei partiti di sinistra latino-americani a Sao Paolo, lo scorso luglio).
Ma per trovare una soluzione positiva, occorrerebbe che i rivoluzionari latino-americani possano, ad esempio, incontrare interesse e disponibilità internazionalista di un altro livello nel movimento operaio dell’Europa occidentale, negli Stati Uniti e in Giappone, mentre i loro interlocutori sono spesso organismi governativi e paragovernativi gestiti dalla socialdemocrazia. Occorrerebbe che incontrassero non i burocrati governativi, ma i militanti delle correnti socialiste e democratiche in Europa dell’Est. È vero che queste correnti sono ancora oggi degli esigui ruscelli, e, sebbene lo scambio di idee con esse possa essere fecondo, nulla può compensare a breve termine la perdita di assistenza materiale, seppur limitata e sottoposta a condizioni, che un tempo proveniva dalla Germania dell’Est.
Certo, ci sono semi di un rinnovamento internazionalista. Ci sono, nella gioventù come tra i lavoratori, slanci di generosità e di solidarietà che si manifestano in mille canali, compreso le campagne contro il debito del terzo mondo, contro la guerra e la corsa agli armamenti, per le grandi cause ecologiste, incluse iniziative a favore dei villaggi rumeni o delle vittime di disastri. Ma questa disponibilità resta una scommessa, che può essere canalizzata e neutralizzata dalle istituzioni caritatevoli o indirizzata nel senso dello sviluppo di una presa di coscienza dei fattori della miseria nel mondo. La ricostruzione di questa coscienza internazionalista è una battaglia in sé.
Il labirinto del dubbio…
Anche tra i convinti rivoluzionari e gli internazionalisti autentici, resta un ostacolo lungo il percorso: quello di un bilancio delle passate Internazionali. Marx dissolse la Prima dopo la sconfitta della Comune, piuttosto che correre il rischio di vederla degenerare in una setta lacerata da dispute senza verifica pratica. La Seconda divenne la caricatura statalista che abbiamo conosciuto. La Terza fu congedata da Stalin nel 1943, per poter negoziare liberamente, da Stato a Stato, la riorganizzazione del mondo. La Quarta, fondata nel momento più profondo della sconfitta, ha mantenuto una continuità preziosa, ma non ha mai potuto trasformarsi un una Internazionale di massa.
Al di là di queste constatazioni, i compagni che rifiutano l’attualità di una Internazionale avanzano due tipi di ragionamento. Gli uni affermano che sarebbero a favore di una Internazionale di massa, ma che le condizioni immediate di una sua costituzione non esistono: una Internazionale minoritaria avrebbe necessariamente un effetto perverso e una logica settaria. Questi compagni constatano, non senza ragione, che la nebulosa delle correnti che si richiamano al trotskismo e alla IV Internazionale ha prodotto sul piano internazionale un forte contingente di sette deliranti, i cui costumi e le cui concezioni organizzative non ha spesso nulla da invidiare (in scala ridotta) ai partiti staliniani più inossidabili. Gli altri, invece, attribuiscono l’idea stessa di una Internazionale alle utopie sconfitte. Idea generosa ed entusiasmante, certo, innocente come il movimento operaio alla sua nascita, ma di cui la storia avrebbe dimostrato l’impossibilitò pratica. Nei labirinti del dubbio, sceglieremo sempre il filo dei princìpi. È qui che ci attende “l’ultima battaglia di Trotsky”1.
Per esprimere un progetto di emancipazione universale, nelle loro condizioni di sfruttamento, i lavoratori hanno la potenzialità di vedere il mondo al tempo stesso con gli occhi di un proletario cileno a Santiago, Nicaraguense a Managua, Polacco a Danzica, cinese ecc… Questa potenzialità può diventare effettiva soltanto attraverso la costruzione di un movimento operaio internazionale, sindacale e politico. Se è vero che l’esistenza determina la coscienza, l’internazionalismo esige una Internazionale.
Riprendiamo l’esempio del nostro amico real-politico cileno: il suo realismo gli dettò di sacrificare gli interessi dei lavoratori polacchi a quelli che credeva essere i suoi propri di rivoluzionario cileno. Mancando ai suoi doveri internazionalisti, si metteva in realtà al servizio della reazione clericale e dello sciovinismo polacco. Non possiamo esserne certi, ma possiamo ragionevolmente immaginare che la traiettoria di Solidarnosc e delle sue direzioni avrebbe potuto essere diversa se avessero incontrato un potente movimento internazionalista. Non si può abusare dei princìpi. Non ce ne sono molti.
Questo è il motivo per cui gli accomodamenti sui principi costano così caro. Ed è per questo che la battaglia di Trotsky si articola attorno della lotta per una nuova Internazionale, dal momento in cui giudicò irrevocabilmente fallito il Komintern stalinizzato.
Dal 1933 alla conferenza di fondazione del 1938, questa questione è al centro della sua attività, febbrile, ossessiva, nell’accumulazione delle sconfitte e nell’avvicinamento della guerra. Il punto di partenza è tuttavia chiaro. A Trotsky a volte è stata rimproverata la sua precipitazione. Durante questi cinque anni, egli conduce due sforzi: uno di chiarificazione, l’altro di raggruppamento.
Da una parte, si trattava di gettare le basi programmatiche di una nuova Internazionale, che non erano una dottrina, una visione generale del mondo, ma solo le lezioni più importanti assimilate dal movimento operaio internazionale. Si trattava, per Trotsky, di arricchire il patrimonio dei primi congressi dell’Internazionale Comunista, delle esperienze cruciali che costituivano la sconfitta della seconda rivoluzione cinese (discussione sulla teoria della rivoluzione permanente), la degenerazione burocratica dell’URSS (programma della rivoluzione antiburocratica), la vittoria del nazismo in Germania (rivendicazioni democratiche e fronte unico operaio).
Al tempo stesso, egli moltiplica le iniziative per raggruppare i rivoluzionari fuoriusciti dalla socialdemocrazia come dai partiti staliniani, le proposte di conferenza, le lettere aperte. Il suo progetto non è quello di una Internazionale “trotskista”, essendo pronto a prospettare una Internazionale pluralista, ma a due condizioni:
- che la discussione sulle questioni essenziali avvenisse in tutta chiarezza, che non sia mascherata da dubbi compromessi e che permettesse di verificare la compatibilità delle eventuali divergenze;
- che, al di là delle divergenze, i partner fossero d’accordo sulla costruzione di una Internazionale, sulla sua democrazia interna e su quella delle sue sezioni. In questo caso, le questioni non risolte avrebbero potuto evolvere in rapporto alla pratica comune e alle nuove esperienze.
Nel 1938, di fronte all’imminenza della guerra mondiale, e dopo aver esaurito questi tentativi, nasce infine la IV Internazionale, in condizioni radicalmente diverse dalle precedenti. Ciascuna delle precedenti tre Internazionali aveva coinciso con una fase di espansione e di organizzazione, addirittura di vittoria del movimento operaio. Ciascuna delle prime tre Internazionali poteva contare all’inizio almeno su una sezione di massa (quella ingelse per la Prima, quella tedesca per la Seconda, quella sovietica per la Terza).
La Quarta nacque al contrario dalla sconfitta e le sue principali forze erano in esilio, nei campi staliniani o nei campi nazisti. Alcuni storici o militanti ne hanno concluso che la fondazione della Quarta Internazionale era legata per Trotsky al pronostico secondo cui la Seconda Guerra Mondiale, che aveva previsto, avrebbe condotto alla caduta dello stalinismo e a un rilancio della rivoluzione mondiale tanto impetuosa quanto quella che si era prodotta all’indomani della Prima Guerra Mondiale.
In questo caso, sarebbe risorta una corrente bolscevica rivoluzionaria in URSS senza che la sua continuità fosse stata realmente spezzata da uno o due decenni di reazione staliniana. Questo pronostico non si è verificato. Ma la creazione dell’Internazionale procedeva da princìpi, non da un pronostico. La sua esistenza, il mantenimento di un quadro di riflessione programmatica comune nel cuore della tempesta, ha permesso ai suoi militanti di orientarsi, di guardare alla Stella polare, in situazioni inedite e impreviste, mentre correnti quantitativamente più importanti prima della guerra si dissolsero senza lasciar traccia.
Gli avvenimenti in corso costituirono un cambiamento radicale della situazione. Il cinquantennio trascorso non costituisce una parentesi in via di chiusura. La storia non torna sui suoi passi per offrirci di riprendere il dibattito tra Opposizione di Sinistra e buchariniani, dal momento in cui si interruppe a causa dell’irruzione della GPU, non meno che la caduta del Muro di Berlino ci faccia tornare indietro nel tempo per ripartire a passo cadenzato in buona compagnia di Rosa Luxemburg. Il tempo ha imbrogliato le carte e cancellare punti di riferimento, al punto tale che la Rivoluzione d’Ottobre non appare, neanche in URSS, come l’esperienza fondatrice e l’origine naturale della difonrazione di un movimento operaio indipendente.
Coloro che vogliono ricollegarsi alle migliori tradizione del movimento operaio hanno il diritto di mettere tutto in discussione. In queste condizioni, la IV Internazionale per come essa realmente è, non è percepita come l’alternativa naturale alle direzioni burocratiche che crollano. Ciò avrebbe potuto accadere negli anni Trenta o dopo la guerra: la legittimità della Rivoluzione Russa operava in linea diretta, gli attori erano spesso ancora gli stessi. Oggi, la riorganizzazione internazionale del movimento operaio è un cantiere infinitamente più aperto e complesso. Conserviamo un obiettivo, non smisurato, ma certamente ambizioso: la ricostruzione à lungo termine di un’Internazionale rivoluzionaria di massa.
Consideriamo la IV Internazionale né più né meno che uno strumento prezioso a questo scopo. Prezioso, perché nulla di buono nascerà dal metodo della tabula rasa o dalla rimessa del contatore a zero. Si possono porre questioni nuove, ma si pongono sempre con un linguaggio antico. Ci si può interrogare sulle trasformazioni del mondo, ma le questioni stesse su cui ci si interroga presuppongono una teoria aperta, pronta ad arricchirsi e ad autocriticarsi, ma sufficientemente coerente da organizzare un dialogo.
Detto altrimenti, di fronte al disfacimento della memoria che perseguita il movimento operaio, è importante mantenere una continuità di pratica e di programma, che ci consenta di orientarci nelle ampie ricomposizioni a venire. Al tempo stesso, dobbiamo essere capaci di intervenire, senza pregiudizi né settarismo, negli elementi, pur limitati e fragili, di riorganizzazione parziale, a livello nazionale o regionale, che si tratti di mobilitazioni e attività comuni a correnti che, fino a ieri, si ignoravano o si scambiavano insulti, che si tratti di scambi di esperienza o di riflessione.
Sappiamo essere pazienti. Il trauma è stato profondo. La convalescenza sarà lunga e non potrà essere accelerata se non da avvenimenti di grande portata, di nuove esperienze fondatrici, suscettibili di risolvere i grandi interrogativi e di polarizzare le forze oggi disperse.
L’avvenire dipende dalla nostra capacità di tenere insieme i due estremi della catena, di non perdere il filo di un’identità politica e ad impegnarci senza pregiudizi nelle interlocuzioni che si aprono. Via stretta, senza alcun dubbio, tra zone di conforto e retorica settaria, da un lato, e il cuscino molle del dubbio senza metodo, dall’altro. Contrariamente a dei cliché ignoranti o mal intenzionati, il Trotsky della battaglia per la IV Internazionale non è un ansioso megalomane, ma un pedagogo paziente, di cui è importante assimilare l’impostazione:
“Non so dove arriverà la Quarta Internazionale. Nessuno lo sa. È possibile che dovremo entrare nuovamente in un’Internazionale unificata con la Seconda e la Terza. È impossibile considerare il destino della Quarta Internazionale indipendentemente da quello delle sue sezioni nazionali e vice versa […]. Occorre che facciamo i conti con la possibilità di situazioni senza precedenti nella storia […] Se consideriamo la Quarta Internazionale soltanto come una forma internazionale che ci obbliga a mantenere associazioni indipendenti di propaganda in ogni circostanza, saremo perduti. No, la Quarta Internazionale è un programma, una strategia, un nucleo di direzione internazionale. Il suo valore deve consistere in un atteggiamento che non sia troppo giuridico”
Supplemento à Rouge n° 1418. Disponibile su le site Daniel Bensaïd.
1. | ⇧ | Si veda « les Années de formation de la IVe Internationale », Daniel Bensaïd, Cahiers d’étude et de recherche n° 9, 1988. |
2. | ⇧ | Trotski, Œuvres, tome VIII, p. 184, EDI. |
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