lunedì 26 agosto 2019

L’antisalvinismo e l’alternativa che non c’è.

L'opposizione al liberismo nazionalista della Lega che hanno in testa Pd e M5S è tutta istituzionale, sul modello del vecchio "antiberlusconismo". Ma i movimenti possono cogliere un'occasione: se c'è uno spazio di possibilità da aprire sarà la partecipazione collettiva a costruirlo.

jacobinitalia.it Lorenzo Zamponi 

Finisce in farsa l’avventura del governo gialloverde. Martedì scorso, il presidente del consiglio Giuseppe Conte, dopo un lungo discorso al senato costellato di attacchi al suo vice leghista Matteo Salvini, si è ufficialmente dimesso, mentre la Lega ritirava la mozione di sfiducia presentata la settimana precedente, dichiarandosi disposta a continuare l’esperienza di governo. Un gioco del cerino oltre i limiti dell’imbarazzo, con cui Movimento Cinque Stelle e Lega hanno provato fino all’ultimo a scaricare l’uno sull’altra le responsabilità della fine del governo. 
Ma l’esperienza gialloverde è finita, a meno di clamorose sorprese, e il M5S sta negoziando col Pd la formazione di un esecutivo alternativo. 

Una mossa pragmatica e inaspettata, che sembra aver colto di sorpresa lo stesso Salvini, convinto di poter disporre a proprio piacimento dell’agenda elettorale.
Si appanna, quindi, il mito del Salvini infallibile e invincibile sapientemente costruito dalla macchina mediatica leghista e colpevolmente alimentato dai media mainstream nel corso degli anni: il “Capitano”, stavolta, rischia seriamente di perdere e di passare all’opposizione. Anche se accadesse, Salvini resterebbe comunque al centro dello spazio politico, oggi più che mai diviso tra salviniani e antisalviniani, come ai tempi del suo padre politico Silvio Berlusconi. Il fronte anti-Salvini esce da questa settimana di crisi con un nuovo, bizzarro, eroe: Giuseppe Conte, che un semplice discorso di sobrietà istituzionale ha portato a vette di popolarità inaspettate e sinceramente immeritate. Il popolo delle maratone di Mentana segue ormai la politica come un teatrino bipolare, mentre un M5S sempre più camaleontico si veste di centrismo responsabile e poi sfida il Pd a sinistra, cercando di occupare il più possibile lo spazio dell’antisalvinismo.
Ma quale alternativa si prospetta al liberismo nazionalista di Salvini? M5S e Pd sono tentati da una soluzione tutta istituzionale e moderatissima, ma una spinta diversa può venire dal basso. Il prossimo governo, se ci sarà, di sicuro non sarà il nostro, ma potrebbe essere un’occasione interessante per sindacato e movimenti, se sapranno costruire nelle piazze un’agenda alternativa che non si accontenti della normalità istituzionale anti-salviniana e contenda alla destra il consenso popolare.

Salvini e il liberismo autoritario

A determinare la crisi è stata l’accelerazione imposta da Salvini al conflitto strisciante tra Lega e Movimento Cinque Stelle in atto già dalle europee. Paradossalmente, il casus belli della rottura tra Salvini e il presidente del consiglio Conte è stato il voto parlamentare sulla Tav, che vedeva Conte e Salvini dalla stessa parte della barricata, la stessa, del resto, sostenuta dalle istituzioni europee, contro il Movimento Cinque Stelle. Lega e M5S si sono scambiati più volte le parti in commedia, alternandosi nel mostrare il volto rassicurante ed europeista e quello aggressivo e sovranista di questo governo. La rottura più forte, però, è avvenuta sul voto del Parlamento Europeo alla nuova Commissione guidata da Ursula von der Leyen: nel nuovo bipolarismo europeo modellato sullo schema Macron vs. Le Pen, tecnocrazia liberale contro destra reazionaria, il M5S e soprattutto Conte si sono schierati da una parte e Salvini dall’altra. Difficile pensare che il voto grillino, decisivo per la nomina della Commissione, sia avvenuto senza precise assicurazioni sul coinvolgimento italiano nelle scelte dei prossimi mesi, dal rilancio del Quantitative Easing da parte della Bce alla proposta di riforma del Trattato di Dublino sull’asilo politico. Di certo, Salvini si è sentito tagliato fuori da quella partita, pur essendo lui il vincitore delle elezioni europee.
Può mr. 34% (cifra che si avvicina al 50% con gli alleati Berlusconi e Meloni) non avere voce in capitolo sulle alleanze europee del governo che, di fatto, sente di avere titolo a guidare? Poteva davvero Salvini continuare a recitare un ruolo da comprimario, per quanto di lusso, nel governo Conte? Arrivati a questo punto, sarebbe stato davvero difficile. Il suo progetto di liberismo nazionalista si è raffinato e consolidato, rappresenta un’avanguardia nella destra europea, e sta modellando su se stesso la politica italiana. La figura del segretario della Lega è diventata talmente pesante che il sistema ha iniziato a gravitare intorno a essa, dividendo il campo politico tra salviniani o antisalviniani. Fortissima, a quel punto, la tentazione di passare all’incasso. Di diventare direttamente presidente del consiglio e andare direttamente, senza la mediazione di Conte e Tria, a negoziare con l’Ue.
È rarissimo, nella storia politica italiana, il caso di un governo che viene fatto cadere dalla forza più radicale e connotata e non da quella più moderata e ambigua: normalmente, è chi ha a disposizione un secondo forno, come in questo caso il M5S, ad avere il coltello dalla parte del manico. La scommessa di Salvini era che quel forno fosse impossibile da aprire, che M5S e Pd sarebbero stato troppo prigionieri dei propri limiti per fare la scelta pragmatica dell’alleanza. Per ora, sembra aver avuto torto: sorprendendo molti, Pd e M5S stanno seriamente lavorando a un accordo di governo.
Se così dovesse andare (scenario al momento tutt’altro che certo), la figura di Salvini ne uscirebbe ovviamente indebolita. La mossa del “Capitano” che nella smania di prendersi tutto il governo si manda all’opposizione da solo resterebbe negli annali dell’autolesionismo politico. E già ora, l’immagine del ministro dell’interno costretto a restare per 45 minuti immobile e seduto ad ascoltare, borbottando e rosicando, il discorso di Conte che lo redarguisce come un bambino un po’ discolo, non può far bene alla mascolinità ipertrofica di Salvini. Il mito della sua invincibilità si è basato per lungo tempo sull’inettitudine altrui: è bastato che i Cinque Stelle battessero un colpo e che il Pd per una volta non si facesse trovare del tutto impreparato, per apparecchiare la prima vera sconfitta del leader leghista.
Ma Salvini e il salvinismo sono tutt’altro che morti. Chi in queste ore scommette sulla notte dei lunghi coltelli dentro la Lega e sulla rivolta dei colonnelli contro di lui si sbaglia di grosso. Salvini resta l’autore del miracolo che ha portato un partito territoriale devastato dallo scandalo di Bossi a diventare la prima forza politica nazionale: né Zaia né Giorgetti né Fontana sarebbero mai in grado di prendere i milioni di voti che Salvini ha preso in Calabria, Campania, Puglia, Sicilia.
E Salvini, oltretutto, ha una cosa che nessun altro ha, oggi, in Italia: un progetto politico. Il liberismo nazionalista di cui parlava Salvatore Cannavò la settimana scorsa, quella specie di fusione tra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin di cui Viktor Orbán è stato antesignano, è vivo e vegeto. Chiusura dei confini e flat tax, scontro col resto d’Europa e privatizzazioni, stato minimo in economia e braccio violento della legge con migranti e manifestanti. La versione nazionalista e popolaresca della stessa fusione tra liberismo in economia e autoritarismo di polizia che Emmanuel Macron sta mettendo in atto, in versione tecnocratica e incravattata, in Francia.
Salvini e la sua destra restano di gran lunga la più popolare tra le forze politiche in campo, e si giocheranno con i favori del pronostico le prossime elezioni, a meno di cataclismi. Il governo M5S-Pd, se nascerà, avrà di fronte un’opposizione feroce e con gli occhi iniettati di sangue, pronta a occupare ogni spazio mediatico e ad appropriarsi di ogni possibile tema di consenso. La sfida, se non si andrà a votare in autunno, sarà solo rimandata. Il liberismo nazionalista di Salvini è, oggi, l’unica vera proposta politica in campo in Italia. Non è egemone e universale come spesso si dice, ma c’è, ed è l’unica. E non si sgonfierà da sola.

Da Beppe Grillo a Giuseppe Conte: il M5S nella palude

A uscire massacrato dall’esperienza del governo gialloverde è il Movimento Cinque Stelle, completamente schiacciato su Salvini per un anno e mezzo e ora frastornato e diviso sulla reazione con cui affrontare l’attacco dell’ex alleato. I segnali sono quelli del caos: da una parte Conte che in parlamento attacca per 45 minuti consecutivi Salvini, e viene poi osannato per giorni dall’intero apparato grillino, dall’altra Di Battista che, a dieci giorni dallo scoppio della crisi, ancora lancia messaggi di distensione alla Lega. L’impressione è che la leadership di Di Maio non sia mai stata tanto debole, tanto che per lanciare l’idea di un dialogo col Pd è dovuto tornare in campo il fondatore e garante Beppe Grillo, da lungo tempo in silenzio.
Niente è ancora deciso, e non stupirebbe se nei prossimi giorni Di Maio tornasse a dialogare con la Lega. Però alcuni passaggi fondamentali di questi mesi, primo fra tutti il già citato voto per la Commissione Europea, segnalano la graduale integrazione del Movimento Cinque Stelle nel campo del centrosinistra liberal-europeista. Il discorso di Conte in parlamento sembrava un annuncio programmatico e sapeva di ricandidatura, snocciolando temi, dall’equilibrio di bilancio alla transizione ecologica, poco distinguibili da quelli del Pd. Di fatto, se la politica italiana si ricostruisce sulla divisione tra Salvini e anti-Salvini, Conte si è candidato alla leadership del secondo campo, tentando la nuova edizione dell’esperimento “leader centrista serio e responsabile in difesa delle istituzioni contro i barbari populisti”, amatissimo dai media e che in passato è quasi sempre sfociato nel tracollo elettorale, da Lamberto Dini a Carlo Calenda passando per Gianfranco Fini e Mario Monti.
La traiettoria del presidente del consiglio, che nato come prestanome è finito per diventare il massimo rappresentante del M5S e per determinarne le scelte di fondo (come appunto quella sulla Commissione Europea) segnala ancora una volta la centralità che la figura del capo dell’esecutivo ha assunto nel nostro sistema politico. L’idea di un “premier-notaio” è incompatibile con la realtà della politica italiana di oggi, in cui il presidente del consiglio è di fatto il leader politico del paese. Una lezione che M5S e Pd farebbero bene a tenere a mente, nella costruzione dell’ipotesi di governo a cui stanno lavorando.

L’alternativa che non c’è

Mentre Conte in parlamento mostrava la faccia centrista e responsabile del M5S e Di Battista ammiccava a Salvini, Di Maio annunciava 10 punti per il prossimo governo che sfidavano il Pd a sinistra: salario minimo, cuneo fiscale, rinnovabili, beni comuni. Sembra di essere tornati al post-elezioni 2013, quando il M5S incalzava il centrosinistra sui temi sociali, invece di allinearsi alla destra su sicurezza e immigrazione.
Mosse tutte tattiche, prodotte da un partito sempre più camaleontico e frammentato, e rivolte a un Partito Democratico a sua volta diviso e confuso. A spingere il M5S tra le braccia di Zingaretti e Renzi, sarebbe ingenuo non dirlo, è prima di tutto la paura di nuove elezioni. Il prezzo pagato alle europee per l’esperienza del governo Conte è stato salatissimo, e buona parte della truppa grillina, in caso di voto anticipato, rischierebbe di cedere il seggio a leghisti e, in qualche caso, piddini. Un governo raffazzonato, costruito sulla paura e segnato da una conflittualità altissima sia tra le forze politiche sia al loro interno, difficilmente durerebbe più di pochi mesi. Non è un caso che il segretario del Pd Zingaretti, tra le condizioni per un accordo, abbia messo il riavvio del percorso di revisione costituzionale per il taglio dei parlamentari: storicamente non c’è assicurazione sulla vita migliore, per un governo, che un processo di riforma della Costituzione, di durata almeno biennale, che impegna gli attori a restare della partita fino alla fine.
Ma non ci sono solo paura e convenienza a spingere il M5S verso il Pd. C’è anche la constatazione della ristrutturazione politica di cui sopra: se si è solidificata una nuova destra salviniana che punta alla maggioranza assoluta, è solo naturale che si provi a formare un campo ad essa alternativo, con le stesse ambizioni maggioritarie e di governo. Chiunque abbia guardato i numeri delle europee con un minimo di onestà intellettuale non può non aver visto che M5S e Pd non hanno alternativa al dialogo tra loro, se hanno l’ambizione di governare l’Italia. La sfida è quella di un’alternativa al liberismo nazionalista di Salvini.
Quale alternativa? Se lo schema è quello dell’elezione della Commissione Europea, è presto detto: la tecnocrazia liberale, il riferimento italiano di Ursula von der Leyen e dell’asse Merkel-Macron che l’ha proposta. Non è un caso che Romano Prodi abbia parlato di “maggioranza Ursula”, proponendo di includervi anche Forza Italia. Berlusconi, chiaramente, è abbastanza intelligente da sapere che per il bene di questo governo non è il caso che lui vi si avvicini, ma il tema politico non cambia, e lo si vede riflesso in molti dei nomi che girano come candidati alla presidenza del consiglio, dalla giurista cattolica Marta Cartabia all’ex ministra di Monti Paola Severino: un governo di tenuta istituzionale e di garanzia verso le istituzioni europee, costruito sull’antisalvinismo e sull’ortodossia di bilancio.
Se sarà questa la scelta, l’eventuale governo M5S-Pd sarebbe sicuramente migliore del precedente in termini di tenuta democratica e difesa delle norme basilari della civiltà e dell’umanità, cosa da non sottovalutare di questi tempi, ma di certo non segnerebbe alcuno scarto politico e, cosa ben più grave, rischierebbe di portare ancora più acqua al mulino del consenso salviniano.
Non è detto, chiaramente, che sia così, e il pallino ce l’hanno le istituzioni europee. Se a un eventuale governo M5S-Pd fosse concessa una certa flessibilità di bilancio e la riforma del Trattato di Dublino, ad esempio, già lo schema cambierebbe: di certo non vedremmo le politiche espansive di cui l’economia e la società italiana hanno bisogno, ma il governo potrebbe occuparsi, invece di concentrarsi sulle clausole di aumento dell’Iva, di cosette come la stabilizzazione dei precari della scuola, l’aumento dei salari attraverso la leva fiscale e quella contrattuale (più difficile che si trovi un accordo sul salario minimo) e un primo piano di investimenti su infrastrutture e transizione ecologica. Un governo che potesse muoversi in questa direzione, pur nei limiti ristretti delle norme Ue, sarebbe un governo che potrebbe puntare a erodere il consenso della destra, o quantomeno a contendersi con essa l’egemonia sulla società italiana.
In tutto ciò, il ruolo della sinistra parlamentare appare marginale, vista la sua esigua rappresentanza (anche se paradossalmente potrebbe essere decisiva per la fiducia), ma una parte importante la potrebbe giocare il conflitto sociale. La sociologia dei movimenti sociali tende a considerare come situazione ideale per l’azione collettiva un contesto in cui le opportunità politiche sono aperte, cioè c’è un governo dialogante, e tale governo è diviso al suo interno, dando quindi la possibilità ai movimenti di giocare sulle contraddizioni tra le diverse parti. Un governo M5S-Pd, in cui i due partiti sono in competizione costante per il consenso, potrebbe fornire a sindacato e movimenti un’insperata occasione di protagonismo. Del resto, se una nuova scadenza elettorale porterebbe inevitabilmente a schiacciare ogni alternativa sull’antisalvinismo, chiudendo lo spazio per ogni proposta davvero alternativa allo schema dell’austerità e del neoliberismo, un governo “giallorosa” (non ce la facciamo davvero a considerare “rosso” il Pd) rimetterebbe al centro del dibattito il centrosinistra liberal-progressista con le sue ambiguità e le sue contraddizioni, su cui sinistra e movimenti potrebbero aver modo di agire. Il governo che nascerà potrà essere tante cose, dal “governo di Ursula” evocato da Prodi al “governo di svolta” di cui parla Zingaretti, passando per le mille sfumature intermedie. Non sarà, in ogni caso, il nostro governo, e sarebbe bizzarro pensare che lo possa essere, rappresentando un parlamento in cui la sinistra è assolutamente marginale e nascendo dal compromesso tra due forze politiche sostanzialmente liberali. Ciò non significa che il destino degli uomini e delle donne di sinistra sia di ridursi a spettatori compulsivi delle maratone di Mentana, godendo dell’evolversi della narrazione tra un colpo di scena e l’altro, senza alcuna possibilità di incidere su ciò che accade. Per forzare la logica del “There is no alternative” e del bipolarismo tra liberismo tecnocratico e liberismo nazionalista, l’unica strada è quella dell’azione collettiva. Senza illusioni di impatto immediato su un governo che avrà un’agenda propria, ma anche senza timori nel provare a rovesciarla. Se c’è uno spazio di possibilità da aprire scardinando questo bipolarismo opprimente, sarà la partecipazione collettiva a costruirlo.
Lo sciopero del clima di fine settembre, lo sciopero generale che continua ad aleggiare, e le altre date di mobilitazione di un autunno che si annuncia caldo come non capitava da un po’, potrebbero essere le chiavi con cui interpretare la fase politica che si apre, costruendo nelle piazze un’agenda di alternativa che non si schiacci sulla semplice tenuta istituzionale garantita dall’eventuale governo e che non lasci alla destra di Salvini l’esclusiva sullo scontento sociale. Emergenza climatica, questione salariale, diritti: far irrompere la dura realtà sul teatrino della politica è l’unico modo per non cadere dalla padella liberal-sovranista nella brace liberal-tecnocratica.
* Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica.

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