Incarna il mito conservatore del "tecnico" che riduce l'economia ad equilibrio dei conti pubblici.
marta fana
Appare ogni domenica sera, in prima serata, su Raiuno. Affabilmente intervistato dall’ingenuo e sornione Fabio Fazio, mostra tabelle, elenca voci di spesa, snocciola dati. Carlo Cottarelli è diventato ormai una presenza fissa sull’ammiraglia della tv pubblica. Recita il suo Angelus finanziario poche ore dopo quello di papa Francesco, segnando la fine del weekend e il ritorno alle preoccupazioni della quotidianità feriale. “L’economia in prime time non si pensava potesse essere un argomento – ha esordito Fazio domenica 21 ottobre – invece si sta comprendendo quanto sia vitale nella vita di ciascuno di noi”. Un progetto didattico, quindi, di informazione scientifica, con l’idea di fare dell’ex commissario della spending review una specie di Piero Angela dell’economia. Una scelta non casuale e rivelatoria. La promozione di Cottarelli a divulgatore economico per eccellenza della tv di stato, voce neutra e autorevole, in quanto “tecnica”, della scienza che governa le vite di tutti, ci dice parecchio sull’idea di economia che domina il dibattito pubblico, sull’ossessione diffusa per i conti pubblici e il rigore di bilancio e sulla completa rimozione di dettagli come lavoro, produzione, moneta, e lo stesso mercato dall’idea di economia pubblicamente discussa in Italia.
L’uomo dei conti
Chi è Carlo Cottarelli e come è arrivato a occupare lo spazio tra Flavio Insinna e Luciana Littizzetto nella domenica sera degli italiani? Laurea a Siena, master alla London School of Economics, incarichi tra la Banca d’Italia e l’Eni, poi nel 1988, giovanissimo, vola a Washington, dove inizia una lunga e fortunata carriera al Fondo Monetario Internazionale, l’istituzione protagonista dei famosi “programmi di aggiustamento strutturale” nel sud del mondo, e più recentemente dell’imposizione di misure di austerità senza precedenti alla Grecia. Cottarelli rimane a Washington fino al 2013, quando Enrico Letta lo chiama come commissario alla spending review del suo governo. Nel suo libro La lista della spesa: la verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare (Feltrinelli, 2015), racconta di essere stato convinto ad accettare da una consapevolezza: il suo incarico avrebbe consentito “di accrescere, nel dibattito pubblico, il rilievo della Revisione della spesa, che è essenziale per un paese”. Resta commissario alla spending review per un anno, finché il nuovo presidente del consiglio, Matteo Renzi, non lo rimanda con nomina governativa a Washington di nuovo al Fondo Monetario, da dove poi torna nuovamente in Italia, nell’ottobre 2017, per dirigere l’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani che l’Università Cattolica di Milano ha costruito su misura per lui.La sua immagine pubblica resta legata a quei 12 mesi passati da “Mister Forbici”: l’uomo incaricato da Letta di tagliare la spesa pubblica nel modo più profondo e allo stesso tempo indolore possibile, e poi messo da parte da Renzi perché poco ben disposto verso i pur timidi tentativi di redistribuzione dell’ex sindaco di Firenze. La fine rapidissima del suo incarico contribuisce a crearne il mito: l’inflessibile guardiano dei conti pubblici, silurato perché voleva tagliare le auto blu e i famigerati sprechi della pubblica amministrazione. In campagna elettorale, tutti lo cercano: Berlusconi arriva a proporgli un ministero in diretta tv, a febbraio, mentre Di Maio elogia pubblicamente il famoso “dossier Cottarelli” sulla revisione della spesa e promette di attuarlo una volta al governo. Giudizi che cambiano drasticamente a fine maggio, quando l’ex commissario viene incaricato da Mattarella di formare un governo tecnico, opzione poi tramontata, in meno di 48 ore, una volta chiuso l’accordo M5S-Lega. Chiusa la parentesi governativa, Cottarelli mette la sua popolarità al servizio di questo nuovo lavoro di divulgazione economica.
Rigore di bilancio e anti-statalismo di stato
È proprio la sua identificazione come “uomo dei conti” ad aver fatto di Cottarelli l’interprete perfetto del ruolo di divulgatore economico in Rai. Un’associazione narrativa e simbolica, molto più che politica o di dottrina economica. Perché Cottarelli, ironia della sorte, non è un falco dell’austerità. Tutt’altro. Nel libro del 2015, spiega in maniera perfettamente keynesiana perché tagliare la spesa per ridurre il deficit sia un tragico errore: “I tagli di spesa comportano una maggiore austerità solo se serve a ridurre il deficit pubblico – spiega –. In questo caso si tolgono risorse all’economia e ciò ha un effetto recessivo, almeno nell’immediato. Persino tagliare la spesa improduttiva (gli sprechi) ha un effetto recessivo perché ogni spesa costituisce un reddito per qualcuno e questo qualcuno ridurrà la propria spesa se il suo reddito cala. E meno spesa vuol dire meno produzione”. All’epoca, la sua proposta era quella di utilizzare i risparmi derivati dalla spending review per diminuire la pressione fiscale e scommettere sulla competitività delle imprese. La logica di fondo, ovviamente, restava quella dell’austerità espansiva, del pareggio di bilancio, della riduzione dei costi dei servizi pubblici rispetto ai ricavi. Un esempio fra i tanti: l’aumento dei biglietti del trasporto pubblico locale. Una mera proposta di bilancio, senza toccare il meccanismo delle esternalizzazioni o della funzionalità del servizio ai bisogni dei cittadini. Più recentemente, lo si è visto sostenere la necessità di aumentare il più possibile l’avanzo primario e utilizzarlo per ridurre il debito. Ma, in ogni caso, non stiamo parlando di Mario Monti o Elsa Fornero. Cottarelli, nell’immaginario pubblico, non è l’uomo delle “lacrime e sangue”, bensì quello della caccia allo spreco. È la faccia rassicurante dell’austerità, quella che garantisce di non toccare direttamente scuola e università e che si pone l’obiettivo, invece, di razionalizzare, di snellire, di rendere efficiente la pubblica amministrazione. Parole magiche, in un paese in cui sulla spesa clientelare si sono costruite intere stagioni politiche, così come sulla lotta contro di essa. Non c’è niente di più familiare, per gli italiani, che l’idea che lo stato spenda troppo e male. Non c’è partito di governo, negli ultimi trentanni, che non abbia annunciato a gran voce di voler razionalizzare, snellire, rendere efficiente. Un’ideologia anti-stato profondamente radicata nel senso comune del nostro paese, alimentata da decenni di corruzione e clientelismo, e sempre utilizzata come paravento da governi e partiti che, mentre picconavano lo stato, non rinunciavano a occuparlo il più possibile e a destinare le risorse ai propri referenti sociali.Il successo di Carlo Cottarelli è un affresco limpido della parabola del centrosinistra di governo, quello che dall’era Ciampi, passando per i governi Prodi, giunge a noi oggi. Quel centrosinistra la cui vera vocazione pare essere non tanto il governo in sé, quanto il governo degli esperti contabili, tendenza austerità. Ma è anche l’anima del grillismo, nella retorica dei costi della politica e della corruzione onnipresente. E trova echi anche a destra, dove, dai tagli fiscali di Berlusconi alla flat tax di Salvini, non si è mai rinunciato all’idea di uno stato minimo che si limiti a manganellare i diversi e difendere il recinto della proprietà.
La cosa paradossale non è che Cottarelli abbia le normali posizioni liberali e rigoriste che caratterizzano il centro-destra in gran parte del panorama politico mondiale, ma il fatto che queste posizioni finiscano per interpretare l’opposizione al governo giallo-verde. Oggi Cottarelli assume il volto dell’opposizione al governo, un’opposizione non centrata sulla proposta politica, ma attaccata ai parametri di bilancio, indipendentemente dal contenuto sostanziale di quelle voci: dalla flat-tax ai condoni all’ennesima dismissione di patrimonio pubblico. Un paradosso radicato nell’ultradecennale subalternità al neoliberismo di buona parte del centrosinistra. Incapace di proporre un’alternativa, l’opposizione si attacca al richiamo del rigore, agitando l’incubo delle speculazioni dei mercati, i cui umori sono l’unico parametro di giudizio, come se fosse anche questo un umore disinteressato e non invece il segno più evidente degli interessi in gioco. Da ultimo lo mostra non solo il caso italiano, ma anche come i tanto osannati mercati hanno reagito all’elezione di Jair Bolsonaro in Brasile: un’impennata di festeggiamenti.
Il mito conservatore del “tecnico”
Il potere dei simboli e delle narrazioni va ben oltre le scelte
consapevoli delle persone. È probabile se non certo che Cottarelli si
concepisca come un uomo delle istituzioni, non caratterizzato da visioni
politiche particolarmente radicali, che coscienziosamente illustra i
dati di bilancio e le loro prospettive. Non è mai gelido, né lo si vede
mai proporre licenziamenti di massa, nuove privatizzazioni o l’ennesima
riforma per precarizzare il mercato del lavoro. Parla del bilancio, del
deficit, dello spread. Più che ciò che dice, il problema è ciò che non
dice. Affidare a Cottarelli il ruolo di Piero Angela dell’economia
significa rafforzare, per l’ennesima volta, l’identificazione tra
economia ed equilibrio dei conti pubblici. Un’identificazione che è al
centro di trentanni di vita italiana, che è costituzionalizzata nei
trattati Ue e che viene ogni giorno riprodotta nella tv pubblica. “La
presenza di Cottarelli è un modo per mettere un punto fermo, per essere
laici e oggettivi in un momento di scarsa razionalità. Penso sia un
dovere del servizio pubblico offrire un’analisi competente su temi che
interessano tutti i cittadini” ha dichiarato proprio Fabio Fazio che di
tv pubblica se ne intende. L’economia come un espediente contabile
oggettivo, “razionale” e neutro. Il rigore di bilancio come dispositivo
regolatore “laico e oggettivo” della vita pubblica. La sofferenza ai
dogmi dell’austerità come “scarsa razionalità”.Un’economia svincolata da qualsiasi visione del mondo, dei rapporti sociali e conflitti in essere. Come se il rigore di bilancio e l’austerità non avessero referenti sociali e non favorissero mercati e rendite già consolidate. Come, soprattutto, se non esistesse un’economia oltre al rispetto dei vincoli di bilancio e alle reazioni dei mercati. Come se non esistesse la produzione, se non esistesse il lavoro, se non esistesse la moneta, se non esistessero la rendita e gli scambi, se l’economia fosse un quadernetto in cui segnare entrate e uscite. Come se l’economia non fosse fatta di lavoratori e lavoratrici, di tutte quelle persone che ancora oggi subiscono gli effetti di una crisi di lungo periodo. Gli stessi che subiranno gli effetti della flat tax, sulla quale Cottarelli “preferisce non entrare nel merito” come dichiarato a Di Martedì il primo maggio scorso. Non entra nel merito delle scelte politiche: l’importante è garantire l’equilibrio dei conti, una volta venute meno le entrate fiscali. Chiaramente, con nuovi tagli.
Continuare a cristallizzare il dibattito economico attorno al feticcio del rigore di bilancio contrabbandato per “razionalità” significa imporre una visione deterministica sganciata dalle relazioni sociali. Significa imporre una visione meccanica e immutabile delle politiche pubbliche, che tuttavia continuano ad esprimere proprio quei rapporti e conflitti sociali che si tende a nascondere. Assumere questo punto di vista e imporlo politicamente e mediaticamente fino a diventare senso comune appare più un esercizio di conservatorismo ingannevole. E sarà sulla base di queste scelte che ogni movimento della storia sarà poi tacciato come un uragano imprevisto, sia esso la prossima crisi economica o il voto popolare antitetico alle previsioni di questa razionalità presunta.
*Marta Fana, PhD in
Economics, si occupa di mercato del lavoro. Autrice di Non è lavoro è
sfruttamento (Laterza). Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si
occupa di movimenti sociali e partecipazione.
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