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Devo
avvisarvi subito: è lunga e piuttosto complessa. La renderò breve e
semplice quanto possibile, ma non posso fare miracoli. In alcuni
passaggi dovrò anche banalizzare assai, chi se ne intende porti
pazienza.
Tutto comincia nel modo più ovvio, Facebook vuole
che tu sia un utente felice, per cui ti crea stimoli che ti rendano
felice. L’idea iniziale era: ti iscrivi, scegli qualcuno come “amico”,
io ti faccio vedere i post dei tuoi amici. Vedi anche il post di
qualcuno che non conosci, se gli metti il “mi piace”,
io ti faccio vedere i suoi prossimi post. Tu sei felice, loro sono
felici, invitate altri amici, Facebook cresce, le ditte mi pagano per
farvi vedere delle pubblicità. E così è stato per qualche tempo, mentre Facebook diventava sempre più grande.
Poi qualcuno ha scoperto il legame tra la produzione di dopamina,
i commenti, l’attenzione di gruppo e i “like”. Ve la faccio breve:
hanno scoperto che i like creano dipendenza. E hanno deciso di sfruttare
questo meccanismo. Ecco perché, ad esempio, i profili privati possono
avere solo 5000 “amici”. Cosa credevate, che “non ci fosse spazio” in un
qualche hard disk? No, no: è un limite che hanno deciso a tavolino, e
ora vi spiego perché.
Dare assuefazione
Anzitutto, occorre creare assuefazione. Quando uno si iscrive a
Facebook, quanti contatti ha? Due? Sei? Trenta? Se è un tipo con molti
amici, magari pure cento. I suoi post sono visibili a queste persone,
magari a qualche loro altro contatto. Raggranella uno, due, cinque,
quando fa il botto venti like. E si abitua a riceverli. Col passare dei
mesi e degli anni, il numero di contatti cresce e con essi cresce il
numero dei like. E con i like, cresce il livello di assuefazione.
Quando arrivi ad avere 5000 contatti, di like ne prendi da qualche
decina a parecchie centinaia, persino qualche migliaia, a seconda di
quanto interessanti siano ritenuti i tuoi post dai tuoi “amici”. È a
questo punto che Facebook ti informa che non puoi avere altri amici, e
che devi trasformare il tuo profilo privato in una “Pagina”.
Creare dipendenza
Le Pagine Facebook sono gestite secondo algoritmi diversi dai profili. Di nuovo, facendola breve: la loro visibilità è decisamente inferiore.
In pratica, se un post pubblicato su un profilo con cento amici viene
reso visibile a novanta di loro, lo stesso post, pubblicato su una
Pagina seguita da cento persone, compare soltanto a trenta tra loro. Il
risultato è che tu, abituato a ricevere centinaia quando non migliaia di
like – e il tuo cervello, assuefatto a produrre dopamina reagendo a
questo stimolo – ti trovi a ricevere poche decine di like, pur scrivendo
le stesse cose di prima, con gli stessi “amici” di prima. Sim sala bim,
ti hanno creato un bisogno che prima non avevi.
È esattamente quel che fanno gli spacciatori di droga: prima te ne
forniscono di ottima, magari anche a buon prezzo, e quando sei
assuefatto e ne hai bisogno, la tagliano, cioè ne riducono la potenza,
per costringerti a comperarne di più, per farti accettare di pagare il
doppio.
Passare in cassa
Perché mai Facebook dovrebbe importi questa sofferenza?
Ovviamente, per guadagnarci. Vuoi mettere in primo piano il tuo post?
Vuoi che lo vedano (di nuovo) migliaia di persone? Basta che paghi ed è
subito fatto. Certo, si parla di qualche euro a testa, ma gli utenti
attivi su Facebook sono due miliardi e 41 milioni. Anche fosse solo un
5% a pagare per ottenere di nuovo la visibilità che ha perduto, fate voi
le moltiplicazioni. Puro e semplice guadagno.
Perlomeno, questo era il motivo all’inizio. Poi però è successo qualcosa
che non era previsto: internet e i social network sono diventati un
luogo in cui le persone passano il tempo non soltanto a cazzeggiare, ma
anche una fonte di informazione. E questa funzione presenta un tasso di
crescita che la renderà entro pochi anni la principale fonte di informazione.
Già oggi, una enorme quantità di persone reperisce informazioni e
costruisce le proprie opinioni proprio nei social network. Ed ecco
perché il gioco ora si è fatto sempre più duro.
Alzare la posta
Dunque, la visibilità di un post su Facebook, ormai non è più
soltanto una questione di qualche euro in più in cassa. Ora diventa
anche questione di chi vinca le elezioni presidenziali negli Stati Uniti;
se si faccia la BrExit oppure no; se Greta sia la salvatrice del
pianeta o un alibi dei potenti; se i gilet gialli siano criminali
facinorosi o invece patrioti massacrati da una polizia fascista; se la
Monsanto sia una stimata ditta o una organizzazione criminale; se Putin
sia un dittatore o un paladino della volontà popolare; se una epidemia
di morbillo esista davvero oppure no. E come capite bene da soli, queste
decisioni mettono in palio interessi molto, molto più grandi della pensione di Zuckerberg.
Controllare l’informazione
Ecco perché è iniziata la censura su Facebook –
e su Twitter, e su Instagram, e su Amazon, e su Google, e insomma
dovunque fosse possibile forzare, comprando o minacciando, dei gestori
di servizi internet a usare questi algoritmi e questo meccanismo di
dipendenza dopaminica per orientare la diffusione di informazioni. Per
controllare la creazione di opinioni. La censura è arrivata in diverse forme.
La più comune è un ritocchino agli “standard della comunità”. È il
metodo più semplice: basta aggiungere una riga che dica: «vietato
diffondere notizie false o che creano allarme», ed è fatta: parlare di
un bombardamento crea allarme, quindi via, post
cancellato e utente silenziato. Pubblicare dati statistici che negano
una epidemia è dichiarato “falso”, anche se è vero, via: post cancellato
e utente silenziato. Cosa può fare un utente, come può provare che il
dato era reale, a quale tribunale può ricorrere? A nessuno. Può solo
piegare la testa e aspettare che finisca la “sospensione” per tornare a
ottenere i like a cui è stato assuefatto. Un metodo ancora più sottile e
purtroppo utilizzato in maniera massiccia è quello che io definisco il
“nerfing”. Il termine viene dall’ambiente di chi fa modding dei
videogiochi, significa in sostanza “ridurre la potenza”, “abbassare il
livello” di un dato strumento. Come si applica sui social? Facile:
riducono la visibilità di un post. Tu lo scrivi, ma lo vede un decimo
della tua utenza. Capiamoci, non è che c’è un pirla che ogni mattina
legge un mio post per decidere se applicare una riduzione della
visibilità, eh. È un lavoro svolto da algoritmi.
Cercano alcune parole ed espressioni chiave; le intrecciano con
ricorrenza delle stesse in altri post dello stesso autore; con
ricorrenza nei commenti, nelle repliche; con i gruppi in cui i post di
quell’utente vengono più spesso condivisi e commentati, fanno il loro
calcolo e sim sala bim, il tuo post che prima vedevano in cento, ora lo
vedono in dieci.
Il nerfing
Il nerfing, come la censura, limita efficacemente la diffusione
di un certo tipo di messaggio. Se prima arrivava a ventimila persone,
ora arriva al massimo a duemila. Rispetto alla censura però, offre un
vantaggio: all’utente non viene comunicato nulla. I suoi post non son
ostati censurati, non son ostati cancellati, lui non è stato sospeso.
Sia mai che si incazzi, che trovi modo di protestare, di fare causa in
qualche modo, o anche soltanto che abbandoni il social. Niente di tutto
questo: i suoi post “sgraditi” diventano semplicemente quasi invisibili,
ma ufficialmente non è successo nulla. Tranne, ovviamente, che sono
calati i like. E qui scatta l’effetto più potente: l’utente che posta
*un certo tipo di messaggi*, a seconda di quanto pesantemente
l’algoritmo li giudica, si trova i like ridotti del 20, del 40, anche
del 90%. Ed ecco che il suo cervello, ubbidiente e assuefatto, gli
riduce in misura proporzionale il rilascio di dopamina. Ed ecco che
arriva la tristezza. Sei triste, e non sai perché.
Certamente non può essere per qualche like in meno, fossero anche un
decimo di prima, che cosa vuoi che te importi dei like, mica sarai uno
sfigato che conta i like tu, vero? No, ovviamente no. Ma il tuo cervello
sì. Si chiama: associazione. Alla lunga, il tuo
cervello “imparerà” che se posti certi contenuti, poi sei triste. Il tuo
cervello, giorno dopo settimana, dopo mese dopo anno, verrà addestrato a
non accogliere, a non diffondere, a non postare quei contenuti. Si
chiama: addestramento psico-chimico.
Ditemi, quanto vi piace l’idea di essere dei ratti da laboratorio che
stanno addestrando proprio in questo momento a cosa pensare, a cosa
esprimere, a cosa non pensare né esprimere?
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