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Missione: estrapolare dalla storia del nostro
sistema pensionistic la fenomenologia della felicità. Di quella del privato
cittadino (prossima al collasso) e di quella dei signori della finanza (in
irresistibile ascesa). Vi pare impossibile? Tedioso, ma necessario, promemoria
per gli scettici: col decreto legislativo 503 del 1992 (riforma
Amato) l’età pensionabile passa da sessanta a sessantacinque anni per gli
uomini e da cinquantacinque a sessant’anni per le donne e si incoraggiano
forme di previdenza integrative; con la legge 335 del 1995 (riforma Dini)
il calcolo previdenziale vira dal criterio retributivo a quello contributivo e
si avviano i fondi pensioni; con la legge 449 del 1997 (riforma Prodi) si
inaspriscono i requisiti di anzianità; col decreto legislativo 252 del 2005
(riforma Maroni) si innalzano età anagrafica e contributiva; infine, col
decreto ‘Salva Italia’ 201 del 2011 (riforma Fornero) si passa al sistema
contributivo pro rata per tutti con età minima di pensionamento a sessantasei
anni sia per gli uomini che per le donne.
È un escalation impressionante, ma che c’entra
con la felicità? C’entra moltissimo se condividiamo l’assunto che la vera
ricchezza non sta nel denaro, ma nel tempo libero dalla necessità di
procacciarsi denaro, cioè quel fatale destino che accomuna (quasi)
tutti i mortali per (quasi) tutta la vita e che i greci antichi avrebbero
definito ananke:
necessità ineluttabile o inevitabile costrizione. Tutto ciò che ci serve per
essere felici è abbondanza di tempo libero a disposizione per dedicarci a ciò
che amiamo, che ci appassiona, che ci riempie di gioia e ci dà una cornice di
senso. Invece siamo intrappolati in un sistema in cui le alternative sono solo
due, entrambe liberticide. Una è quella del tempo senza denaro. L’altra è
quella del denaro senza tempo.
La prima affligge disoccupati, precari,
reietti dal mercato per raggiunti limiti di età (e via esemplificando) che
sperimentano l’acqua alla gola della fine del mese o addirittura l’umiliazione
della povertà (il 10% degli italiani, per l’Istat). La seconda tormenta
chi un lavoro ce l’ha, ma coatto, non frutto di una scelta, ma delle
contingenze che condannano a occupazioni alienanti, fatte controvoglia, reiterando gesti
e masticando noia. Attività patogene che si mangiano i migliori anni della
nostra vita. La corsa dei ratti accelera con progressione geometrica, ti viene
richiesto sempre di più in sempre meno tempo. La tecnologica invocata per alleggerirci
i pesi, li rende più grevi, accelerando le pretese altrui e trasformandoci in
tanti Charlot ossessivo-compulsivi. In effetti, il raddoppio ogni diciotto mesi
delle prestazioni dei microprocessori (secondo la nota legge di Moore) è una
pistola scarica, visto che se ne giovano anche tutti i tuoi competitors. Il vantaggio
competitivo si azzera e ad aumentare è solo la tua produttività per unità di
tempo e la tua insofferenza per pluralità di luoghi. Produci esponenzialmente
di più nei giorni lavorativi (a buon pro di chi ti finanzia l’ananke) e ti diverti
progressivamente di meno ovunque ti trovi (al lavoro, dove non ti realizzi, a
casa dove non ti rilassi, in vacanza dove non ti ricarichi).
E allora? Allora in un siffatto manicomio,
fagocitato dalla voracità dei mercati, della tecnologia e del prodotto interno
lordo, l’unica età in cui è possibile declinare la ricetta della vera ricchezza
(tempo libero dalla necessità di denaro) diventa quella matura, quasi anziana,
la magica stagione in cui non devi più massacrarti di pressioni per tenere in
bolla la tua scatola di carne. Qui le strategie divergono. C’è quella di una
società centrata sull’uomo, che ambisca a condurre (il più presto possibile) il
maggior numero di fortunati al ‘Tempo’ della realizzazione di sé, quello in cui
dedicarsi a ‘esistere’ senza l’assillo di guadagnarsi da ‘vivere’. Una civiltà
consimile si reggerebbe sulla solidarietà intergenerazionale. Il suo
scopo sarebbe ideare un meccanismo che consenta al padre di beneficiare di un
periodo di happiness
in cambio di un’eguale promessa per il figlio. Muoversi in questa logica,
tarata sulla qualità di vita dell’uomo, significa anticipare quanto più
possibile il momento della pensione.
È un pensiero stupendo, ma anche
scandalosamente naive
nell’era del turbocapitalismo globale. Azzardatevi a parlare di baby pensioni e
vi guarderanno come un lazzarone scansafatiche, un minus habens oeconomicus (per dirla con Adam
Smith), un Bernard Madoff in sedicesimo. Ma sareste in buona compagnia, se è vero
che il premio Nobel per l’economia 2008, Paul Krugman, si è così espresso,
parlando della previdenza old
style: “è vero che il sistema previdenziale è un meccanismo in cui
ogni generazione paga le pensioni della precedente, con l’aspettativa di
ricevere lo stesso trattamento dalla generazione successiva. Ma anche questo,
come la circolazione della moneta, è un processo che può andare avanti
all’infinito: non c’è nulla di insostenibile”. Dovremmo ricordarcelo più
spesso. Col fisiologico declinare delle forze, gli acciacchi, la stanchezza, le
preoccupazioni, l’orizzonte della morte offuscano, o minano del tutto, i frutti
del trionfo sull’ananke
e i benefici di quell’otium
latino che è l’esatto contrario del fancazzismo nocivo e deprimente.
Ma torniamo alla realtà, dopo aver sognato.
Capovolgiamo la prospettiva e immaginiamo di calibrare il nostro mondo non
sulla persona, ma sul Sistema. Cioè su quell’agglutinato generatore di profitti
che è l’universo dei Mercati. In questo caso, tutto cambia. Le persone vanno
fatte lavorare sempre di più, spostando sempre più in la (fino a tradurla in
chimera) la soglia dell’età pensionabile. Con due risultati straordinari.
Innanzitutto, avvicinare i tapini alla morte riducendo la platea
dei beneficiari dell’agognato assegno. Si chiama taglio della spesa
pubblica improduttiva che è una gran figata perché sforbicia il debito
pubblico. Insomma, si prendono i lavoratori per stanchezza, o, a essere cinici,
si scommette sulla loro prematura dipartita. In
secundis, si eroga la pensione a un’età via via più tarda e quindi
meno idonea per godersela, quando è più facile, per l’Epicuro che è in noi,
soccombere alla senescenza, alla malattia e alle cupe prospettive della
fine. Il congegno è sottilmente concepito in modo da rendere non solo più
improbabile che tu approdi alla pensione, ma anche probabilissimo che tu ci
giunga esangue. Se non morto, almeno sfinito o moribondo.
Sennonché,
l’ingranaggio economocentrico, di cui siamo leve e rondelle, mica si
accontenta. Essendo studiato per implementare al massimo grado i ritorni della
‘macchina’ che l’ha concepito (fondata sul p.i.l.), anela non solo a
spremere fino all’ultima goccia di energia e di sangue dai suoi membri, ma a
farlo col minimo dispendio delle proprie energie e del proprio sangue (che è
poi il denaro in ogni sua forma). Ricordate, nel film Matrix, l’impressionante
campo di corpi comatosi da cui la mostruosa matrice informatica succhiava la
linfa per le proprie giunture di silicio? È una metafora perfetta del
mondo che ci attende. Ecco spiegato il passaggio dal modello retributivo a
quello contributivo e l’insistenza sul famoso secondo pilastro pensionistico,
cioè il settore privato. Due mosse da campione per dare scacco a te. Con la
prima ti deprimono: se pure ti spetterà qualcosa, alla fine dei tuoi giorni,
sarà solo il risultato delle briciole che ti sarai messo da parte. Con la
seconda ti blandiscono: dacci i tuoi risparmi, non fare la cicala, investi quel
poco che ti resta nel nostro albero degli zecchini d’oro. In confronto, il
gatto e la volpe erano dilettanti. Massima resa per il Sistema, massima presa
(per il di dietro) delle sue vittime. Ecco che, posta nella giusta luce, la ratio sottesa alle riforme
pensionistiche degli ultimi vent’anni non è solo comprensibile. È logica: fare
gli interessi della finanza globale (da cui prendono diligenti
ordini le istituzioni comunitarie che poi traducono in norme le voglie dei
Mercati) e minare alla radice la vostra umanissima ambizione di felicità. Non è
una tattica di breve, ma una strategia di lunghissimo periodo. La strategia
della pensione.
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giovedì 29 agosto 2019
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