Le Monde anticapitalista.org Trad. di Gigi Viglino
Viviamo su una Terra nutritiva, temperata, protettrice.
Ma, esaurendo le sue risorse, sfruttando troppo intensivamente i suoi suoli e le sue foreste, noi mettiamo in pericolo non solo la nostra capacità di far fronte al riscaldamento, ma anche le nostre condizioni di vita e di sussistenza.
È dunque urgente adottare, su scala mondiale, una gestione delle terre più durevole.
È l’avvertimento rivolto dal Gruppo Intergovernativo di Esperti sul Clima (GIEC/IPCC) in un rapporto speciale, presentato giovedì 8 agosto, su: «cambiamenti climatici, desertificazione, degradazione delle terre, gestione durevole delle terre, sicurezza alimentare e flussi di gas serra nell’ecosistema terrestre».
Quest’analisi si inserisce in un insieme di tre rapporti, con quello, reso pubblico nell’ottobre 2018, sugli effetti di un riscaldamento di 1,5°C, e quello atteso a settembre, sugli oceani e la criosfera (calotte polari, ghiacciai di montagna e banchise).
Come è di regola con il GIEC, il suo rapporto scientifico di 1200 pagine, elaborato da un centinaio di ricercatori di 52 paesi – tra i quali, per la prima volta una maggioranza di autori di paesi in via di sviluppo – è accompagnato da una «sintesi per i decisori».
La sua redazione finale è stata negoziata, parola per parola, dai rappresentanti delle 196 «parti» (195 paesi e l’Unione Europea), membri della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, riunite dal 2 agosto a Ginevra (Svizzera) in una sessione maratona, che si è prolungata fino al mattino del 7 agosto per arrivare a un consenso.
La paleoclimatologa francese Valérie Masson-Delmotte, copresidente del gruppo di lavoro sulle scienze del clima del GIEC, sottolinea «l’interesse e la qualità del lavoro, improntato a serietà, realizzato dai delegati di tutti i paesi ,senza alcuna tensione, crisi o scontro».
Vi vede il segno de «la presa di coscienza, in tutto il mondo, delle implicazioni di una trasformazione profonda dell’uso delle terre. »
Il rapporto rivolge alcuni grandi messaggi, dice. «Mostra fino a che punto le terre sono sotto la pressione umana, con il cambiamento climatico che aggiunge una pressione supplementare. Mostra anche che la nostra gestione delle terre fa parte dei problemi e insieme delle soluzioni. Ma insiste anche su fatto che tali soluzioni hanno dei limiti: esse non possono sostituire un’azione rapida e ambiziosa per ridurre le emissioni di gas serra in tutti gli altri settori.»
▲ Sfruttamento senza precedenti delle terre
«I dati disponibili dal 1961 [da questa data le Nazioni Unite tengono statistiche omogeneizzate] mostrano che la crescita della popolazione mondiale e del consumo per abitante di derrate alimentari, di mangimi per animali, di fibre, di legname e di energia, hanno prodotto tassi senza precedenti di uso delle terre e dell’acqua dolce», sottolinea la sintesi. Sui circa 130 milioni di km2 di terre emerse libere dai ghiacci, oltre il 70% è occupato dalle attività umane: agricoltura, allevamento o sfruttamento delle foreste, con l’agricoltura che da sola conta per il 70% nel consumo di acqua. Circa un quarto della superficie delle terre è oggi degradato a causa di questo sfruttamento della natura.
Circa 500 milioni di persone vivono già in regioni in corso di desertificazione, e le popolazioni più colpite sono quelle del Sud e dell’Est dell’Asia, della zona sahariana e del Medio Oriente. A questa pressione umana si aggiunge l’impatto del riscaldamento climatico, più accentuato sulle terre emerse (+1,53°C in rapporto alla seconda metà del XIX secolo) che nella media planetaria, compresi gli oceani (+0,87°C).
L’innalzamento del termometro amplificherà ancora il fenomeno, in seguito all’accrescimento della frequenza e dell’intensità delle precipitazioni, delle inondazioni, delle ondate di caldo e di siccità «esacerbando i rischi sui mezzi di sussistenza, la biodiversità, la salute umana e quella degli ecosistemi, le infrastrutture e la sicurezza alimentare». Si tratta di una questione vitale, specialmente per le popolazioni più vulnerabili che «saranno qelle colpite più gravemente», in particolare sui continenti africano e asiatico.
Con la loro copertura vegetale e boschiva, i suoli assorbono circa il 30% della totalità delle emissioni umane di CO2
Ora, ricordano i ricercatori, i suoli sono insieme un pozzo e una fonte di carbonio. Con la loro superficie vegetale e boschiva, essi assorbono il 30% circa della totalità delle emissioni umane di CO2. Essi svolgono quindi una funzione insostituibile per catturare il carbonio e attenuare lo sconvolgimento climatico, un ruolo la cui persistenzaè resa «incerta» dal cambiamento climatico. Ma il loro uso è anche fortemente emettitore di gas serra. Circa un quarto delle emissioni (23%) sono oggi imputabili allo sfruttamento forestale e all’agricoltura. Queste sono responsabili del 13% delle emissioni totali di CO2 (a causa della deforestazione), del 44% di quelle di metano (prodotto in particolare dall’allevamento del bestiame e dalle risaie), e dell’82% di quelle di ossido nitroso [ o protossido di azoto],( generato dai concimi azotati).
Per rafforzare la loro funzione di pozzi di carbonio, in teoria sono ipotizzabili diverse vie. Ad esempio, vasti programmi di rimboschimento, o ancora il ricorso alla «bioenergia», vale a dire ai biocarburanti o a colture destinate a pompare nell’atmosfera CO2 che sarebbe poi recuperato e sepolto sotto terra.
▲ Spreco e regime alimentare
Ma, mettono in guardia gli scienziati, se queste opzioni fossero messe in atto su grandissima scala, su milioni di chilometri quadrati, potrebbero «aumentare i rischi di desertificazionee di degrado delle terre». Metterebbero anche in pericolo la sicurezza alimentare, con una accresciuta competizione sui suoli, insieme alla biodiversità. Potrebbero anche compromettere gli obiettivi di sviluppo durevole delle Nazioni Unite, a cominciare dal primo di questi, l’eliminazione della povertà nel mondo.
Una delle leve è un cambiamento di regime alimentare, per ridurre la domanda di prodotti animali a favore di cereali, legumi, frutta e verdura.
Il rapporto propone dunque una «gestione durevole delle terre», basata sulla riduzione della deforestazione, ma anche la promozione dell’agroforesteria (modo di sfruttamento che combina produzione agricola e alberi), il miglioramento della produttività, la diversificazione delle colture, l’ottimizzazione dell’uso dell’acqua, la restaurazione degli ecosistemi e della capacità dei suoli di trattenere il carbonio… Un approccio basato su soluzioni naturali dalle quali possono derivare «benefici immediati e a lungo termine».
Una delle chiavi è la trasformazione del «sistema alimentare mondiale», che oggi è all’origine – tenendo conto dell’insieme della catena di produzione, trasformazione, distribuzione e consumo – dal 21% al 37%del totale delle emissioni di gas serra. Due leve appaiono prioritarie. La prima, la lotta contro le perdite e lo spreco, che rappresentano tra il 25% e il 30% della produzione di derrate. Poi, un cambiamento di regime alimentare, con la riduzione della domanda di prodotti aimali a favore dei cereali, dei legumi della frutta e della verdura.
▲ Agire in tutti i settori
La durevolezza dell’uso dei suoli passa anche, aggiunge il documento di sintesi in un approccio più politico, per la securizzazione dei diritti fondiari e dell’accesso alle terre, in particolare per «le donne, i popoli autoctoni e le comunità locali», per il coinvolgimento di queste popolazioni, comprese le persone «povere ed emarginate», nella presa delle decisioni e della governanza e per le presa in conto delle pratiche e dei saperi di questi popoli.«Esiste oggi un movimento di fondo per riconoscere che, sul clima e la biodiversità, bisogna ibridare l’eredità delle conoscenze tradizionali con le conoscenze tecniche moderne, così come con la conoscenza delle implicazioni del cambiamento climatico regione per regione», commenta Valérie Masson-Delmotte.
La sintesi per i decisori sottolinea che c’è urgenza se si vuole «ridurre il rischio, per milioni di persone, di eventi climatici estremi, di desertificazione, di degradazione delle terre e di insicurezza alimentare».
Resta che il migliore utilizzo delle terre non riuscirà da solo a impedire lo sconvolgimento climatico. Soprattutto se l’umanità vuole conservare la speranza, per quanto tenue dato il persistente aumento delle emissioni di gas serra, che sia ancora possibile limitare a 1,5°C la salita del mercurio, come vi si sono impegnati gli Stati nell’accordo di Parigi siglato nel 2016.
Solo un «picccolo numero» di traiettorie modellizzate raggiunge questo obiettivo senza che sia necessario convertire superfici importanti a colture di bioenergia, avvertono gli esperti. Tutti presuppongono cambiamenti importanti di modi di vita, di consumo e di alimentazione, ma anche «una riduzione importante delle emissioni di gas serra di origine umana in tutti i settori». In altri termini, la riduzione drastica dell’uso delle energie fossili nella produzione di energia, nei trasporti e negli insediamenti, resta la condizione ineludibile per un pianeta vivibile.
- Le Monde. Pubblicato l’08 agosto 2019 : https://www.lemonde.fr/planete/article/2019/08/08/l-humanite-epuise-les-terres-selon-le-dernier-rapport-du-giec_5497654_3244.html
Nessun commento:
Posta un commento