giovedì 15 agosto 2019

La vera crisi l'abbiamo vista in diretta: ed è la catastrofe di una classe dirigente

Salvini, Renzi, Casellati, Marcucci. La seduta agostana del Senato ha mostrato il problema più grave di questo Paese: la spaventosa pochezza culturale, etica e soprattutto umana dei protagonisti della politica.


L'Espresso Alessandro Gilioli
La vera crisi l'abbiamo vista in diretta: ed è la catastrofe di una classe dirigente L'avete vista, la chiave del disastro (politico, etico, economico, culturale) in cui si trova questo Paese. L'avete vista ieri, martedì, in diretta, nella sequenza andata in onda sulla crisi: Renzi, Salvini, Casellati, fino ai comprimari come Marcucci.

Il che non vuol dire mettere tutti sullo stesso piano - ci mancherebbe, esistono molte gradazioni e sfumature di peggio nella vita - ma insieme ieri pomeriggio hanno dipinto un quadro impressionista (e impressionante) in cui era rappresentata tutta la qualità della classe politica che abbiamo: e sto parlando proprio di qualità umana, di sistema cognitivo, di intendimenti, di visione delle cose. Con il menzognero e quasi burlesco cappello degli "interessi del Paese" continuamente tirato in ballo proprio mentre si palesava come l'unico interesse sia se stessi, la propria parrocchia, il proprio team di potere. E l'unico scopo è allargarlo o difenderlo, comunque sottrarne pezzi alla squadra avversaria, in un vorace Risiko e in una totalizzante estensione dell'io che non lascia spazio a nient'altro.

L'io, sempre davanti a tutto.


L'io di Renzi, il primo andato in scena, così tronfio di sé, così eccitato di essere tornato protagonista, di poter manovrare a piacere quei gruppi parlamentari che domani potrebbero essere decisivi.

Un io talmente tracimante da renderlo poco credibile - zero credibile - perfino quando diceva cose di buon senso, tanto era evidente che erano di buon senso solo per caso, perché fortuitamente coincidono oggi con i suoi interessi personali e di corrente, con i suoi disegni, con le sue strategie – e domani chissà.

Io io io, sempre davanti a tutto, io pronto a cambiare idea su tutto in ogni momento a seconda di quello che conviene, io passato in un attimo dai popcorn alla trattativa, dal mai all'adesso, dal senza-di-me al basta-che-ci-sia-io, io che mi intesto una nuova possibile maggioranza per dettarne le condizioni e tenerla in pugno, io che così mi tengo aperta ogni strada, riprendermi il Pd o farmi il partito con Carfagna, io di cui non potete fare a meno, da cui non potete prescindere, eccomi qui, mi davate per morto e ora dovete di nuovo fare i conti con me, altro che senatore semplice, altro che osservatore esterno, altro che «mi interesso solo dei democratici americani».


E poi subito dopo, l'io assai più spaventoso di Salvini in Senato, postura e ghigno da gangster, in piedi a mandar baci di scherno a chi lo contesta, ad allargare le braccia fingendo umiltà, a simulare cortesie per poter subito dopo azzannare meglio, a chiamare beffardamente "amici" tutti quelli che vorrebbe veder morti - «l'amico Di Maio», «gli amici 5 Stelle», perfino «gli amici del Pd» , e poi ancora altre infinite derisioni, «vi vedo belli frizzantelli», tutto circondato da maschi sessantenni in cravatta che ridono servili, che ridono esageratamente per mostrare la propria fedeltà, tutti della stessa pasta del Capo e quindi probabilmente pronti domani a tradirlo se le cose andassero male, del resto sono entrati in politica sventolando l'indipendenza della Padania e adesso eccoli ad applaudire come patrioti da sempre, quando dal boss parte l'urlo «Viva l'Italia!».

Un urlo incredibile, per quello che c'era dentro.

L'Italia? Ma l'Italia ieri in quell'aula era solo un boccone da sbranare, uno scalpo da esibire, un terreno su cui spadroneggiare, non certo scopo ma spudoratamente mezzo, mezzo di estensione del sé, del “comandare che è meglio che è fottere”, un Paese sacrificato al testosterone di anziani machos in cui libido e potere si mescolano fino a diventare una cosa sola.

Già, l'Italia. L'Italia uscita a pezzi da vent'anni di berlusconismo e da trent'anni di lotta di classe mondiale dall'alto verso il basso, l'Italia derubata e colpita al cuore ma che dimentica tutto. E per dimenticare ancora di più, si droga di slogan e promesse, di capi da adulare e innalzare sempre più in alto per il sadico gusto di vederli poi precipitare, il tutto rivestito da un'estetica trash gabellata per popolare (ma perché il popolo non dovrebbe avere diritto al bello, invece? Perché si falsifica per "popolare" ciò che è pattumiera? Quanto c'è di profondamente classista e di destra in questa identificazione del popolare col brutto?).

L'Italia, appunto.

L'Italia a cui uno spera siano almeno rimaste le istituzioni, le alte cariche dello Stato, quelle personalità che se non altro per ruolo non dovrebbero pensare più solo a sé e alla propria tribù di appartenenza ma al Paese fuori, insomma quelli da cui ti aspetti ingenuo un colpo d'ala.

E poi invece vedi Casellati, il primo frutto avvelenato di questa legislatura, Casellati che strillava già eversiva sulle scale del tribunale di Milano, Casellati che giurava su Ruby nipote di Mubarak - e diventare la seconda carica dello Stato purtroppo non l'ha per nulla cambiata, anzi.

Ed eccola lì, sullo scranno più alto, a chiamare Salvini "Presidente" (ma presidente di cosa, santo Dio?), a fingere di fare l'arbitro quando ogni suo tono gesto e parola tradiva gli ordini ricevuti dall'alto, il centrodestra unito, la vecchia e nuova coalizione in cui magari lei farà il ministro della Giustizia, la vita è lunga, non sia mai che si corra il rischio di finire in penombra.

Casellati, che imbarazzo per lei, assai più imbarazzo che rabbia, imbarazzo per quanto enormemente e visibilmente è “unfit” al ruolo che copre. Casellati seconda carica dello Stato, e poi abbiamo il coraggio a parlare ai ragazzi di meritocrazia, chissà perché non ci crede nessuno.

Infine gli altri, le seconde linee, i comprimari.

Tra questi, il capogruppo del Pd Andrea Marcucci, che Dio lo perdoni, il rampollo milionario Marcucci che entrò in politica a destra e a destra divenne deputato a 24 anni con una campagna elettorale da mezzo miliardo, prima di capire che nella sua Toscana gli affari migliori si facevano a sinistra - la sinistra intesa come complesso produttivo, industriale e turistico - e allora ecco la Margherita, e la relazione a 360 gradi con quel giovane presidente della provincia di nome Matteo Renzi.

Marcucci, mezza dozzina di poltrone tra holding finanziarie e industrie di emoderivati, Marcucci imperatore del Ciocco, Marcucci dominus incontrastato di un partito-vallata nella sua Lucchesia, Marcucci che nell'aula del Senato dovrebbe rappresentare l'alternativa a Salvini, mamma mia.

Marcucci che prende la parola e sbraita con Casellati per parlare anche lui un quarto d'ora ma poi ha concetti in testa per occuparne a stento sei, Marcucci abbronzato che accusa l'altro di essere più abbronzato di lui, Marcucci che si impantana in un italiano approssimativo e in una sintassi incertissima, «e noi oggi è una bella giornata», un altro che parlando manda un messaggio chiaro ai giovani di questo Paese: non studiate, non sbattetevi, chi nasce bene e sa manovrare vince sempre, gli altri anneghino. Marcucci che ha pure il coraggio di chiudere il suo triste spettacolo parlando di «senso dello Stato», senza rendersi conto che con gente così rischia di essere lo Stato a far senso.

Ecco, questo abbiamo visto, crudamente, transitare martedì 13 agosto davanti ai nostri occhi.

Non solo la crisi politica e nemmeno la crisi istituzionale, di sistema, in cui pure siamo immersi. Ma anche una gigantesca catastrofe culturale, etica e soprattutto umana di un'intera classe dirigente.

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