martedì 4 aprile 2017

RUSSIA FORTE E FRAGILE.

La strage è uno schiaffo a Putin. Da un lato lo rafforza con l'opposizione interna, dall'altro lo mostra debole davanti al terrore.

huffingtonpost.it Andrea Purgatori  

Una strage, due bombe (una inesplosa e disinnescata) e troppi interrogativi ancora senza risposta. La sintesi dell'attentato di San Pietroburgo è questa, carica di sospetti ma con poche certezze. Che però qualche cosa la dicono.
La prima riguarda l'ordigno. Artigianale, si sono affrettati a dire e ribadire le fonti ufficiali. Affermazione piuttosto inverosimile, visto che per confezionarlo e farlo esplodere a distanza occorrevano una testa addestrata e mani esperte.
La seconda riguarda l'attentatore. Difficile immaginarne uno solo ma piuttosto probabile che facesse parte di una cellula, forse piccola ma con varie componenti (artificiere, logistica, eccetera), sfuggita colpevolmente al controllo dell'Fsb.

La terza riguarda la rivendicazione. Che ancora (alle 20, nove ore dopo) non c'è. E su questo sono lecite diverse considerazioni. A cominciare da quella più evidente: che se alla fine si scoprisse che si tratta di un'azione che all'Isis si ispira, questo ritardo confermerebbe per l'ennesima volta che il filo diretto tra terroristi e cabina di regia a Raqqa non funziona più e il Califfato si limita ad attribuirsi la responsabilità degli attentati solo dopo che avvengono.
La quarta riguarda il giorno. Al momento dell'esplosione, Putin era in città per un incontro col leader bielorusso Alexander Lukashenko. Non una coincidenza ma una scelta precisa che indica una pianificazione, non un gesto improvvisato.
Ma c'è davvero l'Isis dietro la strage? Le autorità russe sono caute, ma hanno diffuso un'immagine del presunto terrorista ricavata dalle registrazioni delle telecamere di sicurezza. Apparentemente, il prototipo del jihadista vestito da jihadista. Cioè, un soggetto che non sarebbe sfuggito a nessuno dei controlli che filtrano i passeggeri della linea blu della metropolitana di San Pietroburgo. Tanto meno con una borsa o una valigetta con dentro due bombe pronte a esplodere.
Tuttavia, l'idea che l'attacco alla città natale di Putin possa essere stato concepito e realizzato da militanti che si riconoscono nel Califfato è quella che al momento sembra avere la più alta percentuale di probabilità. Tenendo presente che la ribellione cecena è stata ed è uno dei serbatoi più ricchi dove l'Isis pesca i suoi foreign fighters. Uomini già addestrati a combattere, soprattutto radicalizzati.
L'alleanza di Putin col regime di Assad e la teocrazia sciita iraniana è ciò che il Califfato teme di più, e anche la forza sul campo e dal cielo che gli ha inflitto le perdite maggiori nell'ultimo anno e mezzo di guerra. Gli appelli di al-Baghdadi ad attaccare la Russia non si contano e hanno già prodotto risultati non da poco. Basta ricordare l'esplosione del Charter della Metrojet decollato da Sharm el Sheik proprio per San Pietroburgo (31 ottobre 2015, 224 vittime) e l'uccisione dell'ambasciatore russo ad Ankara, Andrey Karlov (19 dicembre 2016), fatto fuori a colpi di pistola dall'ex poliziotto turco Mevlut Mert Altintas durante un ricevimento, per vendicare le vittime del bombardamento russo su Aleppo.
Quanto ai ceceni, prima del travaso nell'Isis, occorre ricordare almeno tre attentati tra il 2002 e il 2010 con centinaia di morti. L'ultimo dei quali proprio nella metro di Mosca, ad opera di due donne kamikaze (29 ottobre, 41 morti).
In attesa di dettagli che indirizzino un'analisi più certa sugli autori, resta da dire che la strage di San Pietroburgo rappresenta un vero e proprio schiaffo per Putin e la sua intelligence. Ma se da una parte lo rafforza nel momento di massima contestazione sulla corruzione guidata dal blogger Alexei Navalny (offrendogli la possibilità di ricorrere ad una dura repressione, senza che l'opinione pubblica reagisca ma anzi la invochi), dall'altra lo mostra fragile quanto i leader europei che da tre anni si trovano a fronteggiare il terrorismo. Sempre uno zar, ma azzoppato.

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