di Elisabetta Ambrosi | 30 aprile 2017
Si parla tanto di conciliazione tra lavoro e famiglia, un vero e proprio mantra che ricorre sui giornali, in tv, sui blog delle mamme e femminili. Ne parlano i ministri, anzi le ministre, e tutti quelli che sostengono che la crisi demografica ci debba spingere a mettere in atto politiche che consentano alle donne di tenere insieme un’occupazione pensata come full time e la famiglia, contro la piaga delle dimissioni post partum, volontarie o meno che siano. In tutti questi discorsi, appunto, ci si immagina sempre una donna che corre dall’ufficio all’asilo, e che faticosamente tenti di conciliare tutto, svegliandosi la mattina alle sei per fare le lavatrici e arrivando alla scrivania scarmigliata e affannata.
Questa immagine di madre esiste, e giustamente va aiutata affinché il suo carico sia meno gravoso. Ma immaginarla sempre e comunque come lavoratrice dipendente o paradipendente – per la quale vanno affinati gli strumenti di welfare aziendale o pubblico – dimentica chele donne lavoratrici dipendenti sono in Italia una minoranza. Perché nel nostro paese lavora meno di una donna su due, poco più di 4 su dieci. E le altre, quelle che lavorano, lo fanno in modo massiccio – e soprattutto crescente – in maniera precaria, senza contratto, con partita Iva, a volte in nero, con i voucher, con il lavoro a chiamata, insomma senza alcuna tutela né certezza e portando a casa – è il paradosso della nostra schifosa flessibilità, che non dà in cambio un compenso più alto, come dovrebbe, anzi viene sottopagata – poche centinaia di euro, quando va bene.
Per tutte queste donne la vera conciliazione è un’altra: non tra occupazione piena e famiglia ma tra disoccupazione e famiglia, oppure cattiva, o cattivissima occupazione, e famiglia. Si tratta di un compito – permettetemi di dirlo senza svalutare la fatica di chi lavora nove ore al giorno – molto più arduo, sia sul piano pratico che soprattutto psicologico. Sul piano pratico: perché guadagnare una somma ridicola, pur lavorando molte ore, ti consente a malapena di pagare, che so, la spesa alimentare, piuttosto che un paio di bollette. A tutto il resto deve pensare qualcun altro, che sia un marito o un padre dalla pensione generosa (non certo lo Stato). Avere così poca disponibilità di denaro, e magari una laurea o due in tasca, è estremamente frustrante, così come è frustrante calcolare mentalmente che se si divide il numero di ore lavorate per il compenso si ottengono cifre ridicole, addirittura inferiori di quelle che la ragazza che vi dà una mano per le pulizie, o la baby sitter, guadagna.
E non è un caso che aumentino, anche tra le donne laureate, quelle che scelgono di stare a casa perché il gioco non vale la candela. Se guadagnano meno di quanto spendono in aiuti familiari, preferiscono stare a casa e condividere da vicino la crescita dei loro figli, sicuramente più gratificante dello sfruttamento. Anche se si tratta purtroppo di un investimento al ribasso, perché uscire dal mercato del lavoro è una scelta per la quale si rischia successivamente di pagare un prezzo altissimo, ad esempio in caso di separazione o quando i figli sono cresciuti.
E allora oggi, alla vigilia del primo maggio, bisognerebbe mettere a tema soprattutto questo: la precarietà dilagante,che, come ha segnalato il sociologo Ilvio Diamanti, è diventata così diffusa e così poco conveniente – per dire un eufemismo – che la gente ha ricominciato a chiedere il posto fisso, non riuscendo più a sopravvivere con entrare minuscole e intermittenti. Iliberi professionisti arrancano, i free lance lavorano per cifre ridicole quando all’estero sono doppiamente retribuiti proprio perché free lance, tutti gli altri che non hanno neanche un ordine o una professione chiara si sbattono tra lavoretti sporadici che appunto, nel caso delle donne, creano anche una profonda confusione interiore: perché non si capisce più il senso di quello che si sta facendo, non si ha alcuna meta da raggiungere – perché la precarietà non porta da nessuna parte – non si riesce a decidere se lavorare convenga davvero o convenga di più smettere di lavorare.
Questa dunque è la conciliazione più difficile: non tra lavoro “classico”, con tutte le sue difficoltà, e la famiglia – di questo quando meno si parla – ma tra non lavoro e famiglia. Un compito veramente acrobatico, come possono testimoniare milioni di donne che non lavorano e lavorano da casa e per un un lavoro decentemente tutelato, magari part time – quello che nel resto dell’Europa esiste vedi Olanda, vedi Svezia – farebbero di tutto. Ma da noi tutto questo non esiste. Ci hanno fatto credere che lavorare da casa, ad esempio, fosse la strada per conciliare lavoro e famiglia, quando poi si è coperto che nulla di tutto questo era vero.
Che l’imprenditoria femminile fosse la soluzione, quando per aprire una società ci sono più ostacoli che per scalare l’Everest. Se ci fossero istituzioni e sindacati degni di questo nome, queste donne escluse dal lavoro “vero” andrebbero recuperate una a una, offrendo loro un percorso per rientrare in un mercato del lavoro che assicuri loro un compenso per il quale valga la pena spendersi. Ma i sindacati, a cui pure basterebbe dare un’occhiata ai dati e ai nomi dell’Inps gestione separata, continuano ad aggrapparsi al sempre più morente lavoro dipendente, e così i politici, se è vero che il dal bonus degli 80 euro sono stati esclusi tutti i lavoratori autonomi. I quali continuano a stringere i denti, lavorando in solitudine, ma avvertendo sempre di più la sensazione – oggi quasi una certezza –che andare avanti in queste condizioni è diventato impossibile. E che qualcosa, necessariamente, deve presto e assolutamente cambiare.
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