Il NO dei lavoratori Alitalia alla pre-intesa firmata da azienda, governo e CgilCislUilUgl ha ricevuto quasi il 70% dei voti, in un referendum che ha visto la partecipazione della quasi totalità dei dipendenti. Se stessimo ad analizzare un risultato politico diremmo che si è concretizzata una maggioranza “costituente”…
Naturalmente così non è, perché Alitalia è un’azienda privatizzata con soldi pubblici (quando c’è da regalarli alle imprese o alle banche si trovano sempre, nonostante i cerberi dell’Unione Europea) fin dal 2008, non un’istituzione della democrazia parlamentare. Ma anche perché quel NO è un rifiuto, non ancora una proposta organizzata, un progetto di politica economica in un paese che va dismettendo a velocità folle ogni pezzo pregiato del proprio patrimonio industriale (sia pubblico che privato, vista la risibile “audacia” dei cosiddetti imprenditori con passaporto italico) o del proprio mercato interno.
Era la terza volta in dieci anni che i lavoratori Alitalia venivano messi davanti all’alternativa “o mangi questa minestra o salti dalla finestra”; ossia o accetti tagli occupazionali e salariali, accompagnati da aumento dei carichi di lavoro e diminuzione dei diritti, oppure si chiude. Questa volta, però, non c’era neanche la parvenza di un “piano industriale” credibile. Lo stesso Luigi Gubitosi – nel quasi inedito ruolo di “presidente designato”, se avesse vinto il SI – aveva ammesso in tv (intervistato da Lilli Gruber) che quel canovaccio serviva forse a tirare avanti altri due anni, prima di ritrovarsi allo stesso punto e consegnare ciò che restava dell’ex compagnia di bandiera a Lufthansa (nel migliore dei casi).
Come per Almaviva, Fiat Pomigliano e altre cento crisi industriali, azienda, governo e sindacati complici avevano preparato il solito piatto: “riduzione del danno” e pistola puntata alla tempia. Sembrava una strategia blindata, inconfutabile, come l’intimazione la borsa o la vita, ma quando ormai è sparito tutto il “grasso” di una condizione contrattuale impoverita, e si arriva a incidere su carne viva e osso, la reazione disperata dei lavoratori arriva a fissare un limite che non si voleva vedere. Ora basta, questo no…
Il “piano industriale” concertato è stato giustamente letto come l’ennesimo pezzo di carta fasullo prodotto in 25 anni di distruzione cosciente e progettata di un pezzo rilevante dell’industria pubblica. Si deve infatti risalire al tempo degli accordi di Maastricht per trovare l’origine della “crisi di Alitalia”. Fu allora che – sotto la guida del sempre sopravvalutato Carlo Azeglio Ciampi – venne stabilito che i vettori europei si sarebbero nel tempo ridotti a soltanto tre: British Airways, Lufthansa ed Air France, con Alitalia destinata a finire sotto l’ala transalpina “insieme a Klm), la spagnola Iberia in promessa agli inglesi e la Swissair ai tedeschi.
A quella decisione seguirono quindici anni di amministratori delegati e presidenti (scelti dai governi Berlusconi e Prodi, senza alcuna differenza rilevabile) incaricati di impoverire progressivamente la compagnia di bandiera con i conti in attivo, attraverso scelte strategiche suicide e altrimenti incomprensibili. Un esempio? La rinuncia volontaria alle tratte con la Cina proprio mentre tutto il mondo cercava di rafforzare i collegamenti col gigante asiatico… Si potrebbe andare avanti a lungo, citando l’area manutenzione (Atitech, così eccellente che i tedeschi andavano lì per revisionare i propri aerei) e l’assurda concentrazione del business sul “medio raggio”. Ossia sul segmento più esposto alla concorrenza delle compagnie low cost, che il governo provvedeva a favorire al massimo concedendo slot (i diritti di atterraggio e decollo) senza alcun limite; mentre in Francia e Germania si è “protetto” il vettore di bandiera centellinando i permessi, rifiutando le tratte più redditizie, concedendo aeroporti disagevoli (puoi andare a Parigi con Ryanair, ma scendi a Beauvais e poi ti fai 80 km in pullman). Qui in Italia, invece, era tutto un fiorire di “consorzi pubblico-privato”, con province, comuni econfindustrie territoriali a metter soldi per coprire la differenza tra tariffe low cost e costi industriali veri.
Nel 2008 – al momento della prevista privatizzazione – Berlusconi aveva infilato la sua “cordata italiana” e fatto saltare l’accordo europeo con Air France, mettendo soldi pubblici per far riuscire l’operazione e dimezzando i dipendenti. Naturalmente questo non aveva affatto frenato la caduta verticale di rotte, aerei e fatturato, anche perché quei “capitani coraggiosi” erano completamente a digiuno di business aereo.
La nuova crisi – ormai fuori da ogni possibile alleanza continentale – aveva portato a scegliere gli arabi di Etihad come nuovo “partner strategico”, forse nell’illusione che fossero soltanto ricchi e creduloni. Altri licenziamenti, altri tagli salariali, altri precari sottopagati al posto di lavoratori esperti, altra crisi annunciata.
Lo straccio di “piano” partorito per risolverla è stato assunto da governo e CgilCislUilUgl come l’”unica soluzione possibile”, fino all’inedito intervento ad urne aperte di presidente del consiglio e ministro Delrio, ad aumentare la pressione sui votanti. Niente da fare, non ci crede più nessuno.
E ora? Ora il gioco è allo scoperto. I tre soggetti in campo sono chiari: mercato (l’azienda), Stato e lavoratori. L’azienda privata è “perfetta” quando si tratta di ridurre costi e garantire la massima efficienza possibile, il miglior rapporto costi/ricavi. Ma ogni azienda fa così, e la concorrenza seleziona senza pietà (specie le imprese che per un quarto di secolo sono stati condotte intenzionalmente sul baratro).
Se lo Stato si limita a fare da osservatore e “facilitatore” delle logiche di mercato, il destino è segnato: le imprese più grosse (quelle multinazionali meglio supportate dai propri Stati di appartenenza) mangeranno le più piccole distruggendo occupazione, in una dinamica dahighlander (“ne resterà soltanto uno”).
Se per ogni crisi industriale lo Stato si comporta in questo modo, di questo paese non resterà che “la vocazione turistica e gastronomica”, con una offerta (alberghi, b&b, ristoranti, cuochi e camerieri, ecc) già ora molto superiore alla domanda effettiva.
L’alternativa concreta c’è, dunque, e si chiama nazionalizzazione. E l'Usb è l'unico sindacato ad averla proposta. Attenzione, però: non stiamo affatto dicendo “lo Stato deve salvare l’azienda mettendoci i soldi”. Questo è stato fatto già diverse volte, ma per “facilitare i privati”. No. Alitalia va nazionalizzata e costruita ex novo come vettore internazionale credibile, a partire dai 120 aerei e 24 milioni di passeggeri che sono il suo attuale unico punto di forza.
Va fatta una scelta strategica di politica industriale ed economica opposta a quella seguita nell’ultimo quarto di secolo. Va fatta per ogni azienda che chiude i cancelli perché, se “il mercato” incita le imprese a fuggire verso paesi con salari più bassi, solo una azione pubblicapuò porsi l’obiettivo di produrre e dare lavoro. E naturalmente un’azione pubblica da cui siano esclusi per sempre quei “maneggioni” che da 25 anni lavorano alla distruzione del patrimonio industriale di questo paese.
Utopia? Qui davvero non c’è alternativa. Se il mercato non può e non vuole porsi il problema della vita civile e produttiva di uno o più paesi, ci deve per forza pensare una mano pubblica, collettiva, solidale, responsabile, scientifica. In Italia come in tutta Europa. Non si può distribuire alcun reddito, se non si produce ricchezza.
Un tempo, davanti ad alternative così radicali, si sarebbero velocemente convocate manifestazioni nazionali chiamando a partecipare tutti lavoratori, di qualunque settore e impresa. Perché tutti – al nord come al sud, da precari o da dipendenti pubblici, da specializzati o da “faticatori generici”, da partite Iva o da “cooperative” – siamo ormai a rischio chiusura e disoccupazione. Alitalia parla a tutti. Sarebbe bene che tutti rispondessero.
Non si tratta di salvare un’azienda e 12.000 lavoratori, ma di rovesciare una tendenza alla distruzione di tutto a favore di pochissimi.
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