La lunga recessione dell’economia italiana – che può datarsi almeno a partire dai primi anni novanta – si manifesta con una rilevante caduta della produttività del lavoro e dunque del tasso di crescita, le cui cause sono molteplici, una delle quali è rintracciabile nell’accelerazione data, nell’ultimo ventennio, alle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro – anche definite di flessibilità del lavoro o di precarizzazione[1]. Politiche che sono state attuate in Italia con relativo ritardo rispetto ai principali Paesi OCSE (soprattutto anglosassoni) e, tuttavia, sono state attuate con la massima intensità, rispetto a tali Paesi, nel corso degli ultimi anni, a partire in particolare dalla c.d. Legge Biagi (L.30/2003).
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Il dibattito accademico è stato dominato dalla convinzione secondo la quale la deregolamentazione del mercato del lavoro è uno strumento di policy necessario per accrescere l’occupazione in un contesto dominato da crescente volatilità della domanda che le imprese fronteggiano. Solo in anni più recenti, si è fatta strada la convinzione che le misure di deregolamentazione del mercato del lavoro possono avere effetti di segno negativo sull’andamento del tasso di occupazione e costituire un fattore di freno alla crescita economica. Ciò fondamentalmente per due ragioni.
In primo luogo, la precarizzazione del lavoro accrescere l’incertezza dei lavoratori in ordine al rinnovo del contratto e, dunque, incentiva risparmi precauzionali deprimendo consumi e domanda interna. In secondo luogo, la precarizzazione del lavoro, in quanto consente alla imprese di recuperare competitività attraverso misure di moderazione salariale, disincentiva le innovazioni, dunque il tasso di crescita della produttività del lavoro e, per conseguenza, dell’occupazione. Le proposte di superamento del modello di piena flessibilità – nella direzione della c.d. flexsecurity – non hanno sostanzialmente mai trovato piena applicazione, dal momento, che come è stato rilevato[2], risultano eccessivamente costose in un quadro macroeconomico ancora caratterizzato da misure di austerità.
Gli studi empirici si sono essenzialmente concentrati sui nessi esistenti fra regimi di protezione del lavoro e occupazione[3], rilevando, in particolare nel caso italiano, che le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro tendono a generare l’effetto esattamente opposto a quello dichiarato, ovvero tendono ad accrescere il tasso di disoccupazione.
In quanto segue, ci si propone di i] verificare empiricamente la relazione che sussiste fra precarizzazione del lavoro e occupazione e di ii] verificare empiricamente la relazione opposta, ovvero provare a capire se e in quale misura le politiche di ‘flessibilità’ del lavoro risentono dell’andamento dell’occupazione e, dunque, del potere contrattuale dei lavoratori anche nella sfera politica.
Ai fini della verifica della relazione esistente fra precarizzazione del lavoro e occupazione, ci si avvale, in questa sede, dell’’Employment Protection Legislation Index (EPL), elaborato dall’OCSE[4] e si considera innanzitutto l’andamento dell’indicatore EPL dell’Italia (Cfr. Figura 1).
L’indicatore di protezione del lavoro EPL si è ridotto notevolmente negli anni e precisamente del 40,1% passando dal 3,82 del 1990 al 2,26 del 2013, sembrerebbe più facile licenziare oggi rispetto al 1990. Una drastica e repentina diminuzione si è accertata dal 1997 al 1998 passando dal 3,76 al 3,19, con una diminuzione di più di mezzo punto, e dal 2001 al 2003 passando dal 3,01 al 2,38 (transitando nel 2002 con un 2,57) ed una riduzione del 26,5% .
Nonostante l’indicatore EPL abbia assunto valori quasi dimezzati nell’arco di quasi 25 anni nel 2013 il tasso di disoccupazione risulta di più di tre punti più elevato di allora (3,17).
L’interpretazione che viene qui proposta fa riferimento al fatto che, come è noto da Keynes in poi, la domanda di lavoro espressa dalle imprese dipende fondamentalmente dalla domanda aggregata attesa. In tal senso, si può ritenere che l’effetto positivo delle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro pre-crisi dipende essenzialmente dal fatto che si tratta di anni di crescita relativamente più alta rispetto agli anni successivi. Ciò che appare evidente è che misure di flessibilità del lavoro poste in essere in condizioni di caduta della domanda hanno effetti significativamente negativi sull’occupazione. Vi è poi da considerare che gli anni novanta sono anni caratterizzati da una deregolamentazione molto meno incisiva rispetto a quella attuata nel periodo successivo, accreditando, anche per questa ragione, l’idea che le dinamiche dell’occupazione non risentono in modo significativo dal grado di protezione del lavoro e che in contesti di riduzione della domanda la deregolamentazione del mercato del lavoro può semmai contribuire ad accrescere il tasso di disoccupazione[5]. In altri termini, l’evidenza mostra che il tasso di disoccupazione tende a ridursi quanto meno flessibile è il mercato del lavoro.
In più, si può considerare che il nesso fra variazioni dell’EPL e andamento del tasso di disoccupazione può anche essere letto nella direzione opposta. Ciò a ragione del fatto che, in condizioni di elevata disoccupazione, è basso il potere contrattuale dei lavoratori non solo nel mercato del lavoro ma anche nella sfera politica, così che a un elevato tasso di disoccupazione tende ad associarsi una politica del lavoro di segno redistributivo, a svantaggio dei lavoratori[6]. Questa congettura costituisce un’estensione della teoria marxiana dell’esercito industriale di riserva, per la quale i salari tendono a ridursi al crescere del tasso di disoccupazione, come conseguenza della compressione del potere contrattuale dei lavoratori. Si tratta di un’estensione di questa tesi, dal momento che traspone la medesima logica sul piano del conflitto nell’arena delle decisioni politiche. In altri termini, si può presumere che laddove il tasso di disoccupazione è elevato, è minore il potere contrattuale dei lavoratori, ed è più semplice per i capitalisti attuare misure di ‘disciplina’ del lavoro. Qui, in particolare, accrescendone il grado di precarietà. La logica che è alla base di questo argomento la si ritrova anche in Kalecki[7]:
“Il mantenimento del pieno impiego causerebbe cambiamenti sociali e politici che darebbero un nuovo impulso all’opposizione degli uomini d’affari. Certamente, in un regime di permanente pieno impiego, il licenziamento cesserebbe di giocare il suo ruolo come strumento di disciplina [disciplinary measure]. La posizione sociale del capo sarebbe minata e la fiducia in se stessa e la coscienza di classe della classe operaia aumenterebbero. Scioperi per ottenere incrementi salariali e miglioramenti delle condizioni di lavoro creerebbero tensioni politiche. E’ vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego di quanto sono in media in una condizione di laisser-faire; e anche l’incremento dei salari risultante da un più forte potere contrattuale dei lavoratori è più probabile che incrementi i prezzi anziché ridurre i profitti, e danneggi così solo gli interessi dei rentier. Ma la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più apprezzate dagli uomini d’affari dei profitti. Il loro istinto di classe gli dice che un durevole pieno impiego non è sano dal loro punto di vista e che la disoccupazione è una parte integrante di un normale sistema capitalista”.
Sul piano empirico, si è proceduto a verificare questa congettura, confermandola: i tassi di disoccupazione influenzano negativamente gli indici EPL e che all’aumentare del tasso di disoccupazione l’indicatore EPL decresce costantemente di circa 0,019 punti[8], un valore statisticamente significativo.
Emerge, in definitiva, una relazione biunivoca: la precarizzazione del lavoro accresce la disoccupazione e la crescita della disoccupazione, indebolendo il potere contrattuale dei lavoratori nel mercato del lavoro e soprattutto nella sfera politica, rende possibili ulteriori misure di precarizzazione del lavoro.
* Università del Salento. Email: guglielmo.forges@unisalento.it
** Università di Bari. Email: lucia-mongelli@libero.it
NOTE
[1] Sul tema si rinvia, fra gli altri, a TRIDICO, P. (2014). Riforme del mercato del lavoro, occupazione e produttività: un confronto fra l’Italia e l’Europa, “Sindacalismo”, ottobre-dicembre, pp. 61-92.
[2] Cfr. STREEK, W. (2013). Flexible employment, flessible families and the socialization of reproduction, Max Plank Institute working paper 09/13.
[3] Cfr. BERNALD – VERDUGO, L. FUCERI D. AND GUILLAME D. (2012). Labor market flexibility and unemployment: new empirical evidence of static and dynamic effects, “International Monetary Fund – working paper 12/64”
[4] L’EPL è costituito da 21 indicatori sintetici, che permettono di stimare i due sottoindicatori che contribuiscono a comporre l’EPL: l’indicatore di protezione per i contratti a tempo indeterminato (EPRC) e l’indicatore di protezione per i contratti a tempo determinato (EPT). Ad una maggiore flessibilità corrisponde un indice EPL più basso.
[5] V., tra gli altri, FORGES DAVANZATI, G., PACELLA, A. (2008). Minimum wage, credit rationing and unemployment in a monetary economy, “European Journal of Economic and Social Systems”, vol.XXII, n.1, pp.179-194; ROMANO, E. (2014). Gli indici di Employment Protection Legislation e alcune fallacie sul mercato del lavoro italiano. Menabò, Etica ed Economia, n.10/2014; SALTARI, E., TRAVAGLINI, G. (2008). Il rallentamento della produttività del lavoro e la crescita dell’occupazione. Il ruolo del progresso tecnologico e della flessibilità del lavoro, “Rivista italiana degli economisti”, vol. 1, 3-38.
[6] COLACCHIO, G. (2014). Taxation, income redistribution and debt dynamics in a seven-equation model of the business cycle, “Journal of Economic Behavior and Organization”, vol.106, pp.140-165.
[7] KALECKI, M. (1943). Political aspects of full employment, “Political Quarterly” 14(4), pp.322-330.
[8] Informazioni sulla metodologia utilizzata sono disponibili su richiesta.
(24 aprile 2017)
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