Come poi sappiamo nel 1977 Luciano Lama, in una celebre intervista ad Eugenio Scalfari, rinnegò esplicitamente e brutalmente la formula del salario variabile indipendente e sottomise l'iniziativa sindacale ai vincoli delle politiche di austerità e ristrutturazione industriale. Lo stesso Trentin fece propria la critica di Lama all'impostazione sindacale che aveva portato ai più grandi successi della storia del movimento operaio italiano e divenne uno dei principali assertori della necessità di accettare le nuove compatibilità economiche.
La ricerca Cestes USB che viene presentata ha il grande merito di riproporci gli stessi interrogativi di fondo dei momenti cardine della nostra storia: quali sono le tendenze oggi prevalenti nel capitalismo del nostro paese e quali i compiti del movimento operaio di fronte ad esse?
Al contrario dei primi anni 60 del secolo scorso, il capitalismo italiano non viene da un lungo boom economico ma da una crisi ancora più lunga. La più lunga e catastrofica. Nel 1949 il sistema produttivo del paese aveva recuperato integralmente il livello del 1939, prima della distruzione bellica, mentre oggi a dieci anni esatti dall'esplodere della grande crisi siamo ancora sotto. E il sistema industriale, come sottolinea la ricerca, ha perso il 25% della sua capacità produttiva. Il trionfo produttivo di Marchionne, esaltato da Renzi e dal sindacalismo complice, consiste nell'obiettivo portare la produzione di auto in Italia a 700000 all'anno, quando fino al 2000 era di 1400000! E allora la Fiat era una azienda italiana mentre oggi è parte di una multinazionale USA con sede legale in Olanda.
La ricerca Cestes non solo ci dice che non esiste alcuna ripresa in grado di eguagliare e superare i livelli produttivi del passato, ma che questa ripresa non è neppure voluta da ciò che resta del capitalismo italiano. Che sta semplicemente cercando il punto di sistemazione e adattamento del nostro paese nel quadro delle gerarchie economiche che la globalizzazione prima, la sua stessa crisi poi, stanno ridefinendo.
Trent'anni di politiche liberiste, di vincoli europei a partire dall'euro, di assorbimento della grande borghesia italiana in un ruolo parassitario nella finanza internazionale; e il conseguente smantellamento dell'industria pubblica, la fine di eccellenze private come la Olivetti, la svendita, minuziosamente documentata nella ricerca, del made Italy alle multinazionali, tutto questo ha reso il nostro paese una colonia industriale appetibile alle scorrerie dei più forti. Le piccole imprese da sole non saranno mai in grado di reggere l'autonomia di un sistema produttivo, ed infatti esse oggi sono soprattutto terreno di caccia. Se a tutto questo si aggiunge che le politiche di austerità di bilancio, condivise tra potere capitalistico europeo, tedesco soprattutto, e borghesia parassitaria italiana, distruggono uno stato sociale fragile e di recente costruzione, si capisce che non c'è proprio alcuna ripresa in vista. E che anzi tutte le differenze economiche produttive e sociali sono destinate ad accentuarsi, con gran parte del Mezzogiorno che già oggi sta peggio della Grecia, e con Lombardia e Veneto già gravitanti fuori dal paese per interessi economici, in via di assorbimento da parte delle zone più ricche d'Europa.
Se questa tendenza alla sottomissione finanziaria e subimperialista è la tendenza di fondo, quali sono i compiti di chi non si rassegna ad accompagnare il declino del paese con la distruzione dei diritti del lavoro e sociali? Quale cultura delle incompatibilità bisogna professare e praticare oggi, perché la lotta di classe dal basso torni ad essere una delle componenti di un sistema che oggi giustifica e pratica solo quella dall'alto, dei ricchi contro i poveri?
A me a pare che la prima decisione che un sindacato di classe debba assumere è quella di non scambiate mai il lavoro con il taglio dei diritti e del salario. Oggi qui sta l'ultimo anello di quella catena del valore che giustamente la ricerca pone alla base del supersfruttamento del lavoro. Dovendo far profitto una lunga fila di persone, dal manager al padrone diretto, all'azionista, alla banca, al rentier finanziario, è chiaro che il salario diventa la sola variabile dipendente, da comprimere al massimo per permettere a tutti quelli sopra di mangiarci su. Ecco, il sindacato di classe non ci sta più. Anche se i lavoratori ricattati e disperati accettano di ribassare il valore della propria forza lavoro pur di mangiare, il sindacato di classe non ci sta, va in minoranza e combatte lo stesso.
Questa è per me la condizione di sopravvivenza fondamentale di una prospettiva di classe, oggi soprattutto che il sistema si rende conto che la ripresa non ci sarà e che bisogna tagliare occupazione e salari per sempre. Rompere o almeno strattonare e accorciare la catena del valore è la prima delle incompatibilità necessarie.
In secondo luogo occorre programmare il conflitto sociale ovunque si aprano spazi per esso. Il sindacalista deve essere prima di tutto l'agitatore, colui che organizza la rivolta ovunque sia possibile. Le lotte della logistica dimostrano che ciò è possibile in una dimensione impensata fino a pochi anni fa e ci insegnano che i migranti più sfruttati e ricattati, possono essere alla testa della ripresa del conflitto sociale.
Bisogna poi collocare ed intrecciare la lotta di classe nel territorio, nelle periferie delle grandi città e in quella gigantesca periferia che sta diventando gran parte del Mezzogiorno. Lotta di popolo e lotta di classe devono crescere assieme, come in altri momenti drammatici della storia del paese.
Bisogna saldare la lotta contro lo sfruttamento a quella contro i tagli allo stato sociale e contro la privatizzazione del sistema pubblico. Lavoratori privati e pubblici son sempre più sottoposti agli stessi processi di oppressione e il sindacato di classe deve rompere le barriere artificiose che ancora li separano.
Infine a tutto questo bisogna aggiungere che non ci sarà mai una soluzione di mercato alla disoccupazione di massa e alla precarizzazione, ma che solo un gigantesco intervento pubblico nella economia potrà abbatterle.
Una moderna e consapevole strategia delle incompatibilità è oggi necessaria per giungere alla questione di fondo: la rottura del sistema di potere dominante e la conquista di una diversa via di crescita e sviluppo. Qui c'è un profondo lavoro culturale da compiere nel mondo del lavoro e in mezzo alle popolazioni oppresse e emarginate.
Dobbiamo rovesciare a livello di massa il mantra delle compatibilità, che proclama in ogni istante che bisogna accettare ciò che passa il convento perché così vogliono il mercato, la globalizzazione, l'Europa. Proprio l'euro, la UE, la Nato sono gli strumenti principali con i quali le classi dominanti italiane ed europee hanno distrutto i diritti del lavoro e lo stato sociale, non dobbiamo avere timore di indicarli come nemici nostri e di ogni prospettiva di riscatto sociale. A chi spiega che non ci sono alternative all'accettare quello che passa il convento, dobbiamo rispondere che non solo vogliamo quello che vogliamo perché è giusto, ma proprio perché bisogna rompere questo sistema profondamente ingiusto e costruirne un altro.
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