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[Mezzo secolo fa, nella notte tra il 17 e il 18 febbraio 1963, moriva poco più che quarantenne lo scrittore e partigiano Beppe Fenoglio. Ieri Mario Baudino, giornalista de “La Stampa”, ha contattato telefonicamente WM1 e gli ha fatto alcune domande sull’eredità di Fenoglio oggi. Ha chiamato uno di noi perché, a quanto pare, siamo tra i pochi scrittori contemporanei ad aver esplicitamente e più volte citato tra le loro influenze l’autore de I ventitre giorni della città di Alba, il più grande cantore della guerra di liberazione contro i nazifascisti. Qui sotto proponiamo il testo integrale delle risposte di WM1, dalle quali si possono ricostruire le domande. Di seguito, proponiamo il documentario di Guido Chiesa Una questione privata. Vita di Beppe Fenoglio (1996)]
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Più che «un maestro» (non credo volesse esserlo), sicuramente un esempio. E’ uno degli scrittori che abbiamo amato di più, una delle letture che abbiamo in comune, addirittura in 54 abbiamo ripreso il personaggio di Ettore e lo abbiamo spostato a Bologna… Io ho scritto molte parti di New Thing prima in inglese… Un esempio, un esempio di lavoro sulla lingua e sulla riscrittura. Questa coincidenza tra spinta alla sperimentazione formale e spinta etica, questa cosa – prima ancora che potessimo capirla bene ed elabolarla – ci ha colpito molto. La libertà espressiva che Fenoglio cerca attingendo a un inglese tutto suo, al dialetto piemontese, al latino, tutto per avere la briglia più sciolta, ottenere una lingua più mobile, più fluida, coincide con il contenuto, con la ricerca di libertà che racconta nei suoi libri, con la spinta che porta Johnny a fare il partigiano. L’amore di Fenoglio per l’inglese è l’amore per una «lingua dell’utopia», per qualcosa che lo porta fuori dalla grettezza del provincialismo, della provincia fascistizzata. Questa coincidenza tra contenuto ed espressione ci è stata d’esempio.
Il debito è molto esplicito in 54. Di sicuro già in Q avevamo cominciato a travasare le nostre letture, ma è con 54 che iniziamo a fare i conti con quel modello: c’è una sottotrama con un personaggio che si chiama Ettore e fa il contrabbandiere, ha un capo che è un ex-partigiano come lui e si chiama Bianco, gira su un autocarro insieme a uno che si chiama Palmo… Insomma, è La paga del sabato di Fenoglio. Inoltre, attingiamo al serbatoio di quelli che i linguisti chiamano «idiotismi», gli usi dialettali, con la differenza che noi ci appoggiamo all’emiliano anziché al piemontese.
Non saprei dire perché Fenoglio non sia citato con la stessa frequenza di altri, nelle interviste si citano spesso Pavese e Calvino, si cita Sciascia… Forse Fenoglio ci è rimasto impresso per motivi che hanno a che fare con l’epica, al fondo i romanzi di Fenoglio sono romanzi d’avventura, Dante Isella diceva che Il partigiano Johnny è come Moby Dick, forse è quell’afflato lì che ci ha colpito. Per noi l’avventura non è solo intrattenimento, è una modalità di intervento nel reale, non solo permette di veicolare contenuti che in altri modi sarebbero meno veicolabili, ma (soprattutto!) fa emergere la pulsione a immaginare un mondo diverso, l’avventura serve a quello, ha sempre un connotato di utopia.
Eh, capisco, ma uno cosa può farci? Purtroppo… Eh… Guarda, ho ben presente il problema e sono d’accordo, vedo bene che certe forme, certe forme che noi e altri scrittori abbiamo sperimentato una decina d’anni fa sono state rese deteriori, infatti noi poi ci siamo mossi in altro modo, perché vogliamo sempre evolverci. Certi tratti, certi stilemi che usavamo alla fine degli anni Novanta adesso sono usati da altri in maniere banalizzanti. In questo momento ci sentiamo distanti da un tipo di lavoro così, troppo formulaico, troppo… Forse lo stesso Fenoglio serve da antidoto contro questo, impedisce di cadere in certe formule. Nel senso che in lui c’è questa etica del lavoro e della scrittura, lui dice: «Per scrivere ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti». In questo ci riconosciamo, noi ci mettiamo quattro anni a scrivere un romanzo, non siamo di quelli che ti buttano fuori un romanzo su Giulio Cesare in tre mesi perché te lo ha richiesto l’editore, che vuole il romanzone storico dozzinale, adesso questo fenomeno si vede molto. [Omissis: Baudino chiede di un nostro libro che uscirà a primavera, WM1 spiega a grandissime linee di cosa si tratta] Il voler fare un lavoro meditato e metodico… E’ un po’ quell’etica che c’è ne La chiave a stella di Primo Levi, il voler fare un buon lavoro, l’orgoglio di aver fatto un buon lavoro, che agli altri potrà anche non piacere ma almeno io non avrò da rimproverarmi di non aver cercato di dare il meglio… Quindi gli instant-book, il romanzo storico alla brutta vigliacca, queste cose non possono interessarci.
Oddìo, non so come e quando gli altri WM abbiano incontrato per la prima volta Fenoglio, nel mio caso è successo al liceo. La prima volta che ho sentito nominare Il partigiano Johnny è stata al ginnasio, poi l’ho trovato nella biblioteca del liceo, l’edizione del ’68, quella curata da Lorenzo Mondo che aveva miscelato le due diverse stesure. Insomma, la versione che per un tot di tempo è stata l’unica che c’era. Nel libro ovviamente mi ha colpito tantissimo la compresenza di calchi dall’inglese, parole inglesi e neologismi… Nel mio piccolo, ho reso un indegno omaggio a Fenoglio scrivendo prima in inglese alcune parti di New Thing (per anni ho fatto anche il traduttore) e traducendole in un italiano che suonasse strano, o che suonasse come una traduzione. Ripeto, un omaggio assolutamente indegno, comunque ispirato alla sua prassi. Io? Ho quarantadue anni. Sì, il liceo l’ho fatto negli anni Ottanta. Fenoglio non me lo nominò un singolo professore, do il merito al liceo nel suo complesso, io ho fatto un bel liceo, l’Ariosto di Ferrara, che aveva e ha una bella biblioteca. Sì, ho avuto buoni professori.
Come «operazione», certamente il testo più importante è Il partigiano Johnny, però quelli che mi sono più cari sono Una questione privata e i racconti di Un giorno di fuoco, soprattutto il primo, quello che dà il titolo alla raccolta. Penso che l’attacco di Un giorno di fuoco sia uno dei più belli della letteratura italiana, inizia letteralmente «col botto». Aspetta che prendo il libro…
«Alla fine di giugno Pietro Gallesio diede la parola alla doppietta. Ammazzò suo fratello in cucina, freddò sull’aia il nipote accorso allo sparo, la cognata era sulla sua lista ma gli apparì dietro una grata con la bambina ultima sulle braccia e allora lui non le sparò ma si scaraventò giù alla canonica di Gorzegno. Il parroco stava appunto tornando da visitare un moribondo di là di Bormida e Gallesio lo fulminò per strada, con una palla nella tempia. Fu il più grande fatto prima della guerra d’Abissinia.»
Un inizio in medias res fenomenale. Sì, infatti, «diede la parola alla doppietta» è stupendo.
Non lo so perché… Una decina d’anni fa c’è stato un momento in cui Einaudi ha ristampato quasi tutto, vuol dire che una domanda c’era. Adesso, boh… Non sarà per il fatto che Fenoglio è così legato alla Resistenza, che ultimamente risulta scomoda e imbarazza anche a sinistra? C’è stata una tale offensiva contro la Resistenza negli ultimi dieci anni, con i libri di Pansa e quelle robe là… Tu dici «la scrittura militante», ma forse anche presso gli scrittori… «militanti» c’è stato un fare come le lumache, un rimettere la testa nel guscio quando si parla di lotta partigiana. Sicuramente per avere a che fare con Fenoglio bisogna avere a che fare con l’epica della Resistenza, e non tutti hanno voglia di averci a che fare.
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