domenica 23 aprile 2017

"La Le Pen è una malattia endemica della Francia". Intervista a Philippe Daverio

"Con il Fn c'è la parte agreste del Paese, spaventatissima e malata in fondo all'anima"

Radici che nessuna modernità è riuscita ancora a estirpare: "Marine Le Pen è una malattia endemica della Francia. Rappresenta la parte del paese agreste, quella parte che ha sempre vissuto con estrema diffidenza la Francia urbana e aperta". Philippe Daverio – critico d'arte, scrittore, ex docente universitario, conduttore tv – è nato in Alsazia qualche anno dopo che la regione era tornata sotto la sovranità della Francia (dalla Germania). Padre tedesco che scriveva in gotico, madre del posto, avi risorgimentali sulle barricate delle cinque giornate di Milano, in famiglia aveva già l'Europa che poi sarebbe diventata Unione: "A scuola disegnai una caricatura dei miei insegnanti. Un gioco bonario, che qui farebbe ridere. Mi cacciarono per indisciplina. E quella Francia lì, quella Francia di provincia severa e bigotta, è la Francia che sta con il Front National. Una Francia spaventatissima, malata in fondo all'anima".
Non è così anche da noi?

La magia dell'Italia è la provincia. In qualsiasi piccola città tu vada, c'è un'Atene in miniatura. Verona, Mantova, Lucca, Viterbo, Ancona... non sono delle città condannate, né sono piene di cretini come i piccoli centri tedeschi o francesi. Sono città piene di passioni, dove ci sono persone che sentono di essere cives, cittadini. Un grattacielo ha gli stessi abitanti di Modena. Il primo però è una conigliera. La seconda è una capitale.
Lei si sente italiano?
Fino a vent'anni mi sono sentito francese, poi mi sono stabilito a Milano e ho smesso. Studiavo economia alla Bocconi, dopo essermi diplomato alla scuola internazionale di Varese. Un professore all'esame di diritto privato mi disse: "Lei vuole fave l'esame senza nemmeno pavlave l'Italiano?". Anni dopo, mi son preso la rivincita.
Come ha fatto?
Ho imparato a parlare e scrivere in italiano senza mai prendere una lezione di grammatica: per strada, ascoltandolo, perché le lingue sono come la musica: bisogna prima imparare a cantarle.
E con l'arte?
È andata più o meno allo stesso modo. Ero un sessantottino che s'infilava nei cortei e occupava le aule dell'università. Frequentavo un comitato del movimento studentesco un po' stalinista dove vecchi partigiani ci incantavano con i loro racconti della resistenza. Il mito dell'azione è il più affascinante che ci possa essere per un ventenne. Rapì anche me. Fino a quando non divenne un ideale settario su cui cominciò ad aleggiare la tentazione della violenza.
La spaventò?
Mi ero stancato. Mollai tutto e mi misi a fare il mercante d'arte. Aprii una bottega in Via Monte Napoleone a Milano. Ed ebbi la fortuna d'incontrare alcuni tra i più raffinati antiquari italiani. Alessandro Orsi, per esempio. Erano anni strani, bastava poco per entrare nel circuito. E a ventisette anni incontrai a Ginevra Jacques Vendore, un elegantissimo armeno che mi diede sulla fiducia un piccolo olio di Paul Klee, disegnato in Tunisia nel 1914. Un dipinto che oggi va all'asta a un milione di euro.
Come faceva a conoscere l'arte?
Quando ti ritrovi tra le mani una tempera acquerellata di Francesco Guardi e devi decidere se pagarla venti milioni per cercare di rivenderla al doppio, devi sapere cosa stai toccando. Imparai tutto per bisogno, studiando per conto mio. Non mi sono mai laureato. Tuttavia, ho finito di insegnare all'università due mesi fa.
Come finì nella giunta leghista di Formentini, a Milano?
Mi telefonò Mario Spagnol, uno dei più grandi uomini dei libri milanesi, fondatore della Longanesi: "Devi incontrare un mio amico d'infanzia che si presenta alle elezioni". Mi eccitava l'idea di questi leghisti primordiali che contestavano la struttura un po' corrotta della Milano tardo socialista. Quando lo vidi, capii di non essere di fronte a un barbaro, ma a un uomo colto e perbene. Chiusi bottega e accettai di fare l'assessore.
Come andò?
I leghisti mi guardavano come un estraneo assoluto. Ero una bizzarria in un movimento che pure non aveva ancora i tratti reazionari e retrogradi di oggi – ci trovavi dentro gente che veniva della sinistra, persone che mettevano in forse l'ordine statale, moltissimo moralismo contro il potere corrotto del sistema dei partiti, una roba esaltante.
Funzionò?
Guardavamo l'orizzonte della Milano nuova. Ridisegnammo completamente l'urbanistica della città. Palazzo Reale passò da trecento mila visitatori a un milione. Dopodiché, finii al lastrico. Non ero abituato a guadagnare così poco.
Un impoverito dalla politica?
Persi un sacco di soldi chiudendo la mia galleria. E con la politica – se la fai come l'ho fatta io – non ti arricchisci. Mi rimisi a lavorare come un pazzo. Ho sempre creduto che è maggiore la fatica che si fa per spendere poco che a guadagnare molto. La frugalità è faticosissima.
E la cultura?
Un dipinto non è mai solo un dipinto: dialoga con la musica che a sua volta rimanda alla letteratura che è intrecciata al nostro modo di vivere e di percepire la realtà. C'è l'apprendimento e c'è la fortuna di incontrare persone che t'insegnano in due giorni cose che non impareresti leggendo per mesi. Con me, la provvidenza è stata generosa.
È credente?
In maniera disordinata, senza osservare i calendari liturgici e le festa comandate, credo in Dio; e credo che Dio avvicini l'uomo a una dimensione poetica e lirica della vita, che è la sfera più importante per capire l'arte.
È fiero di essere borghese?
Se penso ai tre più grandi anti borghesi del novecento – l'imbianchino austriaco (Hitler), il mediocre giornalista romagnolo (Mussolini) e il seminarista georgiano (Stalin) – sono felice di stare dall'altra parte, la parte dove sono stati tre grandi signori: Winston Churchill, Frank Delano Roosevelt e Charles De Gaulle.
Eppure, la borghesia è stata molto contestata, anche dalle avanguardie artistiche.
La borghesia è il più alto valore che l'occidente abbia prodotto negli ultimi due secoli. Grandi borghesi sono Albert Einstein e Sigmund Freud. Borghese è il romanzo. E pure Jean Paul Sartre è borghese, seppur in maniera critica.
Perché non è più riconosciuta?
Nessuno di noi ha ancora capito se la nostra civiltà sia destinata a finire, oppure avrà la forza di generare un futuro. Siamo in bilico di fronte a questo burrone e ci domandiamo se cadremo dentro o riusciremo a saltare dall'altra parte. Sospesi lì sopra ci sentiamo invasi dalle vertigini.
L'Italia più di altri?
I veri inventori della borghesia sono i comuni italiani. L'Italia fa finta di non saperlo. E non vuole ricordare nemmeno che i momenti più alti della sua storia – il Risorgimento, i moti del '48 – sono creazioni di una borghesia nascente.
Monti ci ha provato a recuperare quella tradizione.
Il governo Monti non era borghese: era tecnocratico. Si fondava sulla convinzione che i saperi specialistici valessero più dei valori etici. Era molto più borghese Giulio Andreotti, con la sua vita ordinata, la fiducia nel lavoro, la fede nella famiglia.
E Berlusconi?
Non ha niente del borghese. Confonde l'agiatezza con l'opulenza – una caratteristica agreste. È il contadino che quando ha molti polli li mangia tutti insieme.
Una volta disse: "Gli italiani amano che la politica sia una evoluzione dei loro comici". Poi è arrivato Beppe Grillo.
Senza Roberto Benigni non avremmo provato simpatia per Matteo Renzi e senza le barzellette di Gino Bramieri non avremmo mai avuto Silvio Berlusconi. Con Beppe Grillo siamo alla rivolta dell'osteria nei confronti di tutto ciò che ha un minimo di decoro e rispettabilità.
Lei ama molto l'Italia.
La amo vergognosamente, anche se sto per scappare. Non sopporto più di pagare così tante tasse. L'unica cattiveria di questo paese è l'imposizione fiscale. Non c'è ragione al mondo per cui io debba dare il settantacinque per cento dei miei guadagni allo stato. Va bene che la sanità pubblica lombarda mi ha salvato la vita da un tumore. Però non è possibile che per mantenere un'orda di disperati si debba pagare così tanto.

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