Emiliano Brancaccio insegna Economia politica ed Economia
internazionale presso l’Università del Sannio. Nel 2013 è stato
promotore con Riccardo Realfonzo del «monito degli economisti», un
documento pubblicato sul Financial Times che segnalava come l’insistenza
dei governi europei sulle politiche di austerity e di
deregolamentazione del lavoro potrebbe condurre a una deflagrazione
dell’Eurozona.
Professor Brancaccio, il vostro «monito» sulla futura implosione dell’Unione monetaria è ancora attuale?
Molte delle riflessioni contenute in quel documento hanno già trovato conferma nei fatti. Allora sostenevamo che le politiche di contenimento della spesa e di schiacciamento delle retribuzioni avrebbero attivato una spirale deflazionista, che in molti paesi avrebbe depresso i redditi e avrebbe quindi reso sempre più difficile il rimborso dei debiti, sia pubblici che privati. Questa tesi oggi trova consensi persino all’interno del Fondo Monetario Internazionale e la stessa Banca d’Italia fornisce evidenze empiriche che la supportano. La crisi bancaria che ha già colpito molti paesi europei, e che oggi attanaglia l’Italia, sembra indicare che avevamo visto giusto.
Qual è il nesso tra crisi bancaria e abbandoni delle unioni valutarie nella storia?
La storia ci dice che molti paesi si sono visti costretti ad abbandonare un cambio fisso o una valuta comune nel momento in cui le loro banche entravano in crisi: per ricapitalizzarle con denaro fresco essi hanno dovuto necessariamente riprendere il controllo nazionale della stampa di moneta.
Ora, anziché tornare alle monete nazionali, i soldi per ricapitalizzare le banche in crisi non potrebbero provenire dall’Unione europea?
In Irlanda, in Spagna e in Grecia le ricapitalizzazioni sono avvenute anche grazie al sostegno europeo. Ma le risorse messe a disposizione dall’Unione e dalla BCE per gestire il susseguirsi di crisi bancarie sono insufficienti. E non mi pare che oggi sussistano le condizioni politiche per accrescerle.
Lei sostiene che anche a sinistra bisognerebbe sviluppare qualche idea su come gestire un’eventuale nuova crisi dell’euro. Di recente, anche al Parlamento europeo, ha presentato la proposta di avviare una discussione su un’ipotesi di «international social standard sulla moneta». In cosa consiste?
È un modesto tentativo per cercare di uscire dalle secche di un dibattito sterile che sta montando anche a sinistra, tra i vecchi retori di un acritico europeismo e i nuovi apologeti di un ingenuo sovranismo nazionalista. L’idea verte sull’introduzione di controlli sui movimenti di capitale da e verso quei paesi che con le loro politiche di dumping sociale alimentano gli squilibri commerciali tra paesi. Mentre le destre xenofobe guadagnano consensi con la proposta retriva di «arrestare gli immigrati», penso che le sinistre dovrebbero contrapporsi ad esse proponendo di «arrestare i capitali», che con le loro continue scorrerie internazionali alimentano la gara al ribasso dei salari e dei diritti e scatenano il caos macroeconomico.
Ripristinare i controlli sui movimenti internazionali di capitale segnerebbe la fine del progetto europeo?
Tutt’altro: il principio di libera circolazione dei capitali è alla base dell’estrema fragilità dell’Eurozona. Occorre metterlo in discussione se si vuol sperare di costruire un sistema di relazioni internazionali meno conflittuale e maggiormente votato allo sviluppo della ricchezza e dei diritti sociali.
Professor Brancaccio, il vostro «monito» sulla futura implosione dell’Unione monetaria è ancora attuale?
Molte delle riflessioni contenute in quel documento hanno già trovato conferma nei fatti. Allora sostenevamo che le politiche di contenimento della spesa e di schiacciamento delle retribuzioni avrebbero attivato una spirale deflazionista, che in molti paesi avrebbe depresso i redditi e avrebbe quindi reso sempre più difficile il rimborso dei debiti, sia pubblici che privati. Questa tesi oggi trova consensi persino all’interno del Fondo Monetario Internazionale e la stessa Banca d’Italia fornisce evidenze empiriche che la supportano. La crisi bancaria che ha già colpito molti paesi europei, e che oggi attanaglia l’Italia, sembra indicare che avevamo visto giusto.
Qual è il nesso tra crisi bancaria e abbandoni delle unioni valutarie nella storia?
La storia ci dice che molti paesi si sono visti costretti ad abbandonare un cambio fisso o una valuta comune nel momento in cui le loro banche entravano in crisi: per ricapitalizzarle con denaro fresco essi hanno dovuto necessariamente riprendere il controllo nazionale della stampa di moneta.
Ora, anziché tornare alle monete nazionali, i soldi per ricapitalizzare le banche in crisi non potrebbero provenire dall’Unione europea?
In Irlanda, in Spagna e in Grecia le ricapitalizzazioni sono avvenute anche grazie al sostegno europeo. Ma le risorse messe a disposizione dall’Unione e dalla BCE per gestire il susseguirsi di crisi bancarie sono insufficienti. E non mi pare che oggi sussistano le condizioni politiche per accrescerle.
Lei sostiene che anche a sinistra bisognerebbe sviluppare qualche idea su come gestire un’eventuale nuova crisi dell’euro. Di recente, anche al Parlamento europeo, ha presentato la proposta di avviare una discussione su un’ipotesi di «international social standard sulla moneta». In cosa consiste?
È un modesto tentativo per cercare di uscire dalle secche di un dibattito sterile che sta montando anche a sinistra, tra i vecchi retori di un acritico europeismo e i nuovi apologeti di un ingenuo sovranismo nazionalista. L’idea verte sull’introduzione di controlli sui movimenti di capitale da e verso quei paesi che con le loro politiche di dumping sociale alimentano gli squilibri commerciali tra paesi. Mentre le destre xenofobe guadagnano consensi con la proposta retriva di «arrestare gli immigrati», penso che le sinistre dovrebbero contrapporsi ad esse proponendo di «arrestare i capitali», che con le loro continue scorrerie internazionali alimentano la gara al ribasso dei salari e dei diritti e scatenano il caos macroeconomico.
Ripristinare i controlli sui movimenti internazionali di capitale segnerebbe la fine del progetto europeo?
Tutt’altro: il principio di libera circolazione dei capitali è alla base dell’estrema fragilità dell’Eurozona. Occorre metterlo in discussione se si vuol sperare di costruire un sistema di relazioni internazionali meno conflittuale e maggiormente votato allo sviluppo della ricchezza e dei diritti sociali.
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