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In attesa della conferma
referendiaria di aprile, che può renderlo padrone assoluto delle Istituzioni
turche, il presidente Erdoğan tiene viva l’attività diplomatica con l’occhio sempre
rivolto alla geopolitica. In questi giorni è volato in Africa (Tanzania,
Mozambico, Madagascar) per scucire più che per tessere tele relazionali.
L’intento è rivolto contro l’odiato network dei cosiddetti fethullaçi, che in diversi Paesi africani, anche in base al credo
islamico e al conseguente impegno sociale e umanitario, hanno creato da tempo
scuole e servizi. Erdoğan lo sa perché da premier, e alleato dell’imam alloggiato
in Pennsylvania, aveva sostenuto le iniziative che gli producevano popolarità
interna e internazionale. Ora cerca di svilire questi accordi, accusando
l’organismo Hizmet d’essere uno dei volti dell’organizzazione terrorista
responsabile del tentato golpe in patria nell’estate scorsa. Screditare Gülen,
tagliarne i gangli vitali dei ritorni economici miliardari prodotti da
quell’attività è diventata una missione che il leader turco insegue da tre anni
e che, dopo il putsch fallito, s’è trasformata in ossessione. Una parte del
business fethullaçi è presente
proprio negli Stati Uniti, si parla di più di 250 scuole, utilizzate dalla
comunità islamica. Il presidente turco aveva lanciato la doppia richiesta di
estradare il capo e chiudere quegli istituti, come aveva fatto sul territorio
anatolico. Obama non l’ha ascoltato.
Attualmente pensa di
riprovarci con l’amministrazione Trump con cui potrebbe giocare la partita
geopolitica del ‘dare per avere’. Però l’intento può risultare debole su più
fronti. Le tendenze, per ora isolazioniste, manifestate dal neo presidente Usa
non dovrebbero produrre alcuna gelosia sul piano strategico internazionale, il
presidente tycoon potrebbe disinteressarsi alle effusioni in corso fra Ankara e
Mosca. Già l’Obama-due aveva tenuto un basso profilo sullo scacchiere
mediorientale, sommando ambiguità a una contraddittoria non presa di posizione,
anche di fronte ai pericoli palesi espressi dallo Stato Islamico, Trump può
seguirne la tendenza alla faccia del “First America” e dell’immagine
decisionista. Da mesi si discute dell’occupazione putiniana dello spazio
diplomatico lasciato vacante dagli Stati Uniti su scenari di guerra (Siria,
Iraq) e d’irrisolte tensioni (questione israelo-palestinese), eppure
l’avvicinamento tattico fra Turchia e Russia può non interessare granché il
nuovo capo della Casa Bianca (Pentagono permettendo). Anche il ruolo strategico-militare
della Nato viene ridimensionato, lo starne dentro o fuori di Ankara non deflagrerebbe
come una minaccia. Siamo comunque nel terreno delle congetture. I tentativi
erdoğaniani di strappare Gülen dal dorato ritiro americano e portarlo come
trofeo a un processo in casa, che produrrebbe consensi stratosferici al
presidente, non dovrebbe essere semplice.
A meno che proprio lui
non dovesse spingere su un acceleratore pericoloso: l’islamismofobia che circola nello
staff Trump. Ne ricorda qualche esempio un editorialista del quotidiano liberal
Hürriyet: sia il responsabile della
Sicurezza Michael Flynn, sia il direttore della Cia Pompeo vedono nell’Islam un
demone assoluto da combattere, il primo trasformando l’irrazionalità in disegno
razionale e praticabile, il secondo cercando capri espiatori, meglio se
organizzati come nazione con cui si hanno conti in sospeso: l’Iran. E non sono
i soli. Il nuovo Segretario di Stato Rex Tillerson è conosciuto come un anti
musulmano di vecchia data, che parla di colpire il Daesh e Qaeda, ed Hezbollah
e la Fratellanza Musulmana, senza distinguo né soluzione di continuità. Con questi
uomini e la campagna d’intenti manifestata dall’ousider diventato primo
cittadino d’America l’intento potrebbe risultare un ottimo argomento per sfrattare
l’imam dal suo rifugio. Ma ovviamente non finirebbe lì. S’innescherebbe non
solo un processo che riguarda un pezzo della comunità statunitense, ne verrebbe
coinvolto lo stesso progetto islamista del presidente turco. Così il piano
d’estradizione di colui che Erdoğan presenta come il maleficio del Paese difficilmente
potrà avverarsi. Seppure col ciclone Trump l’impensabile può diventare reale e
il presidente-sultano sia un politico cui piacciono i grandi rischi.
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