Un secolo è trascorso dalla Prima Guerra Mondiale, quella che alcuni definiscono la Grande Guerra e ancora pochi qualificano come dovrebbe: il grande massacro dei popoli europei.
contropiano.org Sergio Cararo
Per il grande storico
Eric Hobsbawn è stata l'inizio del Secolo Breve. Per noi è stata la fine
della Belle Epoqe, cioè della prima grande globalizzazione capitalista
del pianeta che si concluse proprio con la guerra mondiale del 1914-18.
Di questo si discuterà
domenica prossima a Roma nella conferenza organizzata dalla Rete dei
Comunisti alla quale relazioneranno storici di valore come Giuseppe
Aragno e Giorgio Gattei e Mauro Casadio, militante della Rete dei
Comunisti e coautore di “Clash. Scontro tra potenze”, un libro scritto
dieci anni fa insieme a James Petras e Luciano Vasapollo e che ha
anticipato di molto gli scenari che abbiamo oggi sotto gli occhi.
Eppure, anche alla luce
della retorica che imperversa in Europa, è difficile guardare alla
Prima Guera Mondiale solo come passato, come fatto storico. La realtà di
oggi ci consegna innumerevoli segnali che confermano che, se è vero che
la storia non si ripete, “a volte fa rima”, come scrisse Mark Twain.
La prima guerra
mondiale in Europa, fu scatenata quasi per sbaglio da imperi e potenze
riluttanti a scannarsi fra loro. Avrebbero preferito che si combattesse
solo nelle colonie, lontano dai confini o dalle città europee ma la
pallina sul piano inclinato prese la corsa e non si fermò più fino a
quando non cominciarono le cannonate sui confini europei.
Eppure il XX Secolo era
cominciato alla grande per le maggiori potenze imperialiste dell'epoca.
Tutte insieme (praticamente le stesse che compongono oggi il G8 escluso
il Canada) mandarono i loro soldati a reprimere la rivolta dei Boxer in
Cina nel 1900. Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Russia,
Italia, Giappone si spartirono le spoglie della Cina alle prese con il
declino dell'impero. Porti, concessioni commerciali, ferrovie, terre
arricchirono il bottino dei grandi gruppi capitalisti europei e
statunitensi che vivevano con euforia la fase di sviluppo imperialista.
Il mercati mondiali erano a loro completa disposizione attraverso le
colonie, i protettorati, le "concessioni per 99 anni" di snodi
commerciali e geografici strategici.
Tra la fine
dell'Ottocento e i primi del Novecento la corsa alle colonie era stata
impetuosa. Oltre all'espansione delle colonie di Francia e Gran Bretagna
in Africa e Asia, perfino un piccolo paese come il Belgio si era
pappato come colonia un gigantesco paese africano ricco di miniere come
il Congo. La Spagna aveva messo le mani sul Marocco spartendoselo con la
Francia. E l'Italietta si era fatta avanti nel Corno d'Africa e poi in
Libia prendendosi le colonie che alimentarono la mistificazione
dell'Impero. In Asia i britannici spodestavano definitivamente gli
olandesi mentre la Russia zarista e il Giappone potenza emergente, già
nel 1905 si scannarono per prendersi la Corea. Ma in Africa i britannici
prima si erano presi le terre sudafricane dei coloni olandesi (i Boeri)
e poi avevano cominciato a contrastare l'invadenza delle colonie
tedesche. Il Kaiser la vedeva lunga e nella famosa ferrovia che doveva
portare da Bagdad all'Arabia Saudita, l'imperialismo tedesco si
proiettava in Medio Oriente attraverso quello che - all'epoca – era
l'indicatore dello sviluppo capitalistico: i chilometri di ferrovie.
La Belle Epoqe vedeva
le borse crescere, i profitti aumentare e il capitale finanziario
prendere solidamente nelle proprie mani il controllo su quello legato
all'industria e all'agricoltura. Le colonie fornivano materie prime a
prezzi stracciati e, ospitando gli investimenti occidentali,
consentivano a loro volta una valorizzazione dei capitali investiti con
ritorni stellari.
Ma la Belle Epoqe della
prima globalizzazione capitalista del mondo, ad un certo punto è
finita, ha dovuto fare i conti con la crisi e il crollo della
valorizzazione dei capitali investiti, e il piano inclinato che ha
portato alla guerra ha visto la pallina cominciare a muoversi, prima
lentamente poi più velocemente.
Come è noto le maggiori
potenze imperialiste non volevano combattersi apertamente. Nella
peggiore delle ipotesi concordavano nello spartirsi le spoglie del
declinante impero ottomano in Medio Oriente o nel ridefinire i confini
sulle loro colonie africane. Le loro economie erano integrate. I magnati
francesi, tedeschi, inglesi, austriaci e russi commerciavano,
collaboravano o competevano dentro il “libero mercato”. Le dinastie che
reggevano monarchie e imperi europei erano imparentate tra loro. Si
incontravano ai matrimoni e agli anniversari e bevevano gli stessi
champagne. L'accaparramento delle colonie e delle risorse avrebbe dovuto
bastare a soddisfare gli appetiti di tutti. Ma gli avvenimenti presero
una piega che nessuno voleva.
L'attentato di Sarajevo
da parte di un indipendentista serbo – Gavrilo Princip - contro il
Granduca d'Austria Ferdinando non aveva di per sé la forza di un casus
belli adeguato a scatenare una grande guerra totale. Eppure la rottura
era lì a un passo.
Le false e vere notizie
sulle mobilitazioni di truppe sui confini europei dell'est e dell'ovest
innescavano contromisure e contromanovre reciproche. I ministri furono
via via sostituiti dai “tecnici” (in questo caso i militari). Le
previsioni su costi e benefici passarono dalla lunghezza delle ferrovie o
degli investimenti a quelli bellici. Le alleanze tra le varie potenze
cambiavano di geometria. L'Italia stava con Austria e Germania ma nel
1915 entrò in guerra insieme a Francia e Gran Bretagna contro i suoi ex
alleati. In un certo senso ebbe una grande responsabilità nello scoppio
della guerra a causa dell'invasione della Libia nel 1911 a danno
dell'impero ottomano. L'avventurismo e le scommesse sulle mancate o
parziali reazioni a questa o quella provocazione – come l'invasione
della Serbia da parte dell'Austria o l'invasione della Libia tre anni
prima– alzarono la soglia della tensione e dei fatti compiuti dai quali
diventava poi difficile recedere senza perdere faccia e prestigio. La
posizione più difficile era quella dell'imperialismo maggiore ma avviato
al declino: la Gran Bretagna.
La guerra che nessuno
voleva fare cominciò ufficialmente nel 1914 e si concluse – di fatto –
nel 1945. Il capitalismo arrivato alla sua fase suprema, l'imperialismo,
non aveva trovato altra soluzione alla sua crisi iniziata con la fine
della globalizzazione della Belle Epoqe ed esplosa con la Grande Crisi
degli anni Trenta. Fu un evento scatenante della storia che ne innescò
un altro, per noi di estrema importanza, la Rivoluzione d'Ottobre e la
nascita del primo stato socialista del mondo. Ma i dirigenti che resero
possibile il socialismo non commisero affatto l'errore di schierarsi con
l'una o l'altra potenza in campo, anzi dichiararono apertamente “guerra
alla guerra” denunciandone il carattere imperialista e la natura di
grande massacro dei popoli.
Fin qui la storia. Ma
questo scenario del passato è già domani. Gli apprendisti stregoni
dell'imperialismo - statunitense ed europeo soprattutto - hanno
nuovamente inclinato il piano già nei primissimi anni di questo XXI
Secolo. Lo scenario di guerre, instabilità, provocazioni, escalation che
dall'Ucraina al Medio Oriente all'Africa circonda l'Europa, è
strettamente connesso alla crisi, alla fine della seconda
globalizzazione capitalista del pianeta e alla ripresa della
competizione globale tra poli imperialisti e nuove potenze capitaliste,
declinanti o emergenti che siano. L'epoca delle facili guerre
asimmetriche contro Stati immensamente più deboli sta finendo. Prima se
ne prende coscienza, si avvia la mobilitazione per fermare la tendenza
alla guerra e si mettono in campo alternative, meglio è.
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