martedì 30 settembre 2014

La deflazione dei diritti e la rottamazione del dizionario politico.

Facciamo un gioco: se la deflazione – come dicono i manuali di economia – è quella fase di contrazione o di stagnazione o di sviluppo nettamente inferiore al normale, della produzione e del reddito, allora oggi (ma in progressione crescente a partire dai primi anni ’80 del ‘900) siamo in piena deflazione politica, civile e sociale. I diritti sociali si contraggono in nome della competitività; la democrazia ristagna sotto il mantra delle larghe intese e della coesione nazionale e del ‘lo impongono i mercati’; i diritti politici e civili sono progressivamente compromessi.



di Lelio Demichelis
Deflazione. E non recessione. Perché la deflazione – rispetto alla recessione – viene determinata anche dai comportamenti della politica, che appunto producono (consapevolmente o per la reiterazione di un errore) un arresto dello sviluppo. E se questa fase di crisi economica in Europa è l’effetto delle politiche di austerità di questi ultimi anni – politiche lapalissianamente surreali ma in realtà adottate e perseguite con ostinazione in nome della prosecuzione con altri mezzi di quell’ideologia neoliberista che ha portato il mondo (e soprattutto l’Europa) allo sfascio ma che resta saldamente al potere – ebbene era evidente da subito che questa fase sarebbe stata anche l’occasione ulteriore (un’occasione ghiotta, da non perdere) per accentuare ancora di più lo smantellamento dello stato sociale nato nel secondo dopoguerra e per de-democratizzare il capitalismo (ovvero per far regredire il sistema rispetto alla sua fase di democratizzazione avvenuta in quelli che si definiscono come i gloriosi trent’anni).

Dunque, la deflazione economica è un prodotto di quelle politiche neoliberiste che non tollerano la democrazia, come lo è la deflazione in termini di diritti – soprattutto sociali ma non solo. Ciò che non erano riusciti a realizzare ancora completamente i dannati trent’anni di neoliberismo (con la presa del potere dei Chicago-boys e dei loro emuli infantili, dilagati come uno tsunami ideologico dal Cile di Pinochet per l’intero globo globalizzato), lo si sta compiendo oggi. Oggi siamo nella più grave crisi (peggiore persino di quella del 1929) dell’economia capitalista, ma la crisi è oggi soprattutto crisi della democrazia e della libertà. Dei diritti. Una crisi non causale, appunto. Ma deliberata. Che conferma l’egemonia e il dominio del capitalismo.

Fine del gioco con la parola deflazione.

Nei giorni scorsi, a New York, quando un gruppo di giovani ha manifestato sotto Wall Street in nome dell’ambiente e contro il cambiamento climatico e la finanza irresponsabile, la polizia non è entrata in forze (come sarebbe stato giusto in termini di democrazia e di stato di diritto e come avrebbe dovuto fare da tempo) dentro la Borsa arrestando i presenti per la reiterazione continuata del reato di speculazione finanziaria, di danneggiamento ambientale e di finanza ombra (arrestando magari anche i referenti politici che tale reiterazione del reato permettono), ma ha arrestato un centinaio di studenti che protestavano contro il connubio banche-petrolieri.

E in Italia, l’articolo 18. Qui il rottamatore Renzi sta appunto rottamando ciò che considera vecchio e lo fa manipolando abilmente il dizionario della politica e quel particolare dizionario politico che è il dizionario della democrazia.

Partiamo dalla contrapposizione tra innovatori e conservatori. Chi è conservatore e chi è innovatore? E’ conservatore chi tutela i diritti e innovatore chi li vuole cancellare? Questo dice il nuovo dizionario politico.

Renzi si propone infatti come innovatore e rottamatore del vecchio, producendo un pericoloso sillogismo: i diritti sociali, civili e politici, per come sono stati (parzialmente, faticosamente ma in modo comunque crescente) realizzati partendo da ciò che programmaticamente ma anche prescrittivamente era stabilito in Costituzione, apparterrebbero al passato, chi li difende è un conservatore, è un vecchio da rottamare; oggi le cose sono cambiate, si dice – ma senza porsi la domanda su chi le ha cambiate e perché: come se questo mutamento del sistema fosse un dato di fatto inscritto nell’ordine naturale delle cose (lo credevano solo i neoliberisti ma lo hanno fatto credere vero anche alla sinistra), secondo un determinismo evoluzionistico del capitalismo e dei suoi spiriti animali –, dunque bisogna adattarsi al cambiamento prodottosi (ma ancora: da chi? perché?).

Innovazione contro conservazione: oggi innovare significa ridurre i diritti e bypassare la vecchia democrazia parlamentare in nome del populismo tecnocratico e mediatico e delle magnifiche sorti e progressive (sempre e comunque) del mercato e della flessibilità. Come se i diritti potessero essere flessibili anch’essi, pochi all’inizio quando si inizia a lavorare, poi crescenti se si è obbedienti e disciplinati. Renzi non si rende conto (in verità se ne rende conto benissimo essendo neoliberista per natura e ideologia) che in questo modo è lui (e il suo Pd) ad essere conservatore, se non reazionario (come è reazionario il neoliberismo) facendo appunto regredire il lavoro e la democrazia sociale ed economica ai tempi della fabbrica-caserma di Agnelli e Valletta (oggi è una caserma flessibile, tutti precarizzati e flessibili ma tutti inquadrati nell’esercito di un lavoro che sempre caserma è). In realtà, l’innovatore – il vero innovatore - dice che i diritti sono tali se sono uguali per tutti, se sono crescenti, se sono de facto e non solo de jure. Se sono a modulazione diversa, allora (come ha scritto Michele Ainis) non lo sono per nessuno.

Seconda rottamazione, di un’altra voce del dizionario della politica: il concetto di ideologia. Ancora una volta, si vuole rovesciare il senso delle parole (tratto tipico di ogni sistema ideologico). E il rovesciamento più surreale è stato forse quello prodotto da Maurizio Ferrera sul Corriere della sera del 21 settembre. Che accusa il sindacato – sempre a proposito della riforma dell’articolo 18 contenuta nel Jobs Act – di avere avuto un “riflesso quasi automatico, il semaforo ideologico della vecchia sinistra avendo subito acceso la luce rossa”. E lancia una iperbolica difesa del Jobs Act e della sua “sequenza virtuosa”, ovvero: “con un sistema di regole più semplici e flessibili, le imprese assumeranno di più, e con contratti molto più stabili di quelli attuali. Le tutele saranno estese e rafforzate, ma in forme compatibili con la flessibilità, anche in uscita (…). Se la sequenza si attiva, la riforma contribuirà a risolvere il problema economico-sociale più drammatico che il nostro Paese si trova ad affrontare dopo la ricostruzione post-bellica e la crisi degli anni Settanta”. Certo, il Jobs Act, scrive Ferrera, è lungi dall’essere perfetto. Ma il governo vada avanti per la sua strada, perché “il semaforo che conta è quello delle buone soluzioni ai problemi reali e non quello delle vecchie sirene ideologiche”.

In realtà ad essere ideologico e a fare un discorso ideologico – quello del neoliberismo, della flessibilizzazione dei diritti, dell’attacco continuato allo stato sociale, quello della de-democratizzazione del sistema – sembra essere proprio Ferrera (e Renzi), tutto dentro all’ideologia neoliberista. Un discorso che riscrive il dizionario e che non si cura neppure di essere smentito dalla stessa Ocse, che ha corretto il suo errore e ha riconosciuto che il mercato del lavoro in Italia è meno rigido che in Germania, che i vincoli che le imprese hanno in Italia per i contratti a tempo determinato sono in linea con la media della stessa Ocse, che la flessibilità in Italia è ormai allineata a quella degli altri paesi – e che l’unica differenza è semmai la durata dei processi del lavoro.

E allora: ideologia neoliberista, ancora e sempre, anche se viene contraddetta dalla realtà. Perché in verità l’articolo 18 – e non l’evasione fiscale, non gli F35 – è la posta in gioco di una ben più importante trasformazione antropologica richiesta dall’ideologia neoliberista per l’ulteriore trasformazione (definitiva?) del cittadino soggetto di diritti in puro homo oecomicus (che non deve avere diritti).

Il cui unico dovere è appunto quello di adattarsi – e di farlo in modi sempre più flessibili – ai mutamenti imposti dal mercato e dalla tecnologia.

Un perfetto homo oeconomicus: e che non provi più a contestare la intrinseca e assoluta e meravigliosa razionalità, modernità e innovatività del capitalismo, magari in nome di quella cosa vecchia e superata che sono i diritti uguali per tutti.

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