Illusorie, vane e inconsistenti le attese di un'implosione, con scissioni e ricomposizioni irreali a sinistra: nulla di tutto ciò è all'orizzonte della direzione del Pd, nonostante divergenze, distinguo e contrasti sul destino di un articolo, il 18, sulla giusta causa, parte integrante di una legge, la 300/70, recante norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento, detta Statuto dei lavoratori.
Neanche la querelle sui poteri forti sollevata da Ferruccio De Bortoli con l'odore della massoneria che avvolgerebbe il premier, Matteo Renzi, è un buon valido argomento per poter giustificare l'implosione ad horas: semmai è l'indizio della guerra guerreggiata tra bande o sette degli stessi poteri forti, sui quali vigila l'onnipresente Vaticano, ora in versione gesuita.
Siamo, forse, al secondo tempo del derby del novembre 2011 quando, uscito dal cilindro magico di Giorgio Napolitano, il senatore a vita Mario Monti salì a Palazzo Chigi con uno stuolo di tecnici, mettendo Silvio Berlusconi alla porta e relegando Pd e Pdl al ruolo di semplici donatori di sangue, mentre Mario Draghi andava a dirigere il pilota automatico a Bruxelles: fu un coro di osanna e lodi per Monti, il riformista salvatore della Patria, da De Bortoli a Eugenio Scalfari. Invece Le Monde, titolava: cos'hanno in comune Mario Monti, Mario Draghi e Lucas Papademos? [subentrato in Grecia a George Papandreu] Che appartengono a vari livelli al gouvernement Sachs, la potentissima banca d'affari americana che ha intessuto in Europa una rete d'influenza unica e persino ridotto la Federal Reserve diNew York, a sua succube come rivelato da Carmen Segarra. Finita poi la parabola non certamente splendida né decorosa di Monti, il coro di osanna e lodi si è ripetuto per il compassato Enrico Letta, in attesa dell'enfant prodige, il boyscout Renzi.
Basterebbe rileggersi le cronache sull'art.18 e lo Statuto al tempo di Berlusconi, di Monti, per Letta non ce ne è stato il tempo, e oggi di Renzi per scoprire che il disegno culturale e politico, a parte i toni più o meno virulenti, è lo stesso: le tutele conquistate negli anni '70 d'innegabile impronta socialista e riformista, sin dai nomi che idearono e costruirono una legge di civiltà, Giuseppe Di Vittorio, Riccardo Lombardi, Giacomo Brodilini, Gino Giugni, andavano e vanno soppresse non perché hanno impedito e impediscono l'occupazione, ma per un fatto culturale e politico: parole come libertà, uguaglianza, dignità, emancipazione, conflitto, non hanno diritto di cittadinanza, non vanno neanche pronunciate onde non turbare lo status quo né disturbare il manovratore.
Strada senza uscita? No, assolutamente. Perché anche quando tutto sembra perduto, bisogna con pazienza e pervicacia rimettersi al lavoro e ricominciare daccapo, sosteneva Antonio Gramsci che mai fu catto-comunista né mai pensò, nonostante gli strafalcioni tramandati da Togliatti, che il cambiamento passasse per l'alleanza di ferro tra le due ideologie, comunismo e cattolicesimo, che si unirono per affossare ogni anelito e speranza di rivoluzione liberale, come accade oggi al di là degli strali isterici di De Bortoli e Scalfari.
Per adesso, a sinistra, non s'intravvede un disegno culturale e politico alternativo al consociativismo, la prassi congenita al catto-comunismo o, se si vuole, al compromesso storico: un ottimo inizio sta o starebbe nel raccontare la storia, specie da parte di quanti hanno vissuto la Cgil e il vecchio Pci, per quello che è stata e non piegarla ignobilmente ai propri fini.
Si scoprirebbe che il focoso Giancarlo Pajetta, migliorista come Napolitano, spiegò in Parlamento l'astensione del Pci sulla legge 300 in quanto mancava: 1) la risoluzione dei licenziamenti collettivi; 2) la sanzione contro gli industriali in caso di serrata; 3) la possibilità di esercitare i diritti politici nelle aziende.
E, checché ne dica Scalfari su Repubblica, il governo cui va il merito della legge non rientrava per niente nell'accordo tra Aldo Moro e Enrico Berliguer ma era guidato da Mario Rumor e il Ministro del Lavoro che presentò la legge, fortemente voluta da Brodolini e redatta da Giugni, era Carlo Donat Cattin.
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