“La differenza la possono fare le domande non tanto quello che il teste crede di sapere”.
Questo il commento ufficiale di Giorgio Napolitano, affidato a un comunicato del Quirinale: "Prendo atto dell'odierna ordinanza della Corte d'Assise di Palermo. Non ho alcuna difficoltà a rendere al più presto testimonianza - secondo modalità da definire - sulle circostanze oggetto del capitolo di prova ammesso".Non era mai successo nella storia della Repubblica che il Capo dello Stato fosse sentito come teste in un processo di mafia nel pieno del suo incarico e nonostante tutti filtri previsti dalla carica.
Il presidente Montalto non è in grado di comunicare ancora la data. Manca una norma specifica che regola tempi e modi della deposizione del capo dello Stato. La Corte quindi applicherà l'articolo 502 del codice di procedura penale che regola l'esame a domicilio del teste che non può comparire in udienza. Napolitano sarà sentito al Quirinale (a domicilio) e a porte chiuse. Non potranno essere presenti né il pubblico né gli imputati. È fatta salva, almeno, la discrezione di evitare che chiunque, anche un sanguinario come Totò Riina, possa sentire e vedere il presidente della Repubblica interrogato su cose di mafia. Saranno presenti tutti gli altri: giudici popolari, avvocati, pm.
Durante la lettura dell’ordinanza nell’aula bunker dell’Ucciardone, dove nella seconda metà degli anni 80 fu istruito e celebrato per oltre due anni il primo maxi processo a Cosa Nostra, nessuno ha fiatato. Quella di Montalto, come il presidente della Corte ben sa, è una decisione che potrebbe cambiare il corso della legislatura. E segnare un momento importante nella storia del Paese. Nel biennio della presunta Trattativa - l’accusa è convinta che lo Stato abbia concesso a Cosa Nostra alcuni benefici, tra cui un alleggerimento del regime carcerario più rigido noto come 41 bis - Napolitano era presidente della Camera. E infatti l’aggancio per sentirlo non nasce dai suoi incarichi dell’epoca bensì per qualcosa che potrebbe aver saputo dopo, quando era già Capo dello Stato e il suo consulente giuridico era il magistrato Loris D’Ambrosio. Che invece, era stato gomito a gomito con Giovanni Falcone al Ministero e poi dopo alla Procura nazionale Antimafia.
Nella primavera 2012, quando già a Palermo soffiava l’ipotesi che Mancino (teste nel processo Mori) potesse diventare imputato nel processo sulla Trattativa Stato-mafia, D’Ambrosio era stato sentito a Palermo come teste circa alcune sue telefonate con Mancino in cui dava spago all’insofferenza dell’ex presidente del Senato circa le inchieste palermitane. Erano tutti intercettati. Anche Napolitano. Non lo sapevano. Durante l’estate poi scoppiò il caso delle intercettazioni. D’Ambrosio morì a luglio, stroncato da un infarto. A giugno aveva scritto a Napolitano per dimettersi esprimendo timore “di essere stato considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi, e ciò nel periodo fra il 1989 e il 1993”.
I pm palermitani hanno preteso e voluto in ogni modo sentire il Presidente della Repubblica per sapere di più circa “gli indicibili accordi”. La Corte d’Assise aveva già ammesso una prima volta (giugno 2013) la testimonianza di Napolitano insieme a quelle del presidente del Senato Piero Grasso, il segretario generale del Quirinale Donato Marra, l’ex procuratore generale Esposito. Il vertice della Repubblica sul banco dei testimoni nel processo sulla presunta trattativa. Che però, dopo oltre un anno di dibattimento, non è che assuma tutta questa forza probatoria. Il 31 ottobre scorso, Napolitano aveva scritto nuovamente al presidente Montalto ribadendo la sua disponibilità a testimoniare, ma insisteva nel dire di “non avere nulla da dire sui temi del processo”. Posto che tutto il resto appartiene alla sfera assolutamente riservata della funzione che non può essere mai disponibile per nessun altro potere dello Stato. Alcuni avvocati avevano accolto la richiesta. La Procura si era nuovamente opposta.
In questa dialettica che è una continua negazione della negazione, si arriva quindi alla deposizione di Giorgio Napolitano nel processo sulla Trattativa. Lasciando l’aula bunker il pm Nino Di Matteo appare soddisfatto. “Prendiamo atto della decisione” ha detto. “Noi avevamo già illustrato i motivi per i quali ritenevamo pertinente e rilevante la testimonianza del Capo dello Stato, la Corte d'Assise aveva già ammesso la prova e oggi ha rigettato l'istanza di alcuni difensori di revocare l'ordinanza ammissiva sulla base di una lettera che il Capo dello Stato aveva inviato alla Corte”. Parole che lasciano intendere che dal punto di vista della Procura sarebbe stato molto grave il contrario.
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