Bene
che si discuta dell’introduzione di un salario minimo. Anche perché con
la crisi è aumentato il numero di lavoratori al di sotto della soglia
di povertà. Ma il testo dell’emendamento del governo è troppo ambiguo.
La misura deve essere applicata a tutti i lavoratori. Vediamo come.
di Tito Boeri e Claudio Lucifora, lavoce.info
Cosa dice la delega
Nell’emendamento al
disegno di legge-delega sul lavoro in discussione al Senato, il governo
ha previsto l’introduzione, in via sperimentale, di un “compenso orario minimo”,
potenzialmente esteso anche al parasubordinato, ma limitato ai “settori
non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni
sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più
rappresentativi sul piano nazionale”. È bene che anche in Italia si
cerchi di tutelare i salari dei lavoratori più svantaggiati, non coperti
dalle maglie sempre più larghe dei contratti collettivi nazionali. Ma
il testo dell’emendamento è ambiguo perché mina alla base l’efficacia del salario minimo,
una soglia al di sotto della quale nessuna retribuzione oraria deve
scendere, che deve valere ovunque, indipendentemente dalla presenza o
meno di contratti collettivi.
La crisi e la mancanza dei minimi
La
crisi ha messo in evidenza come siano stati i lavoratori meno
qualificati e meno istruiti – e anche meno pagati – a sopportare gran
parte dell’aggiustamento delle retribuzioni (verso il basso) che
solitamente si manifesta durante le fasi di ciclo economico negativo. La
figura 1 mostra come, tra il 2007 e il 2011, il 10 per cento di
lavoratori con le retribuzioni più basse abbia subito le maggiori decurtazioni del proprio salario, per effetto soprattutto dei mancati rinnovi contrattuali e del calo delle ore lavorate.
Dall’inizio della crisi sono anche aumentate le diseguaglianze retributive
tra i lavoratori subordinati (l’indice di Gini è aumentato di oltre 2
punti percentuali) ed è cresciuto il numero di lavoratori che si trovano
in condizioni di povertà relativa, i cosiddetti “working poor”, che nel 2013 rappresentano quasi il 16 per cento del totale dei lavoratori dipendenti.
La regolazione dei salari
In
quasi tutti i paesi europei (da gennaio 2015 anche la Germania , quindi
solo sei paesi europei ne rimarranno privi) vige un salario minimo
legale, fissato cioè per legge e uguale per tutti (sono previsti minimi
più bassi, in alcuni casi, per i giovani e per gli apprendisti). In
tutti questi paesi, è bene ricordarlo, la presenza di un salario minimo
fissato per legge non impedisce il normale funzionamento del mercato del
lavoro e lo svolgimento della contrattazione collettiva al di sopra di
questi minimi.
Il salario minimo ha principalmente la funzione di proteggere le categorie di lavoratori più deboli
e meno rappresentate che si trovano a rischio di povertà relativa,
emarginazione e sfruttamento. In Italia, i sindacati si sono opposti
all’introduzione di un salario minimo, sostenendo
che i contratti collettivi nazionali fissano già dei minimi retributivi
e quindi il salario minimo sarebbe inutile. In realtà le cose sono ben
diverse. Primo, la copertura dei contratti collettivi non supera l’80 per cento dei lavoratori dipendenti
(dati ICTWSS). Una quota non piccola di quel 20 per cento di lavoratori
non coperto dai contratti collettivi è a rischio di basso salario e una
quota rilevante si trova in condizioni di working poverty. Secondo,
come documentato su questo sito,
la contrattazione collettiva è sempre meno in grado di tutelare i
lavoratori (subordinati) a rischio di basso salario. In Italia, circa il 13 per cento dei lavoratori
risulta avere un salario orario lordo inferiore al minimo contrattuale
rilevante per il settore di appartenenza, con punte superiori al 30 per
cento nelle costruzioni e in agricoltura. Terzo, le retribuzioni al di
sotto dei minimi contrattuali vengono sottostimate dalle statistiche
disponibili che non considerano i lavoratori con contratti
parasubordinati, gli autonomi (senza dipendenti) e gli irregolari
occupati nel sommerso.
Perché i sindacati non vogliono un salario minimo
La
vera ragione per cui i sindacati si oppongono all’introduzione di un
salario minimo è legata all’interpretazione giurisprudenziale
dell’articolo 36 della Costituzione, che utilizza (spesso, ma non
sempre) i minimi dei Ccnl quale riferimento per la determinazione della
giusta retribuzione, di fatto estendendo a tutti i lavoratori la
copertura dei contratti collettivi. Non siamo dei giuristi, ma
richiamandoci a quanto scritto su questo sito da Alessandro Bellavista,
riteniamo che non ci sono ragioni per cui la contrattazione collettiva e
la disciplina del salario minimo non possano coesistere. Mentre nel
quadro attuale la non attuazione dell’articolo 39 della Costituzione
obbliga il lavoratore a ricorrere al giudice per vedere riconosciuto il
diritto al giusto salario, in presenza di un compenso minimo legale i
lavoratori meno tutelati e a maggior rischio di bassi salari troveranno
nella legge una tutela immediata. Per tutti gli altri lavoratori, con
retribuzioni superiori al minimo, la giurisprudenza potrà continuare ad
utilizzare come riferimento per il giusto salario sia gli accordi
aziendali, sia i livelli salariali prevalenti sul mercato del lavoro.
Se si vuole davvero introdurre un salario minimo in Italia, ci sono tre nodi da sciogliere:
1) il livello a cui fissare il compenso minimo, 2) le modalità di
regolazione e aggiustamento nel tempo, e 3) la copertura e la vigilanza.
Il livello del salario minimo
Uno degli aspetti più critici dell’introduzione del compenso minimo riguarda il livello a cui fissarlo.
I numerosi studi empirici condotti sugli effetti economici del salario
minimo mostrano effetti non-negativi sull’occupazione (a volte anche
positivi), e invece positivi su salari e redditi (il lavoro di Wolfson e
Belman, 2014, di cui forniamo i riferimenti sotto, rende comparabili i
risultati della sterminata letteratura sugli effetti del salario
minimo). Gli studi sono anche concordi nel considerare problematico, per
l’occupazione, un salario minimo fissato a un livello troppo elevato
(soprattutto per quanto riguarda l’occupazione dei giovani e dei
lavoratori meno qualificati). In Europa, prendendo in considerazione
solo i paesi più simili e vicini all’Italia, il salario minimo (orario) è
attualmente fissato a: 4,48 euro in Spagna, circa 7,50 euro nel Regno
Unito (6,31 sterline) fino agli 8,5 euro della Germania (dal 2015) e i
9,35 euro della Francia (uno dei livelli più elevati in Europa e non a
caso probabilmente oggetto di revisione al ribasso da parte del Governo
Vals). Una politica prudente di salario minimo legale in Italia,
potrebbe essere quella di fissare un livello compreso tra il minimo
salariale spagnolo – che tuttavia coprirebbe solo il 2,5 per cento dei
lavoratori dipendenti italiani – e il livello di povertà salariale
relativa (convenzionalmente fissato a 2/3 del salario mediano), pari
oggi a circa 6,5 euro – che in questo caso coprirebbe circa il 10-11 per
cento dei lavoratori dipendenti. Livelli salariali maggiori, come
quelli della Germania o della Francia, interesserebbero una quota di
lavoratori pari al 30-40 per cento e avrebbero senza dubbio ricadute
negative sull’occupazione.
Modalità di regolazione e aggiustamento nel tempo
Le
modalità di fissazione e aggiustamento dei minimi salariali adottate
nei diversi paesi sono assai diverse. In alcuni casi, i minimi vengono
fissati dal governo sentite le parti sociali o su parere di un’autorità
indipendente. In altri casi, l’adeguamento viene fatto con riferimento
alla dinamica dei prezzi (e/o dei salari) dopo
deliberazione del governo oppure attraverso meccanismi di indicizzazione
automatica. Ancora una volta le esperienze degli altri paesi vengono in
aiuto e mostrano come la creazione di un’Autorità indipendente che
propone al governo il livello e gli adeguamenti del salario minimo sia
in grado di garantire un buon funzionamento. In primo luogo, perché
consentirebbe di monitorare gli effetti sul mercato del lavoro e di
adeguare l’efficacia nel tempo. In secondo luogo, perché la delega ad un
organo terzo consentirebbe di evitare un utilizzo elettorale dello
strumento. Autorità di questo tipo sono già presenti in molti paesi (ad
esempio la“Low Pay Commission”nel
Regno Unito) e hanno come compito quello di raccogliere ed elaborare
informazioni su occupazione, redditi e salari (ma anche prezzi, costi e
competitività delle imprese); condurre audizioni formali delle parti
sociali (consultando anche imprenditori e lavoratori); nonché effettuare
sopralluoghi sul territorio coinvolgendo nel processo anche numerosi
stakeholder. Questa è la strada suggerita anche nel disegno di legge Nerozzi depositato da tempo al Senato.
Coperture e vigilanza
La copertura del salario minimo dovrebbe riguardare tutti i lavoratori subordinati
(fatta eccezione per le categorie precedentemente discusse), per i
quali il contratto di lavoro prevede una retribuzione e un orario di
lavoro. Il salario minimo, per essere applicato, deve essere un numero
noto a tutti i dipendenti e a tutti i datori di lavoro. Anche per questo
l’emendamento del governo, che ne restringe l’applicazione ai settori
non coperti dai contratti collettivi, rischia di rendere il salario
minimo del tutto inefficace. Discutibile il tentativo di estendere la
copertura del salario minimo ai rapporti di collaborazione.
In principio è giusto tutelare questi lavoratori, ma la mancanza di un
orario di lavoro ben definito (se non indicativamente) nei rapporti di
collaborazione, allo stato attuale, rende il salario minimo orario
facilmente aggirabile (si veda Lucifora, 2009). Quindi, in questo caso,
ci vorrebbero semmai minimi retributivi mensili, al di sotto dei quali i
contratti vengono trasformati in contratti alle dipendenze, come
previsto dal Ddl Nerozzi. In ultimo, anche se può sembrare banale, sarebbe molto importante garantire un corretto enforcement nell’applicazione
del salario minimo legale presso le imprese, sia attraverso una
vigilanza capillare, sia mediante l’erogazione di sanzioni in caso di
mancata osservanza. Altrimenti, l’efficacia del salario minimo sarebbe
assai dubbia.
Wolfson, Paul and Dale Belman, (2014) “What Does
the Minimum Wage Do?” , Kalamazoo, MI: Upjohn Institute for Employment
Research.
Lucifora, C. (2009) “Una commissione bassi
salari e un salario minimo per l’Italia? Valutazioni e proposte” in C.
Dell’Aringa e T. Treu, Le riforme che mancano, collana AREL, Il Mulino
Nessun commento:
Posta un commento