Il Presidente eletto della prossima Commissione Europa, Juncker, ha annunciato un ambizioso piano di intervento da 300 miliardi di euro in tre anni per rafforzare la competitività dell’Unione e stimolare gli investimenti per lavoro, crescita, occupazione. Un progetto importante, del quale si conosceranno le linee guida nei primi tre mesi del governo Juncker, e che sarà realizzato attraverso la Bei, Banca Europea degli Investimenti, e probabilmente con il Meccanismo Europeo di Stabilità.
Il piano Juncker andrà ad aggiungere risorse a quelle già previste dagli strumenti classici, quali i fondi strutturali nelle loro diverse coniugazioni. La misura, quindi, dovrebbe avere un effetto concreto e d’immediato impulso per quelle aree in sofferenza economica e sociale come il Sud di Italia.
Il problema però nasce quando ci si sofferma a riflettere sul come i nostri amministratori potrebbero gestire i fondi, qualora, malauguratamente, essi dovessero essere affidati all’amministrazione e al management nazionali. La speranza è che il meccanismo preveda invece una coordinazione centralizzata della Commissione con la Bei e con gli altri organi preposti.
Perché è desolante leggere che dei 28 miliardi di euro stanziati da Bruxelles per l’Italia, per il periodo 2007-2013 per la realizzazione degli obiettivi di occupazione, competitività ed eliminazione del divario sociale, sono stati spesi appena la metà, e che quindi 14 miliardi e 390 milioni di euro non sono stati finora neanche impegnati dalle autorità italiane competenti.
Se tali fondi, pari a circa l’1% del PIL italiano del 2013, non saranno utilizzati entro il 31 dicembre 2015, l’Unione Europea non sarà più vincolata ad erogarli per il periodo 2014-2020 e potrebbe in ogni caso rivedere le stime delle somme necessarie all’Italia per le manovre strutturali fondamentali quali appunto investimenti, occupazione, infrastrutture e altro. Lo rivela uno studio Eurispes, che ha comunicato i risultati allarmanti sull’impiego dei fondi nel nostro Paese.
L’Italia, quindi, fa fatica a spendere i fondi europei mentre il paese langue e il Sud della penisola arranca in uno stato economico e sociale pauroso. Le regioni meridionali, alle quali sono destinate la maggior parte di quei fondi, non hanno saputo spenderli, semplice, chiaro e netto.
Del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (Fesr), è stato utilizzato soltanto il 42,78%; del Fondo Sociale Europeo (Fse) soltanto il 59,53%. Eppure le necessità erano tante, impellenti, urgenti, sotto gli occhi di politici, amministratori di ogni livello e appartenenza politica.
Un fatto che lascia allibiti, se si considera la fame di risorse che ha il Sud d’Italia e l’impellenza di riportare a galla intere città e regioni e farle uscire dalla strettoia della disoccupazione e del disagio sociale. La cattiva gestione italiana dei fondi europei era stata in realtà già segnalata nel 2012 dal Commissario alle politiche regionali Johannes Hahn.
Con questi fondi, al Sud si sarebbe potuta realizzare una rivoluzione economica copernicana. Università, centri di ricerca, ospedali, infrastrutture, iniziative produttive di ogni genere. A Taranto, si sarebbe potuto investire in nuovi settori alternativi alle monocolture dell’acciaio e del petrolio, oltre che nelle urgenze quali le strutture sanitarie importanti per la cura delle patologie generate dall’inquinamento industriale. Quando in un paese, in una regione, si incide sull’assetto strutturale profondo, si creano le condizioni per cambiare volto alla società. I fondi di coesione sociale e di sviluppo regionale europei erano e continuano ad essere un serbatoio ricchissimo al quale attingere, per far uscire dal cono d’ombra di una crisi profonda soprattutto gli italiani del Sud.
Ma lo stacco incredibile tra amministrazione che gestisce i progetti e operatori che potrebbero richiederne l’utilizzo condanna i cittadini e ipoteca il loro futuro. L’incapacità da parte della classe dirigente del Paese ad elaborare visioni e realizzare piani di ampio respiro rappresenta il fallimento di un intero sistema, in cui nepotismo e clientelismo sono diventanti strumenti attraverso i quali scegliere e formare i dirigenti e i politici che governano. Ci troviamo oggi con rappresentanti inetti, corrotti, impreparati, alla meglio confusi e con una classe formata alla scuola del compromesso e del laissez faire, responsabile di aver allargato il divario che esiste tra il Paese e altre realtà europee, tra il Paese ed il futuro.
A Taranto, con i 14 miliardi di fondi europei o anche con una parte di essi, se ci fosse stato un Sindaco o un Presidente di Regione talmente arditi da presentare progetti per quella somma inutilizzata e tuttavia disponibile, forse si sarebbe potuti uscire dall’eterno ricatto Ilva/no Ilva e scegliere delle alternative.
I fondi europei, coniugati con una visione politica nuova, rinnovata, diversa, potrebbero generare incredibili opportunità proprio nel Sud, trasformando Regioni come la Puglia, la Calabria, la Basilicata in laboratori economico-sociali a cielo aperto e liberando le stesse dalla schiavitù verso gruppi petroliferi e siderurgici che continueranno sempre ad avere vita facile, fino a quando costituiranno le uniche alternative per l’economia di regioni povere.
Parte dei fondi non spesi, alla luce della Risoluzione del Parlamento Europeo del 21 maggio 2013 sulle strategie regionali per le aree industriali in declino dell’Unione Europea, rappresenterebbero garanzia di attuazione del “piano di azione” per Taranto, che abbiamo illustrato al Presidente del Parlamento Europeo qualche settimana fa. Essi potrebbero costituire l’input di un cambiamento strategico generale, che darebbe sostegno al processo per la riconversione di un’area industriale in decadenza come quella di Taranto. Che questa spinta alla concretizzazione del piano venga direttamente dalle istituzioni europee, perché tra Taranto e l’Europa c’è purtroppo di mezzo la politica italiana, c’è di mezzo un Governo ed una Regione che sembrano non saper immaginare un futuro diverso per la città.
Abbiamo immaginato le alternative per far ripartire Taranto e con essa Brindisi, Reggio Calabria, Potenza, Cosenza, Messina, Caserta, Isernia.
Taranto, laboratorio perfetto, simbolo del fallimento della vecchia politica, simbolo di rinascita.
Taranto, ancora una volta, emblema della sfida che l’Europa dovrà affrontare su temi quali la coesione sociale, la lotta alla povertà e al degrado, la partecipazione democratica di tutte le regioni alla vita dell’Unione, il rilancio dell’occupazione e il rafforzamento del mercato interno.
Il Sud ha diritto ad un futuro nuovo. L’Europa può costituire il grimaldello per scardinare legami e vincoli retaggio del passato finalizzati a mantenere lo status quo.
Nessun commento:
Posta un commento