di Angelo D’Orsi, da la Stampa, 1 settembre 2014
Londra, 28 settembre 1864: la sala del St. Martin’s Hall, nel cuore di Londra, era affollata da duemila uomini e donne di umili condizioni, inglesi, ma anche tedeschi, francesi, spagnoli, russi, polacchi, italiani… Nessuno, quel giorno, sospettava che stava nascendo la prima organizzazione mondiale proletaria. Forse neppure Karl Marx, la testa pensante più celebre, autore (pur in collaborazione con Engels) del Manifesto del Partito comunista che a Londra aveva visto la luce nel 1848.
Una preziosa antologia, che il dinamico editore Donzelli manda ora in libreria, ci consente di ripercorrere la vicenda della Prima Internazionale, vissuta fino al 1876, quando le difficoltà organizzative, il contrasto con gli anarchici (e la nascita di una loro «Internazionale antiautoritaria»), oltre alle persecuzioni poliziesche, ne segnarono la fine. L’Associazione fu poi sostituita, nel 1889, dalla Seconda, naufragata nel 1914, nel fragoroso scoppio della Grande guerra, che vide i diversi partiti operai schierarsi con le rispettive classi dirigenti, facendo così crollare clamorosamente il mito dell’internazionalismo proletario. A firmare il lavoro è un esponente della giovane generazione di studiosi, Marcello Musto, uno dei tanti che il nostro bloccato sistema universitario costringe a rifugiarsi all’estero, esuli culturali che prendono il luogo degli esuli politici. Il libro si intitola con la frase stentorea che chiude il Manifesto: Lavoratori di tutto il mondo unitevi! (pp. 256, € 25).
Mentre la pionieristica opera di Gian Mario Bravo nel 1978 raccoglieva, accanto ai documenti ufficiali, tutta una serie di scritti collaterali, fornendo un panorama amplissimo (due volumi per un totale di 1300 pagine), il libro in questione si limita ai testi dell’Organizzazione, ed è diretto a un pubblico più ampio. Il curatore ne evidenzia il significato politico-culturale, in un momento storico in cui i diritti dei lavoratori vengono messi in discussione.
Accanto ai comunisti, nell’Internazionale, v’erano socialisti, sindacalisti, anarchici, mazziniani, repubblicani, eterogenea platea di militanti, ai quali da allora fu affibbiata l’etichetta, che voleva essere infamante, di «internazionalisti», sinonimo di sovversivi dell’ordine costituito. In realtà, le proteste nascevano dalle insostenibili condizioni in cui vivevano e lavoravano i proletari. Il ruolo dell’Associazione fu raccogliere fondi e convincere i lavoratori a rinunciare al crumiraggio ai danni degli scioperanti di un altro Paese. Era la traduzione concreta dell’internazionalismo proletario, sotto forma di solidarietà e di cooperazione. Ma anche nelle battaglie apparentemente sindacali il lievito impresso dall’organizzazione fu politico. È evidente il contributo di Marx, al quale si devono più di un terzo dei documenti raccolti, anche se la costruzione teorico-politica fu collettiva, e lo testimoniano i testi qui raccolti, in gran parte di operai. Era la prova del passaggio della classe operaia «in sé», ossia non ancora cosciente della propria forza, a classe «per sé», cioè matura, e pronta alla lotta per il potere, come intanto stava teorizzando Marx.
Era per esempio il francese Eugène Tartaret a perorare la riduzione dell’orario, ma rivendicando la nobiltà del lavoro, che «non dev’essere più un castigo, una schiavitù, un marchio di indegnità, deve essere un dovere imposto a tutti i cittadini». Lo scopo fondamentale della riduzione dell’orario è tuttavia quello di consentire al lavoratore di essere un cittadino istruito e cosciente, invece che «un paria, uno schiavo indifferente al progresso…».
L’Internazionale, pur tra gli scontri interni (che videro l’allontanamento di mazziniani, anarchici ecc.), svolse un ruolo fondamentale nel processo di maturazione dei proletari. Per esempio, rispetto al luddismo, la risposta distruttiva all’introduzione delle macchine in fabbrica, si scriveva: «L’uomo privato del suo pane […] aveva torto nel maledire il macchinario: il suo odio e la sua collera dovevano condurre a risultati più alti. La causa dei mali è l’anarchia sociale: la giustizia sociale sarà il loro rimedio». Era una ventata di utopia, ma nel contempo era un progetto sociale di alto respiro.
Le parole più lucide erano sempre quelle di Marx, il quale peraltro sapeva comportarsi da leader, indirizzando a Lincoln un messaggio di congratulazioni per la rielezione alla Casa Bianca, ma rimaneva un rivoluzionario conseguente, e invitava a diffidare di ogni accordo separato (un monito che pochi oggi sono disposti ad ascoltare) e ad affrontare questioni come salario e orario in termini generali, ossia politici, giacché tutto sempre «si riduce alla questione dei rapporti di forza delle parti in lotta». E, con sarcasmo, scriveva di un certo tipo di capitalista: «È così infatuato per la libertà dei suoi operai […] di lavorare in ogni ora della loro vita per lui, che, sempre e con sdegno, ha respinto ogni legge sulle fabbriche, in quanto recante pregiudizio alla suddetta libertà. Lo fa inorridire soltanto l’idea che un operaio comune sia tanto folle da aspirare a un destino più elevato di quello di arricchire il suo signore e padrone, il suo superiore naturale. Vuole […] che il suo operaio resti un misero schiavo». Di qua, la «folle furia» contro lo sciopero, considerato «una blasfemia, una rivolta di schiavi, l’indice di un cataclisma sociale».
I documenti degli internazionalisti affrontano ogni tematica di qualche rilevanza nella costruzione della società futura: l’idea che dovesse essere una società immediatamente senza Stato, secondo la tesi di Bakunin, venne lasciata cadere, grazie alla contrapposizione di Marx, che ironizzava con l’anarchico russo, e la sua battaglia contro «l’idea astratta di Stato». La tragica ed esaltante esperienza della Comune di Parigi fornì a Marx conferma che la rivoluzione aveva bisogno di uno Stato, diverso da quello borghese (abolizione dell’esercito e della polizia permanenti, eleggibilità e revocabilità dei pubblici funzionari ecc.), ma anch’esso deputato all’esercizio della forza, contro il nemico di classe, che infatti , spodestato, prese la sua sanguinosa rivincita. Ciò malgrado, con la Comune, l’Internazionale segnò la più prestigiosa vittoria ideale: «essa fu essenzialmente un governo della classe operaia, […] la forma politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l’emancipazione economica del lavoro». Era uno dei risultati storici dell’Internazionale dei lavoratori.
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