La
battaglia per il reddito minimo può costituire l’occasione per
aggregare forze, risvegliare energie, cementare un vasto fronte di lotta
attorno a un obiettivo.
Il Manifesto
Piero Bevilacqua
Come ha scritto Joseph Stiglitz «Nei ruggenti anni Novanta, la
crescita è aumentata a livelli per i quali di solito non basta una
intera generazione».
A questo salto avrebbe dovuto corrispondere un significativo accorciamento della giornata lavorativa, un’ampia redistribuzione del lavoro. Avviene il contrario. Ai primi anni del nuovo millennio operai e impiegati americani lavoravano in media due mesi in più all’anno dei loro corrispettivi europei.
Che cosa è accaduto? Il capitalismo americano non aveva più opposizione, l’antagonista storico, l’Urss era crollato, il neoliberismo aveva colonizzato l’intero Occidente, ed esso imponeva le proprie strategie con una libertà forse mai posseduta nella sua storia.Per giunta, la rivoluzione informatica riproduceva su scala assai più ampia il passaggio, realizzatosi in Inghilterra, dalla prima alla seconda rivoluzione industriale. Allora l’uso del carbone e dell’energia a vapore aveva liberato l’impresa dai vincoli territoriali che per tutto il ‘700 avevano costretto le fabbriche tessili a sorgere lungo i fiumi, fornendole una libertà di espansione senza precedenti.
Negli Usa comincia l’era, destinata a estendersi in tutti i paesi, in cui vengono definitivamente aboliti i limiti di spazio e tempo delle localizzazioni industriali. Nasce “il capitale-mondo”, in grado di porre il salario più misero del pianeta a standard di riferimento per trascinare verso il basso tutti gli altri. Si forma il più vasto “esercito di riserva” di forza-lavoro della storia. In Europa le residue resistenze sindacali impediscono l’allungamento dell’orario di lavoro, ma viene bloccato il processo di riduzione ed esplode la pratica del lavoro precario. Così a una capacità produttiva del capitale all’altezza del nuovo millennio corrisponde oggi una organizzazione della vita e della società che indietreggia verso l’800. Tutte le analisi di tendenza oggi mostrano come la crescita della produttività del lavoro per opera dell’ avanzamento tecnico-scientifico (intelligenza artificiale, robotica, ecc) ridurranno sempre più il ruolo del lavoro vivo, non solo nelle mansioni ripetitive, ma anche nei servizi e nelle professioni. Il capitale finanziario trova sempre meno ragioni per investire nelle attività produttive in una fase di rapida obsolescenza dei prodotti innovativi, di aspra competizione intercapitalistica, di sovraproduzione sistemica, di stagnazione tendenziale. Far scarseggiare il lavoro è una strategia del capitale: indebolisce i lavoratori e li mette in reciproca concorrenza, li costringe ad accettare qualsiasi occupazione, emargina il sindacato, pone sotto controllo la dinamica salariale. Mentre viene ristretta la capacità di investimento da parte del potere pubblico, l’impresa privata appare l’unico agente che crea occupazione, assumendo nella società un ruolo egemonico assoluto. La piena occupazione scompare dall’orizzonte del prossimo decennio.
Il reddito minimo di base è dunque necessario per svincolare le condizioni minime di esistenza degli esseri umani dalla violenza del mercato e dal lavoro, in una fase in cui questo è sempre più scarso, precario, destinato a diminuire.
Esso verrebbe a svolgere una funzione economica anticongiunturale rilevante. Accrescerebbe e renderebbe stabile la domanda interna in una fase in cui tende a diminuire.
Darebbe a tanti cittadini una base minima per intraprendere una qualche attività nella produzione di beni e nei servizi. Fornirebbe a tanti giovani la possibilità di proseguire gli studi e le ricerche avviate, spingerebbe tante delle nostre intelligenze emigrate all’estero e non stabilizzate, a rientrare in Italia.
Il reddito minimo riconsegnerebbe al potere pubblico il suo ruolo di redistributore di ricchezza e di ricompositore di un tessuto sociale comunitario. Oggi esso viene minacciato non solo dalla tendenza a trasferire i servizi pubblici, statali e locali, al capitale privato, ma anche dalla strategia di diminuzione della spesa per liberare le imprese da ogni peso fiscale. La tendenza estremistica del neoliberismo è la riduzione dello stato a mero controllore di regole e il dissolvimento della nazione come comunità nell’atomismo individualistico del mercato.
Rassegnarsi ad accettare che “non ci sono i soldi” significa guardare la realtà con gli occhi dell’avversario. I soldi per il reddito minimo ci sono. Essi sono incorporati nella ricchezza privata distribuita in maniera disuguale nella società italiana, nella rendita fondiaria, nelle fortune finanziarie depositate nelle banche e nei paradisi fiscali, nell’evasione, negli stipendi degli alti dirigenti e nelle loro pensioni, nel sistema fiscale non progressivo, nelle agevolazioni alle imprese, nelle grandi opere inutili, nelle ragnatele clientelari, centrali e regionali. Ci sono per gli armamenti e per le missioni militari. Il presidente della Repubblica ha detto che la «coperta è corta» per giustificare la spesa in armamenti, sottratta ai bisogni dei cittadini. Quella coperta dobbiamo strapparla alla guerra e tirarla dalla nostra parte, opporre le ragioni della vita a quelle della morte.
I soldi si ricavano anche da una generale riorganizzazione del sistema degli ammortizzatori sociali
La lotta per il reddito minimo può fare uscire dalla disperazione individuale milioni di persone, attrarle in una battaglia comune, dare un senso e una direzione al conflitto, grazie a una controparte visibile da battere, ridando credito alla politica come strumento razionale e collettivo di lotta alle ingiustizie.
Anche a sinistra c’è chi teme di creare un popolo di assistiti. Si può rispondere: sempre meglio per tutti una persona assistita che disperata. Ma in una società competitiva come l’attuale, bombardata da mille sollecitazioni consumistiche, chi si contenta del reddito minimo? Ma si può fare di più. In Italia abbiamo davanti un grandissimo progetto: riempire di vita e di attività economiche le aree interne della Penisola che si vanno spopolando, i territori dove per secoli le popolazioni hanno fondato la nostra civiltà. Per tale compito, che comporta la cura del territorio, la rivitalizzazione dell’agricoltura e della silvicultura, sono utilizzabili i fondi strutturali europei, così come per il restauro delle nostre città. Quanto lavoro volontario, ma anche iniziative di piccola impresa, potrebbe attrarre tale obiettivo tra i detentori di un reddito minimo?
La lotta per il reddito minimo può costituire l’occasione per aggregare nuove alleanze politiche nel paese, risvegliare energie, cementare un vasto fronte di lotta. Esistono le forze, sia nella società che in parlamento, spesso impegnate in battaglie infruttuose, che possono unirsi attorno a un obiettivo così rilevante. Si può coinvolgere il vasto mondo cattolico in una battaglia di civiltà.
Come può la Chiesa di papa Francesco, la moltitudine dei credenti, tollerare che la persona umana sia posta in condizioni umilianti dentro società grondanti ricchezza, sia ridotta a mero deposito di energia lavorativa, a materia prima scambiata nel mercato come una qualunque merce?
L’Italia può uscire dalla crisi, o per meglio dire dalla sua progressiva e certa rovina, solo con una radicale revisione dei trattati europei e un nuovo ciclo di investimenti. Oppure con una poderosa redistribuzione della ricchezza interna, capace di alimentare un vasto progetto di riconversione ecologica. Il reddito minimo non è la rivoluzione, ma può aprire questa strada. Hic Rhodus, hic salta!
A questo salto avrebbe dovuto corrispondere un significativo accorciamento della giornata lavorativa, un’ampia redistribuzione del lavoro. Avviene il contrario. Ai primi anni del nuovo millennio operai e impiegati americani lavoravano in media due mesi in più all’anno dei loro corrispettivi europei.
Che cosa è accaduto? Il capitalismo americano non aveva più opposizione, l’antagonista storico, l’Urss era crollato, il neoliberismo aveva colonizzato l’intero Occidente, ed esso imponeva le proprie strategie con una libertà forse mai posseduta nella sua storia.Per giunta, la rivoluzione informatica riproduceva su scala assai più ampia il passaggio, realizzatosi in Inghilterra, dalla prima alla seconda rivoluzione industriale. Allora l’uso del carbone e dell’energia a vapore aveva liberato l’impresa dai vincoli territoriali che per tutto il ‘700 avevano costretto le fabbriche tessili a sorgere lungo i fiumi, fornendole una libertà di espansione senza precedenti.
Negli Usa comincia l’era, destinata a estendersi in tutti i paesi, in cui vengono definitivamente aboliti i limiti di spazio e tempo delle localizzazioni industriali. Nasce “il capitale-mondo”, in grado di porre il salario più misero del pianeta a standard di riferimento per trascinare verso il basso tutti gli altri. Si forma il più vasto “esercito di riserva” di forza-lavoro della storia. In Europa le residue resistenze sindacali impediscono l’allungamento dell’orario di lavoro, ma viene bloccato il processo di riduzione ed esplode la pratica del lavoro precario. Così a una capacità produttiva del capitale all’altezza del nuovo millennio corrisponde oggi una organizzazione della vita e della società che indietreggia verso l’800. Tutte le analisi di tendenza oggi mostrano come la crescita della produttività del lavoro per opera dell’ avanzamento tecnico-scientifico (intelligenza artificiale, robotica, ecc) ridurranno sempre più il ruolo del lavoro vivo, non solo nelle mansioni ripetitive, ma anche nei servizi e nelle professioni. Il capitale finanziario trova sempre meno ragioni per investire nelle attività produttive in una fase di rapida obsolescenza dei prodotti innovativi, di aspra competizione intercapitalistica, di sovraproduzione sistemica, di stagnazione tendenziale. Far scarseggiare il lavoro è una strategia del capitale: indebolisce i lavoratori e li mette in reciproca concorrenza, li costringe ad accettare qualsiasi occupazione, emargina il sindacato, pone sotto controllo la dinamica salariale. Mentre viene ristretta la capacità di investimento da parte del potere pubblico, l’impresa privata appare l’unico agente che crea occupazione, assumendo nella società un ruolo egemonico assoluto. La piena occupazione scompare dall’orizzonte del prossimo decennio.
Il reddito minimo di base è dunque necessario per svincolare le condizioni minime di esistenza degli esseri umani dalla violenza del mercato e dal lavoro, in una fase in cui questo è sempre più scarso, precario, destinato a diminuire.
Esso verrebbe a svolgere una funzione economica anticongiunturale rilevante. Accrescerebbe e renderebbe stabile la domanda interna in una fase in cui tende a diminuire.
Darebbe a tanti cittadini una base minima per intraprendere una qualche attività nella produzione di beni e nei servizi. Fornirebbe a tanti giovani la possibilità di proseguire gli studi e le ricerche avviate, spingerebbe tante delle nostre intelligenze emigrate all’estero e non stabilizzate, a rientrare in Italia.
Il reddito minimo riconsegnerebbe al potere pubblico il suo ruolo di redistributore di ricchezza e di ricompositore di un tessuto sociale comunitario. Oggi esso viene minacciato non solo dalla tendenza a trasferire i servizi pubblici, statali e locali, al capitale privato, ma anche dalla strategia di diminuzione della spesa per liberare le imprese da ogni peso fiscale. La tendenza estremistica del neoliberismo è la riduzione dello stato a mero controllore di regole e il dissolvimento della nazione come comunità nell’atomismo individualistico del mercato.
Rassegnarsi ad accettare che “non ci sono i soldi” significa guardare la realtà con gli occhi dell’avversario. I soldi per il reddito minimo ci sono. Essi sono incorporati nella ricchezza privata distribuita in maniera disuguale nella società italiana, nella rendita fondiaria, nelle fortune finanziarie depositate nelle banche e nei paradisi fiscali, nell’evasione, negli stipendi degli alti dirigenti e nelle loro pensioni, nel sistema fiscale non progressivo, nelle agevolazioni alle imprese, nelle grandi opere inutili, nelle ragnatele clientelari, centrali e regionali. Ci sono per gli armamenti e per le missioni militari. Il presidente della Repubblica ha detto che la «coperta è corta» per giustificare la spesa in armamenti, sottratta ai bisogni dei cittadini. Quella coperta dobbiamo strapparla alla guerra e tirarla dalla nostra parte, opporre le ragioni della vita a quelle della morte.
I soldi si ricavano anche da una generale riorganizzazione del sistema degli ammortizzatori sociali
La lotta per il reddito minimo può fare uscire dalla disperazione individuale milioni di persone, attrarle in una battaglia comune, dare un senso e una direzione al conflitto, grazie a una controparte visibile da battere, ridando credito alla politica come strumento razionale e collettivo di lotta alle ingiustizie.
Anche a sinistra c’è chi teme di creare un popolo di assistiti. Si può rispondere: sempre meglio per tutti una persona assistita che disperata. Ma in una società competitiva come l’attuale, bombardata da mille sollecitazioni consumistiche, chi si contenta del reddito minimo? Ma si può fare di più. In Italia abbiamo davanti un grandissimo progetto: riempire di vita e di attività economiche le aree interne della Penisola che si vanno spopolando, i territori dove per secoli le popolazioni hanno fondato la nostra civiltà. Per tale compito, che comporta la cura del territorio, la rivitalizzazione dell’agricoltura e della silvicultura, sono utilizzabili i fondi strutturali europei, così come per il restauro delle nostre città. Quanto lavoro volontario, ma anche iniziative di piccola impresa, potrebbe attrarre tale obiettivo tra i detentori di un reddito minimo?
La lotta per il reddito minimo può costituire l’occasione per aggregare nuove alleanze politiche nel paese, risvegliare energie, cementare un vasto fronte di lotta. Esistono le forze, sia nella società che in parlamento, spesso impegnate in battaglie infruttuose, che possono unirsi attorno a un obiettivo così rilevante. Si può coinvolgere il vasto mondo cattolico in una battaglia di civiltà.
Come può la Chiesa di papa Francesco, la moltitudine dei credenti, tollerare che la persona umana sia posta in condizioni umilianti dentro società grondanti ricchezza, sia ridotta a mero deposito di energia lavorativa, a materia prima scambiata nel mercato come una qualunque merce?
L’Italia può uscire dalla crisi, o per meglio dire dalla sua progressiva e certa rovina, solo con una radicale revisione dei trattati europei e un nuovo ciclo di investimenti. Oppure con una poderosa redistribuzione della ricchezza interna, capace di alimentare un vasto progetto di riconversione ecologica. Il reddito minimo non è la rivoluzione, ma può aprire questa strada. Hic Rhodus, hic salta!
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