Cinici e spietati. Ma capaci di costruire futuro e cultura. Il premio Nobel nel suo ultimo libro rivaluta Lucrezia, Cesare e papa Alessandro. Al contrario degli onorevoli del terzo millennio. "La cultura oggi è morta, fallita, distrutta: magari avessimo ancora i Borgia"
Gli anni dei Borgia fra Quattro e Cinquecento come specchio della dissoluzione contemporanea di etica e politica? «Macché! Magari fosse così!», risponde secco Dario Fo: «Con tutta la loro incredibile brutalità e il loro spaventoso cinismo, quella era gente che aspirava a lasciare ai posteri qualcosa di straordinario; questi che oggi ci governano hanno come unica preoccupazione continuare a regnare. Rodrigo, papa Alessandro VI, era uomo coltissimo, questi non hanno il minimo interesse alla cultura. Lui chiamava a sé i più grandi scienziati perché lo aiutassero a pensare il massimo della modernità, loro che avevano già la testa nel domani. Questi quale proiezione al futuro hanno mai? Tirano a campare per altri sei mesi con sgambetti e tradimenti, che a differenza di allora non hanno neppure nulla di glorioso. E Lucrezia, denigrata per secoli come un’intrigante sgualdrina incestuosa e avvelenatrice, lei donna straordinaria che da vittima seppe battersi come una leonessa col padre e il fratello Cesare, lei che per un certo periodo governò persino la Chiesa, lei che voleva buttare all’aria il mondo...».
Il titolo è da feuilleton d’antan, “La figlia del Papa”,
e t’aspetteresti che la storia fosse poco più di un escamotage per
sciabolare la corruzione e la pochezza dell’oggi, infarcita di
battutacce su questo e quel politico, banchiere, sedicente imprenditore.
Invece no, per niente.
Il prossimo libro di Dario Fo, in uscita per la nuova collana di narrativa di Chiarelettere, riscrive fedelmente la vicenda di Lucrezia Borgia e dei suoi tempi tormentati. A dirla tutta, poche sono state le biografie più arate di questa, e negli ultimi tempi nei Borgia inciampi ovunque ti giri, dalle serie televisive (due quelle in corso, francese e canadese) fino alla copertina dell’“Officiel” dove s’annuncia un “Borgia style” tutto velluti e damascati.
A che pro l’ennesima rilettura? «Mi sono letto una messe di resoconti e testimonianze che quasi nessuno s’era preso la briga di studiare, cosa di cui non mi capacito. E mi sono reso conto che la storia come veniva raccontata era una cialtronata: censurava la dignità, la rabbia, la disperazione e il coraggio di questa fanciulla, la sua fuga in una comunità di ex-eretici, la sua passione per figure del mondo cristiano che furono autentici rivoluzionari come Bernardino da Siena e Santa Caterina...» Ecco allora che, «per ripristinare la verità storica», Dario Fo rigira come un calzino l’immagine di Lucrezia tramandata dal John Ford di “Peccato che sia una puttana”, «a lei chiaramente ispirato», fino al dramma di Victor Hugo musicato da Donizetti e alla lettissima psicobiografia di Maria Bellonci, «che di Lucrezia non capì nulla perché si lasciò trascinare dalla moda, dalla visione ottusa e brutale dei raccoglitori di effetti sessuali».
Non che della sgualdrina faccia un santino, certo però è un bel
ribaltone, quello di Fo: «Pochi sanno che, su ordine del padre, Lucrezia
si ritrova in un periodo della sua vita a gestire in prima persona il
Papato. E cosa fa in tale veste? Decide la santificazione di due donne,
come ad aprire alla possibilità di un’altra visione della Chiesa e del
mondo!» Ma siccome Fo è Fo e il libro non è un pamphlet, quello che
leggi è un racconto teso come una corda, costruito su piani diversi,
studiato su prolessi e svelamenti, montato a scene come per il teatro,
«fatto, mi pare, con mestiere», rivendica l’autore.
Pezzi di teatro già innervano il testo scritto e ne forniscono una chiave di lettura. Soprattutto la narrazione di una scollacciata pantomima messa in scena dall’Ariosto alla corte di Ferrara, dove Lucrezia era diventata duchessa e reggente: duelli, squartamenti, papi guerrieri e teste di cardinali che cadono, musici e giocolieri, l’italiana regina di Francia che s’ingozza di mappe e territori e cresce a dismisura sulla scena, in chiusa il carnascialesco funerale e la discesa agli inferi di Giulio II, successore e nemico di Alessandro VI Borgia e di Lucrezia.
Rappresentazione dell’Europa di quei tempi, perché cosa meglio del teatro e del grottesco possono mostrarne il caos dilagante dove «vince chi scanna prima»? C’è da scommettere che anche “La figlia del Papa” prima o poi sul palcoscenico finirà.
Se però il gioco è il teatro, e il suo tempo che esso svela nel doppio del grottesco, riesce difficile accontentarci di una ricostruzione storica, ancorché inedita e documentata. Così viene di nuovo voglia di pungolare Fo sull’oggi. Esempio, in un dialogo tra Alessandro VI e suo figlio Cesare lui scrive di frate Savonarola, che predicava incombenti sventure ed esortava alla purificazione del mondo nella Firenze dei Medici, e di come il Papa citasse le sue invettive proprio mentre tramava per mandarlo al rogo. Fo vede per caso in giro qualche Savonarola, insinui avendo in mente Beppe Grillo? Lui svicola via, no, no, Savonarola è un personaggio di allora, «talvolta grande ma comunque fuori chiave: perché, nella sporcizia e nell’infamia dei tempi, non aveva capito l’importanza della bellezza e della sua rappresentazione, tanto da scambiare per empietà e impurità il nudo della Primavera di Botticelli che era invece il massimo segno della pulizia e della purezza».
Oggi gli spregiatori dell’arte non hanno il volto spiritato del frate fiorentino ma quello da maestrina diligente dell’ex-ministra Gelmini: «Sa che solo qualche settimana fa si è concluso l’iter burocratico ed è diventata operativa la sciagurata norma da lei voluta quand’era all’Istruzione, che nei fatti cancella dalle scuole lo studio di arte, pittura, scultura, teatro?» Iconoclasti non perché invasati, ma per banalità di spirito.
E gli intellettuali del nostro tempo? Nel raffronto, non ci fanno una figura migliore. Innamorato «di questa donna dal fascino straordinario» e da Lucrezia ricambiato è Pietro Bembo: di loro due molto racconta nel libro Dario Fo, e delle lettere che per quattordici anni si scambiarono, «splendide, vere opere d’arte quelle di lei».
Bembo il letterato, il poeta, l’umanista, che anni dopo ritroviamo persino cardinale e politico di Curia. Ma prima che tu faccia in tempo a chiedere se vede in giro qualche Pietro Bembo, è Fo a domandarsi dove mai si nasconda l’intelligencija di oggi, perché non trovi il coraggio di esporsi. Per far paragoni non c’è nemmeno bisogno di tornare indietro cinquecent’anni, ne bastano cinquanta o poco più: «Se penso com’era l’Italia quando io ho cominciato! Vitale, piena di entusiasmo, c’erano offerta e domanda di cultura, se possedevi un minimo di intelligenza scenica un teatro lo trovavi e potevi subito realizzare ciò che sognavi... La cultura oggi è morta, fallita, distrutta. Sa che a Milano sono nove i teatri chiusi? Grandi sale, da 2500 posti, non teatrini. E anche i piccoli sbaraccano, uno sotto casa mia aveva quattrocento posti, non ce la faceva, l’hanno ridotto a duecento, neppure così riesce a reggersi in piedi, finirà anche quello... Davvero: magari avessimo ancora gente come i Borgia!» .
Il prossimo libro di Dario Fo, in uscita per la nuova collana di narrativa di Chiarelettere, riscrive fedelmente la vicenda di Lucrezia Borgia e dei suoi tempi tormentati. A dirla tutta, poche sono state le biografie più arate di questa, e negli ultimi tempi nei Borgia inciampi ovunque ti giri, dalle serie televisive (due quelle in corso, francese e canadese) fino alla copertina dell’“Officiel” dove s’annuncia un “Borgia style” tutto velluti e damascati.
A che pro l’ennesima rilettura? «Mi sono letto una messe di resoconti e testimonianze che quasi nessuno s’era preso la briga di studiare, cosa di cui non mi capacito. E mi sono reso conto che la storia come veniva raccontata era una cialtronata: censurava la dignità, la rabbia, la disperazione e il coraggio di questa fanciulla, la sua fuga in una comunità di ex-eretici, la sua passione per figure del mondo cristiano che furono autentici rivoluzionari come Bernardino da Siena e Santa Caterina...» Ecco allora che, «per ripristinare la verità storica», Dario Fo rigira come un calzino l’immagine di Lucrezia tramandata dal John Ford di “Peccato che sia una puttana”, «a lei chiaramente ispirato», fino al dramma di Victor Hugo musicato da Donizetti e alla lettissima psicobiografia di Maria Bellonci, «che di Lucrezia non capì nulla perché si lasciò trascinare dalla moda, dalla visione ottusa e brutale dei raccoglitori di effetti sessuali».
Pezzi di teatro già innervano il testo scritto e ne forniscono una chiave di lettura. Soprattutto la narrazione di una scollacciata pantomima messa in scena dall’Ariosto alla corte di Ferrara, dove Lucrezia era diventata duchessa e reggente: duelli, squartamenti, papi guerrieri e teste di cardinali che cadono, musici e giocolieri, l’italiana regina di Francia che s’ingozza di mappe e territori e cresce a dismisura sulla scena, in chiusa il carnascialesco funerale e la discesa agli inferi di Giulio II, successore e nemico di Alessandro VI Borgia e di Lucrezia.
Rappresentazione dell’Europa di quei tempi, perché cosa meglio del teatro e del grottesco possono mostrarne il caos dilagante dove «vince chi scanna prima»? C’è da scommettere che anche “La figlia del Papa” prima o poi sul palcoscenico finirà.
Se però il gioco è il teatro, e il suo tempo che esso svela nel doppio del grottesco, riesce difficile accontentarci di una ricostruzione storica, ancorché inedita e documentata. Così viene di nuovo voglia di pungolare Fo sull’oggi. Esempio, in un dialogo tra Alessandro VI e suo figlio Cesare lui scrive di frate Savonarola, che predicava incombenti sventure ed esortava alla purificazione del mondo nella Firenze dei Medici, e di come il Papa citasse le sue invettive proprio mentre tramava per mandarlo al rogo. Fo vede per caso in giro qualche Savonarola, insinui avendo in mente Beppe Grillo? Lui svicola via, no, no, Savonarola è un personaggio di allora, «talvolta grande ma comunque fuori chiave: perché, nella sporcizia e nell’infamia dei tempi, non aveva capito l’importanza della bellezza e della sua rappresentazione, tanto da scambiare per empietà e impurità il nudo della Primavera di Botticelli che era invece il massimo segno della pulizia e della purezza».
Oggi gli spregiatori dell’arte non hanno il volto spiritato del frate fiorentino ma quello da maestrina diligente dell’ex-ministra Gelmini: «Sa che solo qualche settimana fa si è concluso l’iter burocratico ed è diventata operativa la sciagurata norma da lei voluta quand’era all’Istruzione, che nei fatti cancella dalle scuole lo studio di arte, pittura, scultura, teatro?» Iconoclasti non perché invasati, ma per banalità di spirito.
E gli intellettuali del nostro tempo? Nel raffronto, non ci fanno una figura migliore. Innamorato «di questa donna dal fascino straordinario» e da Lucrezia ricambiato è Pietro Bembo: di loro due molto racconta nel libro Dario Fo, e delle lettere che per quattordici anni si scambiarono, «splendide, vere opere d’arte quelle di lei».
Bembo il letterato, il poeta, l’umanista, che anni dopo ritroviamo persino cardinale e politico di Curia. Ma prima che tu faccia in tempo a chiedere se vede in giro qualche Pietro Bembo, è Fo a domandarsi dove mai si nasconda l’intelligencija di oggi, perché non trovi il coraggio di esporsi. Per far paragoni non c’è nemmeno bisogno di tornare indietro cinquecent’anni, ne bastano cinquanta o poco più: «Se penso com’era l’Italia quando io ho cominciato! Vitale, piena di entusiasmo, c’erano offerta e domanda di cultura, se possedevi un minimo di intelligenza scenica un teatro lo trovavi e potevi subito realizzare ciò che sognavi... La cultura oggi è morta, fallita, distrutta. Sa che a Milano sono nove i teatri chiusi? Grandi sale, da 2500 posti, non teatrini. E anche i piccoli sbaraccano, uno sotto casa mia aveva quattrocento posti, non ce la faceva, l’hanno ridotto a duecento, neppure così riesce a reggersi in piedi, finirà anche quello... Davvero: magari avessimo ancora gente come i Borgia!» .
Nessun commento:
Posta un commento