di Federico Rampini, da Repubblica
Il
libero scambio significa occupazione, porterà più posti di lavoro agli
americani, e saranno impieghi ben remunerati ». Parola di Bill Clinton.
Era l’inizio del 1994. Il presidente degli Stati Uniti firmava vent’anni
fa un trattato che fu l’atto di nascita della globalizzazione. Era
l’avvio di un processo “rivoluzionario”, che ha dato nuove regole
all’economia mondiale, ha segnato il destino di interi popoli, ha
sconvolto gerarchie secolari. Nel 1994 Clinton stava firmando il North
American Free Trade Agreement (Nafta) quando dichiarò con fiducia e
orgoglio l’avvento di un’era di prosperità per gliamericani.
Oggi
il bilancio della globalizzazione, almeno nei paesi occidentali di
vecchia industrializzazione, è a dir poco controverso, oscilla tra
ambivalente e catastrofico. Per i suoi effetti sull’occupazione, sui
redditi da lavoro, sulla giustizia sociale, sull’ambiente, è considerata
più spesso una calamità che una manna. Al compimento dei suoi vent’anni
“questa” globalizzazione si scopre orfana: non si organizzano
celebrazioni, nessuno ne rivendica la paternità. E se Bill Clinton ha a
cuore le chance di sua moglie Hillary di conquistare la Casa Bianca
nel2016, la incoraggerà a schierarsi con quell’ampio fronte di forze
(sindacati in testa) che chiedono limiti, vincoli e tutele “contro” la
globalizzazione.
Il Nafta non è tutto, ma è una parte importante
di questa storia. Quel trattato firmato con convinzione ed entusiasmo da
Clinton (dopo che era stato negoziato dall’Amministrazione repubblicana
di George Bush padre), faceva cadere gran parte delle barriere agli
scambi in tutto il Nordamerica. Canada, Stati Uniti e Messico
diventavano un mercato unico, all’interno del quale i prodotti e i
capitali circolavano liberamente (meno le persone: dal Messico verso gli
Stati Uniti i flussi migratori hanno continuato a subire restrizioni).
In parallelo un esperimento analogo di libero scambio stava avvenendo in
quegli anni in Europa: la costruzione del mercato unico europeo,
ispirato dalla stessa filosofia e da un identico ottimismo sui benefici
dell’apertura delle frontiere. E tuttavia il Nafta è considerato perfino
più importante, per diverse ragioni. Anzitutto le dimensioni di
quell’esperimento. Messi insieme, Usa Canada e Messico rappresentano il
più ricco mercatodel pianeta. Oggi la loro popolazione aggregata si
avvicina al mezzo miliardo, i loro Pil addizionati sfiorano i 20.000
miliardi di dollari, il reddito pro capite punta verso i 40.000 dollari
annui.
Inoltre il mercato unico europeo, pur essendo stato
disegnato prima (1992), andava al traino ideologico dell’America: dal
premio Nobel dell’economia Milton Friedman, al presidenterepubblicano
Ronald Reagan, gli Stati Uniti erano stati la base della riscossa
neoliberista che avrebbe conquistato il mondo. L’America andò più avanti
di tutti gli altri, privatizzando a oltranza, ricacciando indietro il
ruolo dello Stato, tagliando il Welfare (anche sotto Clinton). Infine
con il Nafta gli Stati Uniti fecero le prove generali dell’esperimento
successivo, ancora più vasto: lacreazione del World Trade Organization
(Wto), e la cooptazione della Cina nella nuova architettura degli scambi
mondiali. Nel primo capitolo di questa storia c’era il Messico al posto
della Cina. Su scala più piccola, ma comunque significativa, è verso il
Messico che iniziarono le delocalizzazioni. Moltre imprese, non
soltanto americane ma anche giapponesi o sudcoreane che producevano per
il mercato Usa, andarono a insediare le nuove fabbriche subito a ridosso
del confine messicano. Si chiamarono “maquiladoras”, erano l’embrione
di quel che sarebbe accaduto con la Cina e altre nazioni emergenti. In
Messico le multinazionali americane e giapponesi andavano a cercare
manodopera a basso costo, sindacati deboli, poche regole a tutela
dell’ambiente, modestapressione fiscale. Ancora oggi il bilancio di
quell’operazione spacca in due gli osservatori americani. Da una parte
la U.S. Chamber of Commerce (una sorta di Confindustria) esalta i
benefici del Nafta sottolineando che «l’interscambio Usa-Messico è
balzato da 337 miliardi a quasi 1.500 miliardi di dollari». Sul fronte
opposto la confederazione sindacale Afl-Cio, denuncia che
«settecentomila posti di lavoro americani sono stati trasferiti in
Messico». Altre controversie riguardano l’impatto ecologico: fin
dall’inizio una organizzazione ambientalista californiana, il Sierra
Club, denunciò l’invasione di Tir messicani sulle autostrade a Nord di
San Diego, con un degrado dell’inquinamento. Oggi paradossalmente è dal
Nord che viene la minaccia, il Canada vuole inondare gli Stati Uniti di
idrocarburi con il maxioleodotto XL Keystone.
Fin da principio il
pericolo più grave fu individuato nella condizione dei lavoratori.
Cinque anni dopo il Nafta, i sindacati riunitinell’Afl-Cio si unirono ai
verdi, ai terzomondisti, agli anarchici e ai blac-block nella
“battaglia di Seattle” il 30 novembre 1999, quando quarantamila
manifestanti assediarono il summit del Wto. Ma il pensiero unico
neoliberista era ancora egemonico nell’establishment e nei governi,
anche di sinistra. A riprova di quali fossero le aspettative sugli
effetti della globalizzazione, in quella fine millennio un dibattito
sorprendente divampava ai vertici del partito comunista cinese: l’ala
sinistra era convinta che fosse un errore aderire al Wto, paventava la
colonizzazione della Cina da parte del capitalismo occidentale.
Un
inizio di ripensamento ai vertici, si è avuto con la crisi del 2009. In
quell’anno Barack Obama, appena insediatosi alla Casa Bianca, vara la
maxi-manovra antirecessiva (800 miliardi di spesa pubblica) intitolata
American Recovery and Reinvestment Act, e vi inserisce la Buy American
Provision. È una clausola protezionista, “compra americano”: indica che
ogni dollaro di quella manovra va usato per appalti a imprese Usa, per
comprare made in Usa. Non a caso scattano subito i ricorsi dei partner,
il governo canadese denuncia una violazione del Nafta. Ma è il segnale
di un cambio di atmosfera.
Vent’anni dopo, la globalizzazione è sotto
accusa anche nei “templi” che ne avevano celebrato la religione. Basta
aprire il sito del Wto per trovarvi un lungo e approfondito studio dal
titolo “Delocalizzazioni, occupazione: come rendere la globalizzazione
socialmente sostenibile?”. Il Fondo monetario internazionale, a lungo
identificato con l’ortodossia liberista del “Washington consensus”, nel
suo sito ospita una lunga ricerca su questo tema: “La globalizzazione
abbassa i salari e trasferisce all’estero i posti di lavoro?”. Qualcosa
sta cambiando anche nelle tendenze dell’economia reale. A una recente
convention della multinazionale danese Maersk, la più grande compagnia
marittima mondiale e il leader nel trasporto di container, sono state
proiettate analisi che dimostrano come il traffico merci internazionale
«rallenta»rispetto alla crescita mondiale.
Il premio Nobel Joseph
Stiglitz (nell’analisi che qui pubblichiamo) invita Obama a non
affrettare i tempi dei nuovi trattati di libero scambio. Ce ne sono due
in gestazione, uno tra gli Usa e le economie del Pacifico, l’altro tra
gli Usa e l’Unione europea che verrà evocato da oggi negli incontri di
Obama all’Aia (G7), a Bruxelles (Ue e Nato), a Roma. Un altro premio
Nobel, Paul Krugman, fu uno dei primi teorici della globalizzazione ma
oggi non esita a dichiarare che «è stata governata malissimo». Una tesi
mette in diretta correlazione la stagnazione dei redditi da lavoro, e la
concorrenza dei paesi senza sindacato come la Cina. Analisi più
sofisticate indicano che la globalizzazione è una concausa, insieme con
il progresso tecnologico che ha ridotto l’uso della forza lavoro
soprattutto nelle mansioni meno qualificate.
Tutto questo però
non basta a spiegare la dilatazione delle diseguaglianze. Gli stipendi
dei chief executive dovrebbero essere sottoposti alle stesse pressioni
al ribasso: oggi la Silicon Valley californiana pullula di giovani
manager venuti dall’India. Invece le paghe dei top manager sono
schizzate verso l’alto mentre gli stipendi del ceto medio hanno perso
quota ovunque. La globalizzazione, nelle analisi più raffinate di Daron
Acemoglu, James Robinson e Chrystia Freeland, è stata usata dalle elite
per costruire una “società estrattiva”: con una mobilità sociale
bloccata, un potere politico influenzato dalle lobby, normative fiscali
che accentuano le diseguaglianze garantendo l’elusione alle rendite
finanziarie. Il bilancio che ne fa Stiglitz è confermato dal Census
Bureau federale: «Un lavoratore maschio adulto in America oggi
guadagnameno di 40 anni fa». |
di Joseph Stiglitz, da Repubblica
Il
libero commercio è stato un principio cardine dell’economia nei primi
anni di questa disciplina. Sì, vincitori e perdenti esistono, diceva la
teoria, ma i vincitori possono sempre risarcire i perdenti, così che il
libero commercio (o perfino un commercio più libero) sia una soluzione
vantaggiosa per tutti. Questa conclusione, purtroppo, si basa su
numerosi presupposti, molti dei quali sono semplicemente sbagliati.
Teorie più vecchie, per esempio, ignoravano il rischio e presumevano che
i lavoratori potessero passare senza problemi da un posto di lavoro
all’altro. Si presumeva anche che l’economia fosse alla piena
occupazione, così che i lavoratori spostati dalla globalizzazione si
sarebbero rapidamente mossi da settori a bassa produttività a settori a
più alta produttività.
Quando però c’è un alto livello di
disoccupazione, e a maggior ragione quando una consistente percentuale
di disoccupati è rimasta priva di lavoro a lungo (come accade adesso),
una simile compiacenza non ci può essere. Oggi sono venti milioni gli
americani che vorrebbero trovare un posto a tempo pieno ma non ci
riescono. In milioni hanno smesso di cercarlo. Di conseguenza, c’è un
rischio concreto che il personale spostato in un settore protetto da un
posto di lavoro a bassa produttività di fatto finisca coll’entrare nelle
lunghe file dei disoccupati a produttività zero.
Questo fenomeno
nuoce perfino a chi riesce a mantenere il proprio posto di lavoro, dato
che la maggiore disoccupazione aumenta al ribasso la pressione sui
salari. Possiamo anche metterci a discutere sul motivo per il quale la
nostra economia non è performante come si crede che debba essere — se
ciò dipende da una mancanza di domanda aggregata o se avviene perché le
nostre banche, più interessate alla speculazione e alla manipolazione
dei mercati che al prestito, non stanno garantendo gli adeguati
finanziamenti alle piccole e medie imprese. A prescindere dalle cause,
però, la realtà è che questi accordi commerciali rischiano di aumentare
la disoccupazione.
Una delle cause per le quali siamo in questa
brutta situazione è che abbiamo gestito male la globalizzazione. Le
nostre politiche economiche incoraggiano l’esternalizzazione,
l’outsourcing dei posti di lavoro, e le merci prodotte all’estero con
manodopera a basso costo possono essere riportate con poca spesa negli
Stati Uniti. Così, i lavoratori americani capiscono di dover competere
con quelli all’estero, e il loro potere contrattuale è indebolito. Per
questo motivo fondamentale il reddito medio reale dei lavoratori di
sesso maschile con un posto di lavoro a tempo pieno è inferiore rispetto
a quello di 40 anni fa.
La politica americana odierna aggrava
questi problemi. Anche nella migliore delle ipotesi, la vecchia teoria
del libero commercio diceva soltanto che i vincitori avrebbero potuto
risarcire i perdenti, non che l’avrebbero fatto. E così è stato: non
l’hanno fatto. Anzi, hanno fatto il contrario. I sostenitori degli
accordi commerciali spesso affermano che per far diventare competitiva
l’America non si dovranno tagliare soltanto i salari, ma anche le tasse e
le spese pubbliche, soprattutto quelle relative a programmi che vanno a
sostegno dei normali cittadini. Dovremmo accettare disoffrire a breve
termine, dicono, affinché sul lungo periodo ne traggano beneficio tutti.
Ma, come disse una volta John Maynard Keynes in altro contesto, «nel
lungo periodo saremo tutti morti». In questo caso, ci sono poche prove
dalle quali evincere che gli accordi commerciali porteranno a una
crescita più rapida o più profonda. I critici del Partenariato
trans-pacifico (Tpp, Trans-Pacific Partnership, Trattato di libero
scambio con 11 nazioni del Pacifico intorno alla Cina, NdT) abbondano
perché sia l’iter sia la teoria sulla quale esso si basa sono un fiasco.
L’opposizione al Tpp è fiorita non soltanto negli Stati Uniti, ma anche
in Asia, dove i colloqui si sono arenati.
Mettendosi alla guida
di una protesta a tutto campo contro l’ente responsabile del Tpp, Harry
Reid, leader della maggioranza del Senato, sembra averci dato una
piccola tregua. Sembra anche che a vincere questa scaramuccia siano
stati coloro che pensano che gli accordi commerciali arricchiscano le
multinazionali a spese del 99 per cento. Di fatto, invece, è in corso
una guerra molto più estesa per garantire che le politiche commerciali —
e la globalizzazione più in generale — siano strutturate in modo tale
da migliorare gli standard di vita della maggior parte degli americani.
L’esito di questa guerra è tuttora incerto. Più volte ho ribadito due
punti: il primo è che l’alto livello di disuguaglianza presente oggi
negli Stati Uniti (e il suo enorme aumento negli ultimi trent’anni) è il
risultato cumulativo di tutta una serie di politiche, programmi e
leggi. Tenuto conto che il presidente stesso ha sottolineato che la
disuguaglianza è la priorità numero uno del paese, ogni nuova politica,
ogni nuovo programma, ogni nuova legge dovrebbe essere valutata dal
punto di vista del suo effettivo influsso sulla disuguaglianza. Accordi
come quello del Tpp hanno contribuito in modo sostanziale a questa
disuguaglianza. Le multinazionali potrebbero trarne beneficio, ed è
addirittura possibile, per quanto non garantito, che migliori anche il
prodotto interno lordo così come è misurato per prassi. È assai
probabile, però, che il benessere dei normali cittadini subirà un duro
colpo. E questo mi porta al secondo punto, che ho più volte
sottolineato: l’economia con effetto a cascata è una leggenda.
Arricchire le multinazionali — come farebbe il Tpp — non necessariamente
aiuterà chi si trova a metà della piramide economica, e tanto meno
quelli più in basso.
(Traduzione di Anna Bissanti) © 2014, The New York Times |
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