collettivo militant
Riceviamo e pubblichiamo volentieri una riflessione di un nostro lettore, che preferisce rimanere in incognito. La riflessione centra decisamente uno dei piani del discorso, quello fra la realtà sociale, il nostro modo di raccontarla e la percezione che la gente “comune” ha di quello che legge sui media. Un contributo importante insomma, che ci aiuta a definire la strada da percorrere.
L’altra sera ero a cena da una coppia di distinti amici dalle parti di San Pietro. Gente coi soldi, abituata a disinteressarsi alla politica, men che meno alle contraddizioni sociali di cui questa ne è la rappresentazione. Una famiglia benestante, sicuramente non di sinistra ma neanche effettivamente di destra. Una volta si sarebbe detta democristiana, oggi non si sa. Una serie di voti per Berlusconi, poi Grillo, forse qualche cedimento alla Lega Nord, forse un passaggio per il PD.
Nella discussione, immancabile è arrivato il commento sulle vicende di palazzo e sui mille mali dell’Italia. E immancabile, l’accenno a una decisa sterzata che rimettesse in piedi il paese, lo agganciasse alle economie produttive, eliminasse i lacci e lacciuoli che frenano lo sviluppo del mercato: “ci vorrebbe un dittatore”, concludevano i padroni di casa. In questo paese “c’è troppa democrazia”, serve qualcuno che non stia più a sentire questa o quella lobby, questo o quel partito o sindacato, e agisse con forza approvando quelle riforme di cui il paese avrebbe bisogno: abbassare le tasse, smantellare la burocrazia statale, liberalizzare definitivamente il mercato del lavoro, liberarci dei sindacati, eccetera. Non ho avuto il coraggio di intavolare una discussione seria su questi punti di vista, troppo ampia la distanza fra le parti e l’incomunicabilità l’avrebbe fatta da padrona. Forse, solo il tentativo di non rovinare una serata altrimenti gradevole. Le certezze dei commensali mi hanno però stimolato una serie di riflessioni che vorrei qui spiegare.
Anzitutto, tale bisogno di “dittatura” è molto più diffuso di quanto sembri. Lo si sente ripetere spesso, il più delle volte come boutade, ma in fin dei conti valutata positivamente. E’, in fondo, lo stesso motivo per cui piace Renzi, che incarna un certo spirito decisionista di cui, si dice, ci vorrebbe un gran bisogno. Queste riflessioni cozzano però con la realtà dei fatti, ed è interessante questa discrasia evidente tra realtà e percezione della stessa. Stiamo vivendo una lunga fase storica di svuotamento di ogni forma, sostanziale e formale, di democrazia. Uno spostamento netto verso una “esecutivizzazione” della vita pubblica, un trasferimento di potere dalle assemblee di dibattito agli organi decisionali. Oggi, come mai nel corso della nostra storia, la politica si identifica col potere esecutivo, la possibilità, per un singolo, di proporre ed approvare politiche di suo pugno, senza tenere in conto alcuna mediazione. Davvero difficile capire questa esigenza, da parte della popolazione, di più decisionismo in una fase di superfetazione decisionista.
Il corollario al bisogno di dittatura sembrerebbe essere quello per cui, almeno in Italia, ci sarebbe “troppa democrazia”. Anche qui, la distanza tra realtà e immaginazione sembrerebbe abissale. E qui la colpa parrebbe essere degli agenti mediatici del consenso, che chiamano “democrazia” quella serie di scontri tra lobby economiche o élite di potere che investono permanentemente la politica di palazzo. Descritto quel processo di influenzamento del potere portato avanti da tali lobby come “processo democratico”, è evidente che anche il più sincero democratico abbia ripulsa per tale dinamica.
Da questi brevi accenni quel che sembra incolmabile è il nostro punto di vista con quello di larga parte della cittadinanza. Quello che tale massa di persone pensa è che le “improrogabili” riforme di cui necessiterebbe il paese siano frenate da passaggi troppo democratici in cui non viene mai presa una decisione. La realtà dei fatti, come riporta giustamente questo blog quotidianamente, è a dire il vero opposta: c’è una direzione politica chiara, che viene perseguita ogni giorno senza alcun intoppo sostanziale, e che nel suo prodursi cerca di tener conto di tutte quelle componenti che da tale processo cercano di trarne fuori qualche tornaconto. Nulla di questa dinamica può essere qualificato come democratico, mentre tutto è interno a logiche di potere elitario che vengono invece descritte dai media come forma democratica del processo decisionale. Da tenerne conto.
C’è però un altro passaggio sostanziale che salta agli occhi dalla strana discussione avuta con i simpatici anfitrioni. Le ricette che questo presunto “dittatore” dovrebbe portare avanti sarebbero in definitiva il proseguo ossequioso delle riforme che hanno caratterizzato questo ventennio abbondante. Lo smantellamento di ogni forma di welfare; l’abbattimento dei salari; la precarizzazione contrattuale di ogni rapporto lavorativo; la marginalizzazione dei sindacati; il blocco del turn over nella pubblica amministrazione; il processo costante di privatizzazione del settore pubblico; la dismissione del patrimonio pubblico. Tranne sulla politica fiscale, che però in questi anni è servita a redistribuire verso l’alto margini di guadagno non più possibili nel mercato, sono esattamente tutte le riforme che hanno contraddistinto i governi di ogni colore e composizione. Perché allora questa percezione fuori senso, questo non riconoscere una direzione lampante, evidente anche al più disinteressato agli eventi politici? Anche qui, il ruolo dei media può spiegare una parte della domanda. A forza di ripetere che in Italia c’è un sistema di sviluppo cripto-socialista, con uno Stato ipertrofico e un mercato ristretto e imbrigliato, alla fine ci si crede pure. E si crede che la soluzione sia nello smantellare un sistema che è già bello che smantellato, in ogni sua forma.
Queste brevi riflessioni mi hanno spinto a considerare la distanza fra ciò che diciamo come compagni e ciò che percepisce la gente “normale” in quanto “opinione pubblica”. Una distanza che al momento mi sembra, appunto, incolmabile, e che dovremmo puntare a scardinare, mai dando per scontato che il nostro pensiero e la realtà dei fatti siano poi quelle della maggioranza della popolazione. Solo capendo questo potremmo tornare a “parlare con la gente”, sperando che questa gente ci capisca.
Un vostro affezionato lettore
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