La logica con la quale pensiamo al rapporto tra proprietà privata e
proprietà collettiva va completamente rovesciata: non è il pubblico che
limita il privato nel suo uso esclusivo di un bene, ma è il privato che
sottrae alla collettività la possibilità di utilizzarlo per il benessere
comune. È scritto nero su bianco nella nostra Costituzione.
di Paolo Maddalena, da MicroMega 9/2013
Il punto di partenza
Chi
guarda all’attuale stato ambientale del nostro pianeta e, nello stesso
tempo, allo stato economico e finanziario dei popoli che lo abitano
resta amaramente colpito, per un verso, dalla devastazione ambientale,
dagli insopportabili inquinamenti della terra, delle acque e dell’aria,
che hanno prodotto un profondo e forse non più reversibile cambiamento
del clima, con le catastrofiche conseguenze che esso comporta, e, per
altro verso, dalla smisurata differenza delle condizioni di vita dei
ricchi, che diventano sempre più pochi e sempre più ricchi, e dei
poveri, che rappresentano la stragrande maggioranza degli abitanti di
questo mondo e che sono sempre più numerosi e sempre più poveri. Riviste
specializzate affermano che il 50 per cento delle risorse è consumato
dal 10 per cento degli abitanti della terra, mentre l’altro 50 per cento
è destinato al 90 per cento degli abitanti di questo stesso nostro
pianeta.
La prospettiva, già solo in base a questi dati, è
dunque disastrosa. Ci troviamo di fronte a uno «squilibrio» planetario e
umano di immense proporzioni, che, se non immediatamente corretto, può
solo far prevedere un’irreparabile catastrofe.
Per quanto in
particolare riguarda l’Italia, si tratta di una situazione per la quale,
come subito si vedrà, si è resa necessaria una riconsiderazione
generale degli assetti proprietari, che ponga in evidenza le norme
inattuate della Costituzione vigente (soprattutto gli artt. 41, 42 e 43
Cost.), in relazione alle quali Piero Calamandrei ebbe a osservare che
«per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le
forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una
rivoluzione promessa» 1. Ora, di fronte a una crisi (che poi
propriamente una crisi non è, ma è piuttosto uno stato di subordinazione
degli Stati del Sud Europa alla Germania) di così vaste proporzioni,
questa «rivoluzione promessa» è diventata «una rivoluzione da attuare»
senza ulteriori indugi. Ne va della stessa sopravvivenza del nostro
paese e degli altri Stati del Sud Europa; della loro indipendenza
economica e politica.
Le soluzioni, ovviamente, sono da
ricercare sul piano politico, sia a livello interno, sia a livello
europeo e internazionale. Ciò non esclude, tuttavia, che importanti
correttivi si possano trovare anche sul piano del diritto.
Ponendoci su questo piano, diciamo subito che per noi italiani è
indispensabile rivolgersi a due grandi fari che illuminano il diritto
del nostro paese: il diritto romano e la Costituzione della Repubblica
italiana. Gli insegnamenti dei giureconsulti romani e le disposizioni
della nostra Costituzione saranno perciò il filo conduttore di tutto il
nostro discorso.
Pochi hanno notato che l’espressione del
giureconsulto Marciano, vissuto nel terzo secolo dopo Cristo, «res
communes» va tradotta in italiano con l’espressione «beni comuni» 2,
quei beni che sono venuti alla ribalta e sono stati oggetto di studio,
allorché ci si è accorti che, di privatizzazione in privatizzazione, si
era arrivati fino a «privatizzare» l’acqua 3 (come già avvenuto in altre parti del mondo, ad esempio in Bolivia 4),
un bene che appartiene a tutti e serve all’uso gratuito di tutti. Il
referendum del giugno 2011 per abrogare le disposizioni di legge che
imponevano la «privatizzazione delle reti di distribuzione dell’acqua» è
stato un grande successo popolare: 27 milioni di italiani hanno detto
no alla privatizzazione, dimostrando che oramai è entrato
nell’immaginario collettivo l’importante concetto che i «privati», e
cioè i «proprietari privati», non possono occupare campi che, per essere
strettamente connessi alle esigenze primarie della vita umana, devono
restare nella proprietà di tutti, quella che più propriamente è detta
«proprietà collettiva» del popolo.
Attraverso il referendum
sull’acqua gli italiani hanno dimostrato di essersi accorti che ridurre
tutto a «proprietà privata» può portare a conseguenze nefaste e che
occorre, invece, rifarsi alla nostra Costituzione, la quale da un lato
«riconosce», per così dire, cittadinanza giuridica a questo tipo di
proprietà soltanto entro ben determinati limiti, e comunque
subordinatamente al rispetto degli interessi generali e prevalenti di
tutti, e d’altro canto pone il principio fondamentale «dell’eguaglianza
economica» (art. 3, comma 2, Cost.), secondo il quale si deve evitare
l’«accentramento» della ricchezza, che rende impossibile una vita
«libera e dignitosa» (art. 36, comma 1, Cost.), e occorre favorire la
«redistribuzione» della ricchezza stessa, che, sola, consente la
produzione di beni reali e un reale «sviluppo economico». Sviluppo
economico che è necessario per raggiungere i fini della Costituzione, e
cioè «il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3, comma 2, Cost.) e
«il progresso materiale e spirituale della società» (art. 4, comma 2,
Cost.).
Ne consegue che l’unica forma di Stato idonea a
perseguire i suddetti fini è quello introdotto dalla nostra
Costituzione, e cioè lo Stato sociale di diritto, che assume come
compito proprio il benessere di tutti, utilizzando sia la proprietà
pubblica, sia la proprietà privata 5.
In sostanza,
si tratta di rendere attuale un pensiero già presente nella Costituzione
di Weimar del 1919, che Roosevelt, all’indomani della grande crisi del
1929, riassunse in due «verità», che espose davanti al Congresso degli
Stati Uniti, il 29 aprile 1938: «La prima verità è che la libertà di una
democrazia non è salda se il popolo tollera la crescita di un potere
privato al punto che esso diventa più forte dello stesso Stato
democratico. […] La seconda verità è che la libertà di una democrazia
non è salda se il suo sistema economico non fornisce occupazione e non
produce e distribuisce beni in modo tale da sostenere un livello di vita
accettabile».
Precedenza storica della proprietà collettiva su quella privata
Si capisce agevolmente, già da queste prime osservazioni, che il
discorso sulla situazione attuale deve «ampliare i suoi confini», deve
scoprire le «radici» del problema, se proprio si vuole trovare una
soluzione. E andando, per così dire, in profondità, si nota agevolmente
che il primo dato da porre in evidenza è che non si può parlare dei
diritti di ogni uomo, se non si tiene presente che l’uomo non può vivere
«isolatamente», ma nella «comunità». È, come ripeteva Aristotele, un
essere che vive nella polis, che vive in città. Ne consegue che
il primo concetto chiave da mettere a fuoco è proprio quello del
rapporto tra «la parte e il tutto», «tra individuo e comunità», tra
«individuo e ambiente».
L’essenza di questo concetto sta nel
concepire la «parte» come «elemento strutturale» del «tutto». Lo
chiarirono, nel terzo secolo avanti Cristo, Pitagora di Siracusa ed
Empedocle di Agrigento 6, i quali concepirono «l’uomo» come
«parte costitutiva» del «cosmo». In sostanza, come ha affermato di
recente papa Francesco, occorre partire dal concetto dell’«armonia»
universale e ritenere che l’uomo è parte essenziale dell’universo, ha un
«suo posto» nell’universo, per i fini che questo deve raggiungere.
Si scopre così che la vita dell’uomo fa parte di un’unica immensa vita,
quella dell’universo intero. Ed è su questa idea che l’ecologismo
contemporaneo ha potuto porre le basi per superare gli errori prodotti
dalla filosofia razionalista, che ha staccato l’uomo dalla natura, là
dove uomo e natura sono entità tra loro inscindibili. Nessuno nega più,
oggi, che «l’uomo è parte della natura», o, se si preferisce, è «parte
dell’ambiente», e che per difendere la vita dell’uomo, occorre
salvaguardare la natura e l’ambiente.
Le res communes omnium di Marciano si collocano in questo quadro universale, non per niente esse sono considerate nell’ambito dello ius naturale,
di quel diritto, cioè, che la stessa natura insegnò a tutti gli esseri
viventi, «quod natura omnia animalia docuit». Si tratta, come è noto,
dell’aria, dell’acqua corrente, del mare e dei lidi del mare: una
sintesi ante litteram dell’odierno concetto di ambiente.
Sennonché per il giurista odierno, che opera in un mondo del diritto
nel quale il giusnaturalismo è oppresso dal positivismo, e quest’ultimo,
per giunta, è divenuto nichilismo, il concetto chiave della «parte e
del tutto» va più opportunamente utilizzato, non in ambito universale,
ma nell’ambito in cui domina un dato ordinamento giuridico, e, quindi,
nell’ambito proprio della «comunità politica», o Stato che dir si
voglia.
Limitato così il campo dell’indagine, appare evidente,
innanzitutto, che il diritto, come diceva Carl Schmitt, «è terrestre»,
riguarda il rapporto tra l’uomo e la terra, la iustissima tellus 7. In altri termini il «diritto» nasce quando il «mondo delle persone si relaziona al mondo delle cose» 8. E, per definire in cosa si sostanzi questa «relazione», bisogna ricorrere a un altro concetto chiave, quello di «confine» 9.
Si pensi, ad esempio, alla fondazione di Roma. Quando Romolo, o chi per
lui, tracciò il solco di Roma, distinse il terreno sul quale doveva
sorgere l’urbs dai terreni circostanti e con questa «confinazione», con il fines regere,
egli fece sorgere congiuntamente e istantaneamente tre entità: il
«popolo», cioè l’aggregato umano che si stanziava su quei terreni
confinati, il «territorio» (da terrae torus, letto di terra),
cioè la porzione di terra sulla quale si stanziava il popolo, e la
«sovranità», cioè la somma dei poteri conferiti al popolo, sui quali
fondare il diritto e cioè l’ordinamento giuridico.
Fondamentale fu il concetto di Populus Romanus Quirites 10,
poiché fu nel popolo che i giureconsulti romani videro avverarsi quel
rapporto, ereditato dalla filosofia greca, «della parte e del tutto».
Ciascun cittadino fu e si considerò «parte strutturale» del tutto, cioè
della collettività, e, come poi dimostrò Marco Tullio Cicerone, furono
proprio questo senso di «partecipazione», questo «sentirsi parte
integrante» di un’articolata comunità, questo «sentimento di
solidarietà», che fecero grande Roma.
E questo sentirsi parte
di una comunità, si badi bene, non si limitò agli esseri umani, ma
investì lo stesso «suolo di Roma», il «territorio romano», elevato a
elemento distintivo della stessa «romanità». E si capisce agevolmente
che questo rapporto tra popolo e territorio non fu mai concepito come un
rapporto di «dominio» e di sfruttamento, ma come un rapporto di natura
quasi «personale», poiché il territorio, come si è accennato, fu visto
come qualcosa di strettamente legato alle persone, addirittura, come si è
accennato, un terrae torus, un letto di terra.
Dunque, fin dalle origini, e nel senso su esposto, si parlò del
«rapporto di appartenenza» del territorio al popolo, e cioè di una
«proprietà collettiva», che è insita nella «somma dei poteri sovrani»
spettanti al popolo. Né si può tacere che questo tipo di appartenenza
ebbe per i romani qualcosa di sacro, se è vero come è vero che si giunse
ad affermare che «pulcrum est pro patria mori», è bello morire per la
patria.
E fu in questa atmosfera di amor di patria, in questo
connubio tra popolo e territorio, in questo riconoscimento in capo al
popolo del potere sovrano, che sorse la «comunità politica», la «Civitas
Quiritium».
Dalle origini, dunque, il territorio appartenne al
popolo e, a quanto pare, fu Numa Pompilio a operare una prima
«divisio», una prima divisione, del territorio, tra «ager compascuus»,
in proprietà e in uso comune e collettivo, e una piccola parte del
territorio stesso «ceduto» ai patres familiarum a titolo di mancipium,
concetto che, molto alla lontana, fa pensare a una sorta di «proprietà
privata», ma che fu ben diverso da questa, consistendo, non in un
rapporto astratto, in un diritto reale del soggetto sull’oggetto, ma
nella sottoposizione di piccole porzioni del territorio, con quanto
serviva alla loro coltivazione (la domus, l’heredium circostante, gli animalia quae collo dorsove domantur, gli instrumenta fundi), al «potere generico e indifferenziato» degli stessi patres.
Si trattò di «due iugeri» a testa, cioè di mezzo ettaro, appena
sufficienti per garantire le strette necessità di vita familiare.
D’altro canto, come agevolmente si nota, il concetto di «proprietà
privata» non fu affatto originario, come comunemente si crede, ma si
maturò, per effetto di una lunga e tormentata riflessione
giurisprudenziale, soltanto agli inizi del primo secolo avanti Cristo, e
cioè ben sette secoli dopo la nascita della proprietà collettiva,
quando si cominciò a parlare di «dominium ex iure Quiritium» 11.
Non è dubbio, quindi, che la prima forma di appartenenza, come del resto ha dimostrato il Niebuhr, sin dal 1811 12,
fu la «proprietà collettiva», mentre è assolutamente errato parlare di
«proprietà privata» come sinonimo della «proprietà romana». Peraltro
distinguere tra i due tipi di appartenenza è di somma importanza.
Infatti, la «proprietà collettiva» implica non il potere di disporre del
bene, ma solo la facoltà di un suo «uso» corretto e condiviso in modo
pari con tutti gli altri consociati, al fine di «conservare» il bene
stesso per la presente e le future generazioni. Al contrario, la
«proprietà privata» comporta la sottrazione a tutti di una parte del
territorio per cederlo a un singolo con la facoltà di «alienarlo» ad
altri o di «goderne» in modo «pieno» (fino alla distruzione della cosa)
ed «esclusivo», cioè escludendo da questo godimento tutti gli altri
consociati. Come si nota, un diritto che, oltre certi limiti, come
meglio vedremo in seguito, diventa lesivo dei diritti collettivi di
tutti i consociati alla conservazione del «territorio», e quindi del
paesaggio, dei beni artistici e storici, dei beni naturali eccetera,
loro appartenenti a titolo di «sovranità».
Purtroppo la cultura
borghese, confermata oggi dall’ideologia neoliberista, ha tentato in
tutti modi di far scomparire il concetto stesso di «proprietà
collettiva», producendo, come presto vedremo, danni rilevantissimi in
ordine al soddisfacimento dei bisogni primari della collettività.
La proprietà collettiva, tuttavia, ha mantenuto intatta la sua presenza
nell’ordinamento giuridico, come ha brillantemente dimostrato Paolo
Grossi 13, con un lavoro pubblicato nel 1977, dal titolo Un altro modo di possedere,
tratto da una definizione di Carlo Catteneo, il quale, a proposito
delle «proprietà collettive», affermò: «Non sono abusi, non sono
privilegi, non sono usurpazioni: è un altro modo di possedere, un’altra
legislazione, un altro ordine sociale, che, inosservato, discese da
remotissimi secoli sino a noi» 14.
Né si possono dimenticare i lavori di Vincenzo Cerulli Irelli 15, il quale ha opportunamente utilizzato il concetto di proprietà collettiva per fondare giuridicamente i diritti collettivi.
Il riferimento al diritto romano è, a questo proposito, molto
importante, poiché dimostra che la «proprietà collettiva» non sorse nel
medioevo, come comunemente si crede, ma con la stessa fondazione di
Roma, essendo, di conseguenza, le proprietà collettive medievali
soltanto una propaggine storica dell’originaria «proprietà collettiva
romana».
Altro dato estremamente rilevante che si ricava dalla
storia di Roma è che i giureconsulti romani, per salvaguardare il
soddisfacimento dei bisogni primari della collettività, esclusero dal
commercio i beni idonei a questo scopo, operando una fondamentale
distinzione tra «res in commercio» e «res extra commercium», oppure,
come preferisce Gaio 16, tra «res in patrimonio» e «res extra
patrimonium». Infatti, è fin troppo evidente che non esiste alcun altro
strumento giuridico per tutelare le parti del territorio destinate
permanentemente a soddisfare i bisogni primari della collettività, se
non quello di sottoporre questi beni al regime dell’«incommerciabilità» 17.
Oggi l’esigenza di utilizzare questo strumento è proposto da più parti,
ma, come è noto, essa è osteggiata dalla cultura dominante tutta
fondata sulla prevalenza della proprietà privata, e, sul piano
giuridico, è sopraffatta dall’assurda privatizzazione persino dei «beni
demaniali». Eppure nessuno può negare che esiste nel nostro ordinamento
giuridico l’essenziale categoria, perfettamente coerente con i vigenti
princìpi fondamentali della Costituzione, della «proprietà collettiva
demaniale», cioè di quei beni che appartengono al popolo e sono pertanto
«inalienabili, inusucapibili e inespropriabili».
Il concetto di territorio
Ma
è venuto il momento di stabilire cosa si intende con la parola
«territorio». Come si è visto, per i romani, e da un punto di vista
puramente materiale, il territorio è una «porzione di terra», confinata
dai terreni circostanti. L’idea si è puntualmente trasferita in epoca
moderna, sennonché i diffusi inquinamenti dell’aria, delle acque e del
suolo consigliano di considerare la terra in una visuale più completa e
cioè come «ambiente», meglio si direbbe, come ha affermato la Corte
costituzionale, come «biosfera» 18, in modo da far rientrare
in questo concetto, oltre il suolo e il sottosuolo, tutto ciò che esiste
sul soprassuolo, e cioè l’atmosfera, le acque, la vegetazione e le
stesse opere e attività dell’uomo.
Ciò che deve essere
innanzitutto sottolineato è che il territorio è un «bene comune
unitario», formato da «più beni comuni», in «appartenenza» comune e
collettiva. Ed è da precisare, inoltre, che, appartenendo al popolo, ed
essendo il popolo un’entità in continuo mutamento per l’alternarsi della
vita e della morte dei singoli individui, anche il «territorio», come
il popolo, deve essere considerato nel suo aspetto dinamico, e cioè
tenendo conto dei mutamenti che si realizzano nel tempo, e soprattutto
del fatto che esso deve necessariamente appartenere non solo alla
presente, ma anche alle future generazioni. Del resto, come poco sopra
si è ripetuto, popolo e territorio, insieme con la sovranità, sono
«parti costitutive» della medesima «comunità politica».
D’altro
canto, occorre tener presente che il concetto di territorio, oggi, non
si esaurisce nelle entità materiali sopra ricordate, e cioè il suolo, il
sottosuolo e tutto ciò che è sul soprassuolo, compresi i beni artistici
e storici creati dall’uomo, ma comprende anche entità immateriali e le
stesse attività umane che sul territorio si svolgono. In ultima analisi,
tutti quegli elementi che determinano il modo di vivere e il tenore di
vita del popolo che quel territorio abita.
Si pensi alle opere
dell’ingegno: alle invenzioni, tutelate dai brevetti, o alle opere
letterarie, tutelate dal diritto di autore; o alle conoscenze e ai
saperi rinvenibili sul web. E si pensi, in estrema sintesi, alla
«cultura» 19, non solo quella degli intellettuali, ma anche quella popolare 20, e, quindi, al complesso di idee che guidano le azioni degli individui e delle nazioni nella vita di tutti i giorni.
E si pensi soprattutto all’influenza che hanno sul territorio le
istituzioni della comunità politica, e cioè alla forma di Stato e al
relativo «ordinamento giuridico», nonché alla forza spesso sconvolgente
che esercitano sul territorio l’economia, la finanza, i mercati.
Il «territorio», in altri termini, appare come uno «spazio di libertà»
entro il quale trovano possibilità di svolgimento le capacità e i
caratteri dei singoli e della collettività considerata nel suo insieme,
considerata soprattutto in quelle specificità culturali che
caratterizzano un popolo, e che si estrinsecano, come si diceva, nella
cultura e in ciò che da questa deriva.
Ne consegue che
l’odierna cosiddetta globalizzazione non può e non deve prescindere
dalla distinzione dell’intera superficie terrestre in vari «territori»,
intesi come luoghi nei quali si esplicano le specifiche caratteristiche
dei diversi «popoli». La globalizzazione implica la «transitabilità» dei
confini, non la soppressione dei singoli territori in vista di un unico
territorio costituito da tutta la terra. A parte la considerazione che
una cosa del genere è solo immaginabile, ma, almeno al momento,
assolutamente irrealizzabile, resta il fatto che la perdita delle
caratteristiche proprie dei vari territori e, quindi, dei vari popoli,
sarebbe solo una perdita immensa di ricchezze naturali e culturali.
Occorre, dunque, «difendere i territori», poiché, è bene ripeterlo, essi
costituiscono «spazi di libertà» per il pieno sviluppo delle singole
persone e per il progresso materiale e spirituale della società.
Il necessario riequilibrio tra proprietà privata e collettiva
E, nel descritto quadro, esiste un solo modo per difendere il
territorio: assicurare la sua «destinazione» alla soddisfazione
«dell’interesse generale» di tutti i cittadini, limitando, in base a
princìpi di equità, la sua «destinazione» a soddisfare soltanto
l’interesse individuale. Occorre, cioè, sul piano strettamente
giuridico, effettuare un «bilanciamento» tra «proprietà collettiva» e
«proprietà privata», sulla base del diverso peso dei corrispettivi
interessi oggetto di tutela.
Infatti, un morbo terribile
attanaglia tutti i popoli dopo l’affermazione delle «teorie
neoliberiste»: l’esasperato «individualismo» e la perdita quasi assoluta
del senso della «solidarietà», solidarietà all’interno di un popolo e
solidarietà tra i popoli. Il fatto che «il mercato» sia l’unica società
capace di sopravvivere senza solidarietà, a differenza di tutte le altre
società, ha prodotto un egoismo esasperato, che sta portando tutti alla
disgregazione e all’impoverimento generale.
Si tratta, prima
di ogni cosa, di ristabilire quel «riequilibrio» del quale si è poco
sopra parlato. E questo riequilibrio, sia ben chiaro, è certamente
possibile in base alla stragrande maggioranza dei vigenti ordinamenti
giuridici moderni. Infatti, come acutamente osserva Rodotà 21,
«una costante dei sistemi giuridici moderni è rappresentata dalla
distribuzione dei beni in tre aree: privata, pubblica e collettiva […]
ed è proprio con l’attribuzione dei beni a ciascuna di queste tre aree
che finiscono con l’essere definiti i caratteri di un ordinamento.[…] Ed
è chiaro che, da un canto, deve rimanere aperta la possibilità di
spostare le frontiere tra le diverse aree; e dall’altro, che sono i
rapporti qualitativi tra queste che connotano definitivamente un
sistema». Inoltre, è da tener presente, ed è sempre Rodotà che parla 22,
che non è assolutamente possibile ritenere che le «decisioni assunte
dal titolare del diritto […] non sono vincolanti per i terzi, […] poiché
[…] un’analisi realistica della situazione presente» dimostra che «il
crescere e il mutare di qualità dell’incidenza globale delle decisioni
proprietarie possono variamente risultare vincolanti per altri,
richiedendo quindi regole tendenti a qualificare in questo più largo
quadro le modalità della decisione e, quindi, l’esercizio dei poteri
proprietari», sicché non è più possibile «costruire la proprietà come
sistema completamente autoreferenziale» ed è indispensabile «operare una
relativizzazione non solo di un potere proprietario altrimenti visto
come assoluto, ma dello stesso ruolo della proprietà, […] come vogliono
tutte le tecniche costituzionali di bilanciamento degli interessi, e
come vuole particolarmente la Costituzione italiana».
Il ristabilimento di questo equilibrio comporta l’assolvimento di un compito immane.
È divenuto, infatti, necessario e improrogabile «spostare dalla
proprietà privata a quella collettiva» tutti quei «beni che sono
indispensabili alla sopravvivenza» di tutti i cittadini. Si tratta dei
beni naturali e culturali, che assicurano il soddisfacimento dei bisogni
primari dell’uomo, delle più importanti industrie strategiche (quelle
relative alla produzione dell’energia, alle comunicazioni, ai trasporti
eccetera), e dei terreni e degli immobili, che, anche indipendentemente
dalla loro classificazione come «beni demaniali» debbono necessariamente
rientrare nella «proprietà collettiva» del popolo, come, ad esempio, il
«paesaggio» e, in genere, i «beni culturali». E non si può sottacere a
questo proposito la necessità del recupero al patrimonio del popolo dei
«terreni e degli immobili abbandonati», che non perseguono più alcuna
«funzione sociale». In altri termini, come sopra si diceva, è diventato
urgente, sottrarre al mercato, e cioè alla logica del profitto, quei
beni indispensabili per garantire a tutti una vita «libera e dignitosa».
In proposito, poi, è doveroso precisare che è necessario
distinguere tra «titolarità» e «gestione», nel senso che lo Stato e gli
enti territoriali ben possono essere «gestori pubblici» dei «beni in
proprietà collettiva del popolo», poiché tale gestione, ovviamente,
lascia inalterata l’appartenenza dei beni al popolo medesimo.
L’importante è assicurare, con norme ferree, che i gestori si comportino
secondo fedeltà e correttezza, e siano ritenuti fermamente responsabili
dei loro comportamenti.
D’altro canto, nell’effettuare questa
operazione, occorre tener presente che «l’originaria appartenenza del
territorio al popolo» a titolo di «sovranità», non viene meno con la
«cessione» a singoli o a un ente pubblico della «proprietà privata». In
altri termini, la storia dimostra che sulla proprietà privata insiste
quella che Carl Schmitt definisce la «superproprietà» del popolo, nel
senso che il popolo come ha «ceduto» la proprietà privata così può
riacquistarla.
Si tratta, in sostanza, della distinzione
medievale tra «dominium eminens» e «dominium utile», la quale assicurava
al re la «preminente» titolarità di tutto il territorio 23.
Quanto, infine, alla legittimità costituzionale di questa operazione,
più di talune sentenze della Corte costituzionale, peraltro molto
criticate sul piano dottrinale 24, valgono le seguenti affermazioni di Massimo Severo Giannini, che nessuno sinora è riuscito a smentire 25:
«Le proprietà sono così come sono in quanto una legge le ha, nel modo
come sono, configurate. Di qui l’ulteriore conseguenza, questa volta non
più constatativa ma precettiva: che come la legge ne ha determinato la
configurazione così la può modificare. Affinché si possa dire che la
modificazione oltre una certa norma è espropriativa, occorrerebbe, nel
sistema, una proposizione precettiva la quale garantisse ciò che è al di
là di quella certa soglia. […] Il problema ritorna quindi, quasi
fatalmente, al punto di partenza. Siccome dall’enunciazione
costituzionale non è garantito alcun contenuto o ambito soliare della
proprietà, ove trovare la norma di garanzia?».
Prevalenza giuridica della proprietà collettiva su quella privata
A questo punto, alla «precedenza storica» della proprietà collettiva
sulla proprietà privata, della quale si è parlato nelle pagine
precedenti, viene naturalmente ad affiancarsi una «prevalenza
giuridica», della prima sulla seconda.
La Costituzione della
Repubblica italiana, infatti, nel disciplinare la proprietà privata,
segue perfettamente il concetto storico della «derivazione» di
quest’ultima dalla proprietà collettiva del territorio. In parole
povere, l’idea che sottende la disciplina costituzionale è «l’originaria
appartenenza del territorio all’insieme dei cittadini» e la sua
successiva «divisione», per volontà del popolo e ad opera di una legge,
in una zona riservata all’uso diretto della comunità, detta «demanio», e
una zona concessa in «proprietà privata».
La dimostrazione di
quanto testé affermato è estremamente semplice. Infatti, la nostra
Costituzione, agli articoli 42 e 41, contenenti norme immediatamente
prescrittive, da qualificare come «norme di ordine pubblico economico»,
si occupa sia della proprietà pubblica, nella quale rientra ovviamente
la «proprietà collettiva demaniale», sia della natura giuridica della
proprietà privata, alla quale pone rilevanti limiti, condizionando la
sua tutela giuridica allo «scopo di assicurarne la funzione sociale».
L’articolo 42 così prescrive: «La proprietà è pubblica e privata. I
beni economici appartengono allo Stato, a enti o a privati. La proprietà
privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi
di acquisto, di godimento e i limiti, allo scopo di assicurarne la
funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».
Risulta
evidente che, a differenza della «proprietà collettiva demaniale», che
ha fondamento nella «sovranità», ed è evidenziata, come si è accennato,
dall’espressione «proprietà pubblica», il diritto di proprietà privata
ha fondamento nella «legge», cioè in una manifestazione di volontà del
popolo, ed è completamente sganciata dai diritti fondamentali di cui
all’articolo 2 della Costituzione. Ed è opportuno ancora ribadire che,
comunque, è soltanto il popolo, che, esprimendosi attraverso la legge,
può decidere di «cedere» a singoli parti del territorio, per soddisfare
interessi individuali ed esclusivi.
Inoltre è di decisivo
rilievo il fatto che «la legge riconosce e garantisce la proprietà
privata», soltanto se questa «assicura lo scopo della funzione sociale e
di renderla accessibile a tutti».
La conclusione da trarre sul
piano giuridico è di somma importanza. Infatti, escludendo soltanto
quella che la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, nella
sua formulazione originaria, definisce la «proprietà personale», e
quindi la proprietà dei beni indispensabili per una vita «libera e
dignitosa» (art. 36 Cost.), come la proprietà diretta coltivatrice e la
proprietà della prima abitazione (art. 47 Cost.), la «grande proprietà
privata» ha una tutela giuridica soltanto se e in quanto «assicuri» la
«funzione sociale» e quindi l’«utilità sociale» della proprietà stessa.
Affermazione, questa, che concorda pienamente con quella parte della
dottrina 26, che ha posto in evidenza come il citato articolo
42 della Costituzione abbia modificato «il nucleo interno del diritto
di proprietà», di modo che «la struttura stessa del diritto viene a
esserne intaccata, e muta la natura di esso», mentre è da rilevare che
«la funzione sociale si presenta come un elemento caratterizzante la
situazione di proprietà, indipendentemente dall’esistenza attuale di un
dato normativo in cui si concreti» 27.
E non è chi
non veda come sia assolutamente da escludere che possa parlarsi di
funzione sociale e di utilità sociale nei casi di chiusura e
delocalizzazione di imprese a fini di maggior profitto e niente affatto
giustificate da gravi difficoltà finanziarie. In questi casi, «i terreni
e gli immobili abbandonati» dalle imprese che hanno chiuso o
delocalizzato al solo fine di conseguire maggiori profitti, debbono
intendersi (anche secondo un’interpretazione costituzionalmente
orientata dell’articolo 838 del codice civile) «automaticamente privati
della tutela giuridica» e rientrati, quindi, nella piena disponibilità
del popolo, il quale, mediante i suoi enti esponenziali, dovrà di nuovo
determinare la loro «destinazione economica».
Un illuminante precedente risalente al diritto romano è quello dell’ager desertus, che viene ricordato da due tarde costituzioni imperiali 28,
secondo le quali «se un proprietario lascia incolto il suo fondo, e
dopo una pubblica diffida dell’autorità locale non vi ritorna entro sei
mesi, chiunque può immettersi nel possesso del terreno: e tale possesso
si trasforma in proprietà, se entro i due anni il proprietario non
rivendica»; in particolare, secondo quanto precisa la costituzione n. 11
contenuta nello stesso Codex Iustiniani Augusti, «la mancata
presentazione dopo la diffida è in qualche modo considerata come
rinuncia alla proprietà, e più ancora è caratteristico che in testi
bizantini assai più tardi il regime della derelizione e quello dell’ager desertus sono considerati come tutt’uno» 29.
Il diritto romano (e poi quello bizantino), come si nota, considerava
la questione sotto il profilo della proprietà privata. La nostra
Costituzione, invece, pone in primo piano l’interesse sociale, ragion
per cui non è necessario far riferimento a «diffide» o «termini», poiché
è la stessa «tutela giuridica» che vien meno al momento dell’abbandono.
Né, ovviamente, si dovrà dimostrare il venir meno dell’animus possidendi,
poiché la disposizione costituzionale opera automaticamente e
indipendentemente dall’effettiva volontà del proprietario. Ponendo in
primo piano la «funzione sociale», il venir meno di questa produce, come
si è ripetuto, il venir meno della tutela giuridica della proprietà
privata e non occorre altro. L’unica cosa da dimostrare è l’effettività
dell’abbandono per facta concludentia, per fatti concludenti.
E tutto questo è puntualmente confermato dall’articolo 41 della
Costituzione, secondo il quale «l’iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da
recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana».
Dunque, la Costituzione dà «prevalenza giuridica» all’interesse sociale
su quello individuale: assicura in «proprietà privata personale» al
singolo quanto è indispensabile per la vita di ogni giorno, ma presidia
la «distribuzione della ricchezza» fondata sul «principio di
eguaglianza», prescrivendo che la grande proprietà privata deve servire a
«scopi sociali», deve giovare a tutti, e non soltanto a un singolo
individuo.
Entra in gioco, a questo punto, oltre al «principio
di eguaglianza», insito nella valutazione dell’interesse generale, anche
il principio della «partecipazione di tutti i cittadini» alla
«organizzazione politica, economica e sociale del paese» (art. 3, comma
2, Cost.), partecipazione che è ribadita dall’articolo 118 della
Costituzione, ultimo comma, secondo il quale lo Stato e gli altri enti
territoriali «favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e
associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla
base del principio di sussidiarietà». Il che significa che, in pratica, i
cittadini, singoli o associati, possono anche sostituirsi a una
pubblica amministrazione che resti inerte, svolgendo, in sua vece, una
vera e propria attività di carattere amministrativo. Funzione,
quest’ultima, che la Costituzione non «riserva» solo a organi dello
Stato, ovvero a enti pubblici territoriali.
Ed entra in gioco
altresì il diritto collettivo fondamentale di ogni cittadino, anche
questo fondato sulla «sovranità popolare», di «promuovere un’azione
giudiziaria» nel caso in cui siano violati gli interessi generali della
collettività. Infatti, come si è visto, il cittadino è «parte
strutturale» del popolo e nulla impedisce che, come «parte del popolo»
esso possa agire in giudizio a difesa di un interesse comune. Né occorre
far riferimento al concetto di «rappresentanza», poiché chi agisce come
«parte» a tutela di un interesse comune di «tutti», agisce, per
necessità di cose, nell’interesse proprio e nello stesso tempo di tutti
gli altri cittadini. Questo principio non è stato ancora generalizzato
dalla legge, ma sono noti, nel nostro ordinamento, più casi di azioni
popolari, come quelle riconosciute alle associazioni di consumatori o
alle associazioni ambientaliste.
È quanto avveniva in diritto romano mediante le azioni popolari, attraverso le quali il singolo civis poteva agire come parte del populus.
Insomma, è fuori discussione che l’avvento della Costituzione
repubblicana ha rotto lo spartiacque «pubblico-privato» e che anche il
«collettivo», cioè l’azione dei singoli come «parti del tutto» ha
ottenuto, per così dire, il suo diritto di «cittadinanza giuridica».
Di qui l’importanza di un’altra disposizione della nostra Costituzione,
quella dell’articolo 43, secondo il quale sono mantenute,
originariamente o mediante espropriazione, nella proprietà collettiva
della nazione talune imprese che si riferiscano a «fonti di energia», o a
«situazioni di monopolio», oppure a «servizi pubblici essenziali»,
affidandone la «gestione» non solo a enti pubblici, ma anche a «comunità
di lavoratori o di utenti».
È quanto è accaduto per la prima
volta, dopo la svolta tacheriana e reganiana, nel comune di Amburgo con
un referendum del 25 settembre 2013, che ha detto sì a un ritorno totale
delle reti elettriche a una «gestione pubblica» con una diretta
«partecipazione dei cittadini». Molto interessante, in proposito, è il
fatto che il professor Christian Janig, responsabile dell’azienda
municipale Unna ed esperto di energie, abbia dichiarato, dopo anni di
esperienza, che una gestione responsabile dal punto di vista ambientale
«è impossibile con le società private», mentre la professoressa Claudia
Kemfert, responsabile per l’economia dell’energia dell’Istituto tedesco
per la ricerca economica, abbia aggiunto: «Chi ha le reti ha il potere».
Si tratta di un convincimento, peraltro, che da noi fu proclamato già
nel 1903, allorché il ministro Giovanni Giolitti, nel presentare la
proposta di legge governativa sulla «municipalizzazione» dei servizi di
illuminazione pubblica e di acquedotti, ebbe a precisare che la gestione
privata di detti servizi aveva «prodotto conseguenze e fatti che non
potevano tardare a imporsi all’attenzione generale», poiché «da una
parte i comuni, preoccupati dai crescenti oneri finanziari, e nel tempo
stesso degli interessi dei cittadini, insistevano e lottavano per
conseguire riduzioni di prezzi e agevolezze che i concessionari erano
restii ad accordare; e dall’altra si notava sempre più larghezza dei
profitti che codesti servizi assicuravano agli esercenti, soprattutto
alle imprese concessionarie dell’illuminazione gas e di acquedotti» 30.
La cementificazione
Nonostante la descritta tutela costituzionale del «territorio», molti
sono stati i danni che i «proprietari privati» hanno inferto a questo
bene appartenente alla collettività. E, senza scendere nei particolari, a
noi sembra necessario indicare le tre forme di aggressione che
maggiormente hanno inciso sulla tenuta del territorio stesso. Ci
riferiamo: alla «cementificazione», alle «privatizzazioni» e «svendite»,
e alla causa principale di queste ultime, cioè alla «speculazione
finanziaria».
Quanto alla «cementificazione» 31, è
davanti agli occhi di tutti l’immenso, gravissimo danno da questa
prodotta al territorio. Al riguardo non si può che rinviare agli
interessantissimi studi di Salvatore Settis 32, il quale, ha
esposto, con estrema lucidità e con acutissime osservazioni, la
legislazione in tema di paesaggio e beni artistici e storici, nonché la
relativa giurisprudenza costituzionale, offrendo, statistiche alla mano,
un quadro completo di questo immane disastro.
Né può sfuggire
il fatto evidentissimo che si sono costruiti migliaia e migliaia di
appartamenti che non trovano acquirenti, e che, di conseguenza, hanno
distrutto chilometri e chilometri quadrati di terreno agricolo per
nulla, recando in tal modo un gravissimo danno alla collettività. Sembra
evidente, peraltro, che le cause di questo disastro siano
essenzialmente due: da un lato l’abusivismo edilizio e dall’altro la
sovente collusione tra amministratori e costruttori, con il conseguente
rilascio del cosiddetto permesso di costruire.
Dal punto di
vista giuridico, si è da tempo tentato di porre un freno a questo tipo
di speculazione, ma non si è riusciti a sradicare il diffuso
convincimento che il cosiddetto ius aedificandi, che è alla base di tutti i mali, sia insito nel diritto di proprietà privata 33.
Alle lamentele per la distruzione dei terreni agricoli, del paesaggio 34,
dei beni artistici e storici, non si è opposto l’esistenza,
costituzionalmente convalidata, di un prevalente «diritto di proprietà o
superproprietà» del popolo sul «territorio», e si è dato sempre maggior
rilievo, specie in giurisprudenza, alla tutela del diritto di proprietà
privata 35. Una vera sciagura, poiché non si è «opposto» al
«diritto di un singolo, che ha per fondamento la legge», «il diritto
inviolabile di tutti, che ha per fondamento la sovranità», ma si è
ritenuto che esistesse soltanto un diritto individuale in molti casi
«sacrificato» all’interesse pubblico.
Occorre invece far capire
che la tutela del paesaggio, dei beni culturali eccetera non
costituisce assolutamente un «limite» alla proprietà privata, ma è
espressione di una «tutela diretta» da parte dell’ordinamento giuridico
di beni che «appartengono» al popolo a titolo di sovranità, mentre è
invece la «proprietà privata», che costituisce un limite al diritto di
proprietà collettiva del popolo sul territorio, secondo la dinamica
giuridica che si è poco sopra chiarita. Insomma, non è la collettività
che toglie qualcosa ai singoli, ma è la proprietà privata che sottrae
alla proprietà e all’uso comune di tutti rilevantissime parti del
territorio.
Ne consegue che lo ius aedificandi
incidendo sul «territorio», e cioè su un bene di primaria importanza che
appartiene a «tutti» e a ogni singolo «come parte del tutto», non può
più essere considerato «insito» nel diritto di proprietà privata
individuale di cittadini considerati uti singuli, poiché in
base agli articoli 41 e 42 della vigente Costituzione repubblicana, in
base cioè a «norme imperative di ordine pubblico economico», la
«proprietà privata individuale» deve assicurare la «funzione sociale» e
non può essere in contrasto con l’utilità sociale o arrecare danno alla
sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. «Funzione sociale» e
«utilità sociale», che certamente non si perseguono con la distruzione
del paesaggio o del patrimonio storico e artistico della nazione.
Dunque, si deve necessariamente ritenere che la Costituzione impone una «riconduzione» dello ius aedificandi,
dal privato alla collettività, «scorporandolo» dal diritto di
«proprietà privata» e «inserendolo» nella «proprietà collettiva» di
tutti, e cioè nella «proprietà del popolo».
Alla luce della
«scoperta» e dell’«attuazione» delle citate disposizioni costituzionali,
si rinverdisce e assume un maggior vigore la legge 10 del 1977, la
cosiddetta legge Bucalossi, che aveva considerato lo ius aedificandi
come un «potere» della pubblica amministrazione e non come una «facoltà
insita nel diritto di proprietà privata», sicché non si era più parlato
di «licenza edilizia», ma di «concessione edilizia».
La
sentenza della Corte costituzionale 5 del 1980, che aveva invece
concepito il diritto a edificare come «insito» nel diritto di proprietà,
facendo sì che il decreto presidenziale 380 del 6 giugno 2001
introducesse la dizione «permesso di costruire», richiede, nel nuovo
quadro che si è tentato di tracciare una profonda revisione. Sembra
infatti innegabile che la stessa nozione di «Stato comunità», detto
anche «Stato sociale di diritto», introdotto dalla nostra Costituzione,
impedisca in radice la possibilità del singolo di distruggere la
«morfologia» (e spesso anche più della semplice morfologia) di un
elemento costitutivo dello Stato, in appartenenza collettiva del popolo
sovrano, e cioè il bene «territorio». Si ripete: è tempo di affermare
con forza che la «proprietà o la superproprietà collettiva» del
territorio «precede storicamente» e «prevale giuridicamente» sulla
proprietà privata.
Questo fondamentale concetto dovrebbe essere
ribadito nelle recenti proposte di legge per la tutela dei «terreni
agricoli». Se non si afferma, seguendo le citate disposizioni
costituzionali, che il «territorio è, originariamente, proprietà
collettiva di tutti» e che soltanto la volontà del popolo, che si
esprime mediante la legge, può limitare questa proprietà a favore di
singoli proprietari, si continuerà a parlare di ius aedificandi
come diritto soggettivo dei singoli, oppure come un «singolare potere»
degli amministratori comunali, che si traduce nella pratica di tutti i
giorni in una «merce di scambio», una sorta di «moneta sonante», offerta
da loro stessi ai costruttori.
Le privatizzazioni e le svendite
Il
più micidiale attacco contro il territorio e la sua appartenenza al
popolo è venuto, poi, dalle cosiddette privatizzazioni, e, in parole
povere, dalla «svendita» dei beni appartenenti alla collettività, al
solo fine di fare cassa.
Ha cominciato il decreto legislativo
351 del 25 settembre 2001, convertito nella legge 410 del 23 novembre
2001 («Disposizioni urgenti in materia di privatizzazione e
valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico e di sviluppo dei
fondi comuni di investimento immobiliare»), il quale ha previsto che con
decreti del ministro dell’Economia, oltre a istituire una società di
gestione, si provveda alla «cartolarizzazione» dei proventi derivanti
dalla «dismissione» del patrimonio immobiliare dello Stato e degli altri
enti pubblici non territoriali (artt. 1 e 2), precisando, all’articolo
3, comma 1, che «l’inclusione nei decreti produce il passaggio dei beni
al patrimonio disponibile».
Fortemente lesiva degli interessi
della generalità dei cittadini è stata poi la legge 112 del 15 giugno
2002 («Disposizioni in materia di […] cartolarizzazioni, valorizzazione
del patrimonio e finanziamento delle infrastrutture»), la quale ha
istituito la Patrimonio Stato S.p.A., poi soppressa con la legge 266 del
23 dicembre 2005, con il conseguente trasferimento delle sue funzioni
alla Cassa depositi e prestiti, sancendo la «cartolarizzazione» dei
proventi derivanti dalle alienazioni degli immobili facenti parte del
patrimonio disponibile o indisponibile dello Stato, o facenti parte del
demanio. Insomma, pur di far cassa, vendendo i beni appartenenti a tutti
i cittadini, non si è avuta nessuna remora a trasformarli, addirittura,
in titoli di credito, soggetti alle variazioni di Borsa.
La
successiva legge 133 del 6 agosto 2008 («Disposizioni urgenti per lo
sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la
stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria») ha
disposto, poi, la ricognizione e valorizzazione dei patrimoni
immobiliari di regioni, comuni e altri enti locali, al fine della
«redazione del piano delle alienazioni» (art. 1), precisando,
all’articolo 2, che «l’inserimento degli immobili nel piano ne determina
la conseguente classificazione come patrimonio disponibile e ne dispone
espressamente la destinazione urbanistica», mentre «la deliberazione
del consiglio comunale di approvazione del piano costituisce variante
dello strumento urbanistico generale».
Un campo, poi, nel
quale, sempre per compiacere le convinzioni mercantiliste dell’Unione
Europea, si è molto fatto ricorso alle «privatizzazioni» è stato quello
dei «servizi pubblici locali», per i quali l’articolo 23 bis della legge
133 del 6 agosto 2008 ha addirittura imposto l’affidamento e la
gestione a privati dei servizi pubblici locali di rilevanza economica,
mediante l’esperimento di gare a evidenza pubblica. Questa norma, come
sopra si è detto, relativamente ai servizi idrici è stata clamorosamente
abrogata dal referendum del giugno 2011, al quale hanno partecipato 27
milioni di italiani; sennonché, caparbiamente, il governo italiano ha
praticamente richiamato in vita quella parte dell’articolo 23 bis,
abrogato dal referendum, con l’articolo 4 del decreto legge del 13
agosto 2011, convertito nella legge 148 del 14 settembre 2011, n. 148,
che, tuttavia, la Corte costituzionale ha illuminatamente abrogato con
la storica sentenza 199 del 2012, chiarendo che la volontà popolare,
espressa con referendum ai sensi dell’articolo 75 della Costituzione,
non può assolutamente essere posta nel nulla con un provvedimento di
carattere legislativo. Per quanto riguarda i servizi idrici, dunque, la
situazione è stata riportata alla normalità, ma restano in piedi,
naturalmente, tutti gli altri servizi affidati e gestiti da privati.
Il più inaccettabile dei provvedimenti relativi alle privatizzazioni è
stato, comunque, il decreto legislativo 85 del 28 maggio 2010,
istitutivo, in esecuzione dell’articolo 19 della legge 42 del 5 maggio
2009, del cosiddetto federalismo demaniale. Questo provvedimento,
confermato da alcune successive modifiche, ha previsto la
regionalizzazione del demanio idrico, marittimo e minerario, e la loro
successiva vendita a privati, precisando che possono essere venduti
anche beni artistici e storici 36, purché i relativi atti di alienazione siano approvati dal ministero dei Beni culturali e ambientali.
Dunque, i beni dello Stato e degli altri enti territoriali, anche se
facenti parte del «patrimonio indisponibile» o, addirittura, del
«demanio», possono essere agevolmente venduti a privati, al solo fine di
far cassa. Ed è questo un colpo mortale contro la «proprietà collettiva
del territorio».
Si tratta, comunque, di provvedimenti che sono da ritenere in massima parte costituzionalmente illegittimi.
Infatti, detti provvedimenti, tra l’altro, alienano a privati dei beni
di altissimo valore, che, per un verso, sono «beni demaniali», e quindi
«inalienabili» per definizione e, per altro verso, sono comunque in
«proprietà collettiva» di tutti, come, ad esempio i «beni paesaggistici»
e i «beni artistici e storici». Lo hanno chiarito le sezioni unite
della Corte di Cassazione, le quali, con le sentenze 3811 e 3813 del 16
febbraio 2011, precedute in talune affermazioni dalla sentenza 3665 del
14 febbraio 2011, tutte riguardanti le valli di pesca della laguna
veneta, hanno implicitamente riconosciuto l’esistenza nel nostro
ordinamento dell’istituto della «proprietà collettiva», affermando che
l’articolo 42 della Costituzione «pur essendo centrato prevalentemente
sulla proprietà privata, esordisce con la significativa affermazione
secondo cui la proprietà è pubblica e privata, il che costituisce un
implicito riconoscimento di una diversità di fondo tra i due tipi di
proprietà», concludendo che «più che allo Stato-apparato, quale persona
giuridica pubblica individualmente intesa, debba farsi riferimento allo
Stato-comunità, quale ente esponenziale e rappresentativo degli
interessi della cittadinanza (collettività)». Il riferimento esplicito è
al «paesaggio», ma, ovviamente, lo stesso discorso vale anche per i
«beni artistici e storici», che l’articolo 9 della Costituzione tutela
come «patrimonio della nazione».
Tuttavia, anche per i beni
puramente economici, definiti beni in commercio, si può e si deve
parlare di illegittimità. Infatti le alienazioni di tali beni
impoveriscono la «proprietà collettiva» del popolo, poiché sottraggono
questi beni medesimi al soddisfacimento di interessi pubblici e
generali, per «destinarli» al soddisfacimento «pieno ed esclusivo» di
interessi privati di singoli soggetti, trasformando così la «proprietà
di tutti» in «proprietà individuale privata». Se si parla di caserme, di
immobili abbandonati o privi di pregio, perché non si pensa a una loro
utilizzazione come sedi di uffici pubblici, per l’affitto dei quali si
spendono cifre astronomiche, o per fini sociali rilevanti, per i quali
non ci sono sedi adatte, o, infine, per creare nuove carceri, delle
quali c’è tanto bisogno? E, se si tratta di «terreni abbandonati»,
perché non si pensa a cooperative di giovani che possono trarre un
reddito con la loro coltivazione? Anziché «svendere», perché non si
riutilizza il patrimonio immobiliare, ricavando enormi risparmi? I
risparmi sono «ingenti somme di danaro», certo non confrontabili con le
«mediocri entrate» che si realizzano con le «svendite». Se è così, e non
si vede come lo si possa negare, anche le svendite di immobili aventi
solo un valore economico costituiscono un «grave danno» per la
collettività e violano il diritto di tutti al benessere economico della
nazione.
Insomma, il problema è sempre lo stesso: occorre
aumentare e non ridurre la «proprietà collettiva» a favore della
«proprietà privata».
La speculazione finanziaria e le prescrizioni della trojka
Il
nemico più subdolo e pericoloso è, tuttavia, la «speculazione
finanziaria», la quale colpisce non solo il territorio, ma la comunità
politica nelle sue due maggiori componenti: il «popolo» e il
«territorio».
Infatti, la speculazione, per perseguire maggiori
guadagni, anziché investire in attività produttive, investe
nell’acquisto di «debiti», lucrando il massimo di interessi. In tal
maniera, assorbe «liquidità», impedisce alle banche di finanziare le
imprese, produce la chiusura o la delocalizzazione di queste, dando
luogo a «disoccupazione», «recessione» e «miseria».
La prima
vittima è, dunque, il «popolo». Ma segue subito il «territorio», poiché i
paesi sotto attacco, messi alle strette, e obbligati a «far cassa»,
sono costretti a «svendere» il proprio territorio al migliore offerente.
L’ignobile sistema seguito dagli speculatori finanziari si
fonda sulla «finanziarizzazione dei mercati», sulla trasformazione del
«mercato reale» in un mercato in gran parte «fittizio», nel quale si
scambiano prevalentemente «titoli commerciali» (la «debt economy»), che
hanno come «valori sottostanti» «crediti non garantiti», i quali non
sono rappresentati nemmeno da «pezzi di carta», ma da semplici
annotazioni su un computer.
Diverse sono le modalità che gli
speculatori utilizzano per la creazione di questi cosiddetti titoli
commerciali. Si ricorre, di solito, alle «cartolarizzazioni», che
consistono nel conferire ai crediti dei clienti, e alle loro attività
rischiose e illiquide, il valore di «titoli commerciali», scambiabili
sul mercato; oppure, per ottenere maggiori ricavi, si fa ricorso ai
cosiddetti derivati, titoli commerciali molto complessi fondati su
crediti non garantiti, e quindi «tossici»; infine si fa ricorso a
un’altra invenzione, quella dei «derivati dal credito», che chiamano in
ballo il concetto di «assicurazione del credito», ma sono anch’essi
fondati su crediti non garantiti, e addirittura su «scommesse» relative a
corse di cavalli o eventi atmosferici, e, quindi, sono ancor più
tossici 37.
Ma, oltre a «trasformare» i «debiti» in
«diritti di credito», oltre a mettere in circolazione «crediti non
garantiti», che provocano fallimenti e disastri, gli speculatori
finanziari, nella loro irrefrenabile corsa al guadagno facile, a partire
dal novembre del 2011, hanno attaccato persino i «debiti sovrani» degli
Stati e, in tal modo, hanno reso precaria la stessa vita dei popoli e
delle nazioni. Infatti, l’attacco ai debiti sovrani rende instabili i
tassi di interesse sul debito pubblico, i quali, secondo l’arbitrio
degli speculatori stessi, possono aumentare senza limiti fino al default
del paese sotto attacco. Non si dimentichi, infatti, che l’aumento o la
diminuzione dei tassi di interesse sul mercato secondario, sul quale
agiscono gli speculatori, si riflette, nello spazio di tre o sei mesi,
anche sul mercato primario, e cioè sulle emissioni da parte dello Stato,
il quale si vede costretto ad aumentare gli interessi dei titoli posti
in vendita, proseguendo così sulla strada già tracciata dagli
speculatori.
In sostanza, la stabilità economica di un paese è
sfuggita di mano ai politici e agli amministratori ed è passata nelle
mani degli speculatori finanziari, i quali non hanno nessuno scrupolo
nella loro opera di «destabilizzazione economica e finanziaria», poiché
il loro fine è solo quello di perseguire maggiori profitti. Insomma
nonostante si tratti di attività del tutto illecite, l’inerzia dei
governi, o addirittura la loro acquiescenza, ha fatto sì che la
«sovranità monetaria» passasse dalle mani degli Stati alle mani degli
speculatori finanziari.
Massimo Luciani, con espressione lucida e immaginifica, ha parlato di un «antisovrano», e cioè di «un quid
che in tutto e per tutto si contrappone al sovrano da noi
tradizionalmente conosciuto: non è un soggetto (ma semmai una pluralità
di soggetti); non dichiara la propria aspirazione all’assoluta
discrezionalità nell’esercizio del proprio potere (cerca anzi di
presentare le proprie decisioni come logiche deduzioni da leggi generali
oggettive, quali pretendono di essere quelle dell’economia e dello
sviluppo); non reclama una legittimazione trascendente (che sia la
volontà di Dio oppure l’idea dell’eguaglianza degli uomini), ma
immanente (gli interessi dell’economia e dello sviluppo, appunto); non
pretende di ordinare un gruppo sociale dotato almeno di un minimum
di omogeneità (il popolo di una nazione), ma una pluralità indistinta,
anzi la totalità dei gruppi sociali (tutti i popoli di tutto il mondo
che ritiene meritevole di interesse); non vuole essere l’espressione di
una volontà di eguali formata dal basso (si tratta infatti di un insieme
di strutture sostanzialmente e talora formalmente organizzate su base
timocratica). […] L’antisovrano si arroga un potere senza averne il
legittimo titolo […] è detentore di un potere che aspira a essere
universale, ed è l’agente che determina la crisi del mondo come
l’abbiamo fino ad oggi conosciuto. Un antisovrano, dunque, dal punto di
vista concettuale, ma inevitabilmente anche dal punto di vista pratico,
perché l’affermazione del suo potere presuppone proprio che l’antico
sovrano nazionale sia annichilito» 38.
Non può
sfuggire a questo punto che, attaccando i debiti sovrani, si attacca
anche la ricchezza propria di un paese, e in ultima analisi il valore di
scambio delle monete, la cui stabilità è stata sempre garantita da
accordi internazionali, a cominciare da quello di Bretton Woods (1943)
in poi, e che in tal maniera gli speculatori finanziari hanno posto in
essere un’azione profondamente illecita. Si può anzi parlare di
un’azione addirittura proditoria, poiché gli speculatori non hanno
affatto tenuto presente la reale situazione economica dei paesi che sono
stati attaccati e hanno così prodotto chiusure di imprese,
licenziamenti, recessione, povertà assoluta.
Una grande
responsabilità è da ascrivere, a questo proposito, alla cosiddetta
trojka (e cioè al Fondo monetario internazionale, alla Banca centrale
europea, dominata dalla Banca centrale tedesca, e alla Commissione
europea), la quale con le sue ben note «prescrizioni», ha imposto una
politica di austerity che, anziché far diminuire il debito pubblico, lo ha fatto aumentare, poiché ha provocato disoccupazione e recessione.
L’assurdo è che con questo tipo di politica e con i rating
delle agenzie, sono state distrutte tutte le possibilità di ripresa,
poiché a ogni piccolo «cedimento» sul piano economico, anziché
ricorrere, come sarebbe necessario, a un aiuto a favore di chi si trova
in una situazione di disagio, si procede con un ulteriore aumento dei
tassi di interesse, gettando nell’abisso il paese in difficoltà.
Per quanto riguarda l’Italia, è poi da sottolineare che l’attacco al
debito sovrano è stato del tutto ingiustificato, poiché l’Italia ha
sempre onorato i suoi debiti e non si capisce come, d’improvviso, nel
novembre del 2011, sia diventato rilevante per gli investitori
«l’ammontare» del suo debito pubblico, unitamente a quello di alcuni
altri paesi dell’Europa del Sud, visto che, ad esempio, il debito
pubblico del Giappone, che è maggiore del nostro, non ha subìto alcuna
variazione dei tassi di interesse.
E si deve ancora ricordare
che la stabilità dei tassi del debito pubblico, come la stabilità delle
merci ad alto consumo, ha, in Italia, addirittura una tutela penale
(vedi articolo 501 del codice penale, relativo al reato di aggiotaggio),
per cui non si vede per quale ragione il nostro legislatore, come i
legislatori di molti altri paesi, è rimasto inerte, sia di fronte alle
incomprensibili «statuizioni delle agenzie di rating», sia di fronte agli ingiustificati «giudizi di mercato» e ai conseguenti cosiddetti spread.
Ingiustificato è, in particolare, questo «differenziale» tra i titoli
di debito pubblico italiano e quelli tedeschi, che pone in gravissime
difficoltà le imprese italiane.
Il danno maggiore, per noi, è
che la Germania ha assunto in Europa una «posizione dominante», che
annienta il concetto stesso di «concorrenza», tanto tenuto in conto nei
trattati europei, e che impedisce agli imprenditori italiani, come si
accennava, di competere con i loro colleghi tedeschi.
A questo
punto, c’è da chiedersi se davvero è conveniente per l’Italia restare
nell’euro. E sembrano senz’altro da condividere le parole di Vladimiro
Giacché, secondo il quale «l’euro è nato come una sorta di scambio tra
la perdita dell’autonomia valutaria e bassi tassi di interessi. Oggi
l’incapacità dell’establishment europeo di affrontare il
problema del debito in modo serio, cioè in modo diverso da politiche
economiche depressive che peggiorano il problema anziché risolverlo, sta
spingendo un sempre maggior numero di paesi in un vicolo cieco:
precisamente quello costituito da tassi di interesse sul proprio debito
pubblico, e quindi anche su quello privato, talmente elevati da non
riuscire più a controbilanciare gli effetti negativi della perdita della
sovranità monetaria. In condizioni come queste, l’uscita dall’euro
potrebbe presto essere considerata come la vecchiaia per Maurice
Chevalier: una gran brutta cosa, ma sempre migliore della sua
alternativa» 39.
Ad ogni modo, quello che è certo è
che l’azione degli speculatori finanziari, le prescrizioni della trojka,
la situazione dominante della Germania contrastano pienamente con il
principio della «coesione economica e sociale» affermato dai trattati
sulla Comunità e sull’Unione europea. Sicché non si esce dal dilemma: o
cambia la posizione dei cosiddetti timonieri 40 dell’Europa,
oppure non ci resta che uscire dall’euro. Ci sarà certamente un aumento
del «protezionismo» e della «svalutazione», ma potremo finalmente
riacquistare la nostra «sovranità monetaria» e seguire altre politiche
che ci portino fuori della gabbia nella quale siamo stati chiusi. Si
potrà inoltre, e non è cosa da poco conto, intrattenere rapporti
commerciali più intensi con popoli a noi più vicini per cultura e
tradizione, o con gli stessi paesi emergenti del Brics.
Cosa fare?
Se si vuole poi stabilire cosa bisogna fare sul piano pratico, occorre
innanzitutto porre in evidenza che il nostro paese è stato colpito nei
due elementi fondamentali che costituiscono la comunità politica
italiana: il «territorio» e il «popolo».
E si tratta, questo è
un dato da sottolineare con forza, di «due elementi costitutivi della
comunità politica», che sono anche i «due fattori produttivi della
ricchezza», e cioè, come da sempre è stato riconosciuto, le «risorse
della terra» e il «lavoro dell’uomo» 41.
Quanto alle
«risorse della terra», e dopo quanto si è detto nelle pagine
precedenti, sembra che non ci sia da fare altro se non applicare la
Costituzione e in particolare gli artt. 41, 42 e 43, riequilibrando,
come si è ripetuto, il rapporto tra proprietà privata e proprietà
collettiva.
E applicare la Costituzione significa «riscrivere»
tutte le norme civili e penali che riguardano la «proprietà privata»,
con tutte le conseguenze che ne derivano, ad esempio in ordine alla
«imprescrittibilità» del diritto di proprietà, ovvero al ritorno
automatico nella proprietà collettiva dei «terreni abbandonati», dei
quali si occupa l’articolo 838 del codice civile.
Inoltre,
nell’immediato, è improcrastinabile un’«interpretazione
costituzionalmente orientata» delle vigenti norme sulla proprietà, da
parte dei giudici. Siamo andati avanti per lunghi anni senza tenere in
alcun conto le citate disposizioni di ordine pubblico economico
contenute negli articoli 41 e 42 della Costituzione. La crisi
pesantissima che stiamo attraversando dovrebbe farci aprire gli occhi e
farci capire che la salvezza del nostro paese non si raggiunge
«privatizzando», soddisfacendo cioè gli interessi di pochi soggetti, ma
«riconducendo» le risorse del nostro territorio nella «disponibilità
collettiva», per soddisfare gli interessi primari di tutti i cittadini.
Riappropriamoci, dunque, della nostra terra e rendiamola, come è, «fattore di ricchezza».
Per quanto in particolare riguarda il «lavoro», si è visto che il nemico maggiore è la speculazione finanziaria.
Il problema, come si è detto, può risolversi soltanto sul piano europeo
o internazionale. Intanto, è possibile ricorrere ad alcuni correttivi.
Si potrebbe cominciare a disincentivare le speculazioni, ad esempio,
separando le banche ordinarie e la Cassa depositi e prestiti, dalle
banche di investimento, pubblicando mensilmente da parte di un’authority un bollettino nel quale appaia il reale spread, depurato dal maggior valore impostogli dalla speculazione e così via dicendo.
E inoltre, se proprio si preferisce non uscire dall’euro, almeno si
chieda all’Europa un paio di anni di «sospensione» dai nostri obblighi
e, in questo periodo, rilanciamo effettivamente l’economia, non con
azioni di governo del tutto insignificanti che lasciano tutto nello
stato in cui si trova.
Come diceva Keynes (che per la tesi detta del pump priming è ancora ritenuto valido, mentre lo si rifiuta per la politica del deficit spending
sistematico), in una situazione di grave recessione è indispensabile il
ricorso allo Stato. È cioè assolutamente necessario fare una grande
opera pubblica, ad esempio il ristabilimento dell’equilibrio
idrogeologico d’Italia, in modo da impiegare il maggior numero possibile
di operai, i quali, aumentando i consumi, possano far girare di nuovo
la ruota dell’economia reale.
Questa è la medicina. Se
continuiamo per la strada sulla quale ci ha gettato la speculazione
finanziaria non avremo nessuna possibilità di uscita.
NOTE
1 P. Calamandrei, «Cenni introduttivi alla Costituzione e i suoi lavori», in Commentario Calamandrei-Levi, I, XXXV, e anche in P. Calamandrei, Scritti e discorsi politici, La Nuova Italia, Firenze 1966, p. 461. 2 S. Rodotà, in una recente riedizione del suo antico e famoso volume, Il terribile diritto,
il Mulino, Bologna 2013, p. 469, precisa che i beni comuni «sono,
anzitutto, quelli essenziali per la sopravvivenza (l’acqua, il cibo) e
per garantire eguaglianza e libero sviluppo della personalità (la
conoscenza)». 3 Vedi U. Mattei, E. Reviglio e S. Rodotà, Invertire la rotta, il Mulino, Bologna 2007; gli «Atti di una giornata di studi presso l’Accademia dei Lincei», pubblicati nel volume I beni pubblici: dal governo democratico dell’economia alla riforma del codice civile, Accademia dei Lincei, Roma 2010; M.R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato, Ombre corte, Verona 2012. Si veda anche A. Lucarelli, «Proprietà pubblica, principi costituzionali e tutela dei diritti», in I beni pubblici, cit., nonché, Beni comuni dalla teoria all’azione politica,
Dissensi, Viareggio 2011, nei quali, si avverte l’esigenza di ancorarsi
a un tipo di appartenenza che non sia né pubblica né privata, ma
comune. 4 C. Iannello, Il diritto all’acqua, La
Scuola di Pitagora editrice, Napoli 2012, pp. 37 ss. Sono da ricordare,
al riguardo, i Movimenti per la giustizia ambientale. Vedi G. De Marzo, Anatomia di una rivoluzione, Castelvecchi, Roma 2012. 5 A. Lucarelli, La democrazia dei beni comuni, Laterza, Roma-Bari 2013. 6 M. Bretone, Storia del diritto romano, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. 349. 7 C. Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi, Milano 1991, pp. 19 ss. 8 S. Rodotà, op. cit., p. 464. 9 U. Vincenti, Diritto senza identità, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 3 ss. 10 P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Giappichelli, Torino 1974. 11 A. Guarino, Storia del diritto romano, Jovene, Napoli 1969, p. 123. 12 B.G. Niebuhr, Romische Geschichte, Reimer, Berlin 1811, vol. I, pp. 245 ss. 13 P. Grossi, Un altro modo di possedere, Giuffrè editore, Milano 1977. 14 C. Cattaneo, «Su la bonificazione del Piano di Magadino a nome della Società promotrice. Primo rapporto», in Scritti economici, a cura di A. Bertolino, Firenze 1956, III, pp. 187 ss. 15 V. Cerulli Irelli, Proprietà pubblica e diritti collettivi, Cedam, Padova 1983. 16 Gai Institutiones, II, 1. 17 P. Maddalena, «I beni comuni nel diritto romano», www.federalismi.it, ed. in Studia et documenta historiae et iuris, ottobre 2013. 18 Corte costituzionale, sentenze n. 105, del 2008; n. 1, del 2010; n. 112, del 2011. 19 N. Capone, «Cultura e libertà nel dibattito all’Assemblea costituente», in Libertà di ricerca e organizzazione della cultura. Crisi dell’università e funzione storica delle accademie, La Scuola di Pitagora Editrice, Napoli, 2013. 20 V. Cerulli Irelli parla di «spazi di libertà», in voce «Uso pubblico», cit. p. 967. 21 S. Rodotà, op. cit., pp. 19 ss. 22 Ivi, pp. 21 s. 23 Vedi al riguardo l’interessantissimo lavoro di M. Esposito, I beni pubblici, Giappichelli, Torino 2008, pp. 70 ss. 24 S. Rodotà, «L’interpretazione della Corte costituzionale: la sentenza n. 55», in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Rapporti economici, tomo II, Zanichelli, Bologna 1982, pp. 121 ss. 25 M.S. Giannini, «Basi costituzionali della proprietà privata», Politica del diritto, 1971, p. 482. 26 S. Pugliatti, La proprietà nel nuovo diritto, Giuffrè, Milano 1964, p. 281. 27 S. Rodotà, op. cit., p. 254. 28 Codex Iustiniani Augusti, 11, 58, 8 e 11. 29 V. Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Jovene, Napoli 1952, p. 190. 30 C. Iannello, Il diritto all’acqua, La scuola di Pitagora editrice, Napoli 2012, p. 63. 31
La legislazione sulla tutela del paesaggio, una delle migliori al
mondo, non è riuscita ad aver la meglio sull’azione perniciosa della sua
devastazione. Sulla tutela del paesaggio, vedi l’organico e completo
lavoro di G. Severini, «La tutela costituzionale del paesaggio»,
www.giustizia-amministrativa.it, 2005. 32 S. Settis, Paesaggio costituzione cemento, Einaudi, Torino 2010; Id., Azione popolare, Einaudi, Torino 2012. 33 Sull’argomento, S. Settis, Paesaggio… cit., pp. 6 ss. 34 Sul tema del paesaggio, vedi G. Severini, op. cit. 35 S. Settis, Azione popolare, cit., pp. 46 ss., giustamente parla di un dovere dell’uomo ad agire per l’ambiente. 36 Sulla privatizzazione dei beni culturali pubblici, vedi l’ottimo saggio di S. Mabellini, La
«valorizzazione» come limite costituzionale alla dismissione dei beni
culturali pubblici e come «funzione» della proprietà pubblica del
patrimonio storico artistico, DeS-Editoriale scientifica, 2012, pp. 203 ss. 37 Su questi argomenti, vedi L. Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi, Torino 2009, pp. 93 ss. 38 M. Luciani, «L’antisovrano e la crisi delle Costituzioni», in Scritti in onore di Giuseppe Guarino, Cedam, Padova 1998, vol. II, pp. 780 ss. 39 V. Giacché, Titanic Europa, Aliberti, Roma 2012, p. 137. 40 Ivi, p. 138. 41 Sull’importanza del lavoro, G. Zagrebelsky, Fondata sul lavoro, Einaudi, Torino 2013.
(27 marzo 2014)
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domenica 30 marzo 2014
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