Da un'inchiesta partecipata sull'università italiana emergono le ingiustizie e il senso di soffocamento dentro l'industria del sapere. Per uscirne, le varie componenti di quel mondo devono riprendere a parlarsi e difendere il più comune dei beni.
jacobinitalia.it Emiliana Armano Francesco Maria Pezzulli
In queste settimane cresce negli atenei la mobilitazione contro la nuova riforma dell’Università che taglia i fondi e precarizza ulteriormente il lavoro di ricerca. Francesco Maria Pezzulli, sociologo, ricercatore indipendente e docente presso l’Università Sapienza di Roma, da tempo compie un’approfondita indagine sulle trasformazioni dell’Università in Italia, offrendo uno sguardo critico, originale e attento ai cambiamenti che, nel lungo periodo, interessano il sistema accademico. Recentemente ha pubblicato L’università indigesta. Professori e studenti nell’accademia neoliberale (Deriveapprodi, 2024), un libro che affronta in modo agile e brillante le dinamiche di questa evoluzione. Più che un’intervista, gli abbiamo proposto una conversazione intorno ai temi centrali del libro, per esplorarli insieme in profondità.
Il titolo L’Università indigesta suona provocatorio e controcorrente rispetto alle retoriche con cui si descrive l’Università oggi. Come nasce questo libro? Mi racconti un po’ dell’inchiesta che sta alla base della tua analisi militante?
Nel tuo libro critichi la trasformazione dell’università italiana facendo un excursus sistematico e di lungo periodo dagli anni Ottanta in poi, concentrandoti anzitutto sullo smarrimento del «diletto» dello studio, come «anticipato» da Leopardi. Il depauperamento del piacere di conoscere sembra che sia uno dei tratti peggiori, tra i vari deleteri effetti prodotti dalle riforme che vi sono state in Italia negli ultimi decenni, tra cui quella di Ruberti, e poi Berlinguer e Gelmini, che hanno trasformato le università in luoghi dominati prevalentemente da criteri aziendali di efficienza e produttività. In un processo lungo e lento che ricorda la famosa bollitura della rana, in questi anni le competenze hanno sostituito i saperi, la produzione di capacità critica ma anche di capacità soltanto è stata resa insignificante e poi sono mutati profondamente i modelli di relazione. Quali sono le tesi principali del tuo libro?
Nel tuo libro critichi aspramente la
deriva conformista che ha portato molti docenti a diventare semplici
esecutori di compiti settorializzati, analoghi agli operai della catena
di montaggio, senza più una visione d’insieme del loro lavoro. Questo
sistema, alimentato dalla pressione del «publish or perish» (pubblica o
muori), spinge i ricercatori a concentrarsi su studi che garantiscano
finanziamenti, piuttosto che a esplorare nuove frontiere del sapere. Già
tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, all’epoca
del movimento della pantera, Romano Alquati discutendo della allora
prima riforma Ruberti, nell’analizzare le dinamiche operate dalla
riforma nell’ambito della formazione universitaria, metteva in evidenza
l’emergere di un’ambivalenza indissolubile tra la tendenza al
potenziamento capitalistico e contemporaneamente quella
all’impoverimento delle capacità umane del pensiero e dell’espressione.
Che ne pensi? Secondo te in questo processo oggi la tendenza
all’impoverimento è diventata prevalente?
Lasciami aggiungere una cosa su Romano Alquati e la Riforma Ruberti, di cui la tua intervista su Machina è una espressione esemplare, e cioè che quanto per il sociologo di Clana era già evidente, trent’anni fa non era immediatamente percepibile. E un’altra cosa che oggi mi sembra particolarmente istruttiva sono le critiche di Alquati agli studenti «che fuggono davanti ai problemi aperti» e si rifugiano nel ruolo di esecutori disegnato per loro dall’università neoliberale, con tutto il carico di impoverimento intellettuale e banalizzazione dei saperi che ciò comporta. Banalizzazione oggi amplificata dal processo di digitalizzazione in corso.
In un sistema universitario
così trasformato, tutte le figure coinvolte sembrano gravemente colpite e
messe in contrasto tra loro, incapaci di riconoscersi reciprocamente.
Da un lato, ci sono docenti, ricercatori e personale tecnico, sempre più
soggetti a criteri di valutazione di stampo iperindustriale, demotivati
e intrappolati in una logica che misura ogni attività o prodotto
esclusivamente in termini di valore economico quantificabile,
indipendentemente dal suo reale significato o dalla sua utilità
didattica e formativa. Dall’altro, ci sono studentesse e studenti,
orientati a produrre frammenti di conoscenza parimenti quantificabili,
ridotti a voti e crediti, a discapito di ogni forma di riflessione,
condivisione di pensiero o collaborazione tra pari.
In
questo tradimento dell’ideale culturale, non emergono solo il lamento,
la rassegnazione e il conformismo diffuso, con i docenti che si
allontanano dalla missione etica dell’insegnamento e gli studenti che si
affannano per tenere il passo della produttività degli esami. Esistono,
anche altre vie. Una è quella del conflitto come forma di resistenza
collettiva, un tema su cui tu stesso hai riflettuto, che Salvatore Cominu e Carlo Vercellone
affrontano nei loro scritti, che si ricollega all’ampio discorso del
riconoscimento dei nuovi diritti del lavoro della conoscenza da molto
tempo sostenuto da Sergio Bologna. L’altra invece è l’interiorizzazione della logica prestazionale, una forma di sofferenza personale che Federico Chicchi descrive efficacemente.
Ti
chiedo: come possiamo uscirne? E, soprattutto, a quali condizioni
l’esperienza individuale di sofferenza, di ingiustizia e di
inadeguatezza può trasformarsi da colpa individuale a forza propulsiva
per un riconoscimento e un’azione collettiva liberatoria, orientata
verso un nuovo orizzonte di significato? Secondo te, esiste tra la
maggioranza una consapevolezza che questo modello iperindustriale di
formazione è fondato sull’ingiustizia sociale, specialmente per come
perpetua le disuguaglianze? Oppure ritieni che prevalga l’idea che il
successo individuale sia unicamente frutto del merito e, dunque, che
questo ordine sia giusto e da accettare?
La tua domanda
pone una questione politica cruciale. Come se ne esce? Non ho risposte
certe o precise, ma come ricordi ci sono delle indicazioni importanti di
Carlo Vercellone in testa al volume e di Federico Chicchi in coda, e
anche di Federico Bertoni nel mezzo. Ad esempio, secondo quanto scrive
Carlo Vercellone se ne potrebbe uscire con un salto in avanti dei lavori
della Commissione Rodotà, che in ogni caso ha considerato l’università
nell’ambito dei beni comuni, come un’istituzione pubblica e inalienabile
rispetto a interessi privati. In più, l’approccio dell’università bene
comune potrebbe: ridefinire chiaramente il rapporto tra la comunità
universitaria e lo Stato, in cui quest’ultimo, nel solco della divisione
liberale dei poteri, non può definire le regole di governance, i
programmi e le missioni; dimostrare che il pubblico può essere gestito e
organizzato come un’istituzione del comune, che può essere cioè
autogovernata dai soggetti che ne beneficiano e la fanno funzionare
attraverso forme di democrazia diretta e partecipativa, opposte tanto
alla logica burocratica dello Stato che a quella delle gerarchie
aziendali. A un differente livello di analisi credo che il modo migliore
di uscirne cominci dal fatto che professori e studenti riprendano a
parlare tra loro e a ritessere quella rete di reciprocità che può dare
senso compiuto a una comunità universitaria in grado di «ridefinire» e
«dimostrare», nei termini appena detti, che la missione dell’università è
principalmente quella della formazione di un individuo sociale completo
e di custodire il sapere come il più comune dei beni. Non sto parlando
della gran massa dei professori (in attesa della pensione, affannati
nelle consulenze, stressati dagli indicatori bibliometrici per la
carriera) ma di quei docenti, nel libro definiti critici insider,
che continuano a considerare il sapere come il più comune dei beni e
l’insegnamento come la messa in comune e condivisione di questo bene. E
non sto parlando neppure dei molti studenti e studentesse che
intrappolate nel vortice di moduli, lezioni ed esami sempre imminenti,
abbracciano i tempi e il credo neoliberale senza farsi troppe domande,
ma di quelli che non sono ancora diventati (in parte o in tutto)
capitale umano e che per un qualche motivo intendono sfuggire a questo
destino, detto altrimenti, che resistono alla corruzione neoliberale.
Per
quanto riguarda l’altra tua seconda domanda, invece, non penso che a
livello di massa ci sia la convinzione che l’attuale modello di
università si basi sull’ingiustizia, piuttosto penso che si tende ad
accettarlo così com’è, in questo senso le classifiche delle università
(eccellenti e meno eccellenti), che hanno gerarchizzato e messo in
competizione Dipartimenti e Atenei, lubrificate con la retorica del
merito, hanno favorito una lettura acritica quanto non positiva
dell’accademia neoliberale. Però, è pur vero che l’università continua a
essere un tema sensibile verso il quale c’è solitamente una certa
disposizione al ragionamento e le posizioni dei soggetti non sono
particolarmente rigide e possono oscillare in tempi molto brevi.
*Emiliana Armano, sociologa e ricercatrice indipendente, è dottore di ricerca in sociologia economica presso l’Università degli Studi di Milano. Si occupa di ricerca militante su soggettività e precarizzazione nel capitalismo digitale. Francesco Maria Pezzulli è sociologo e ricercatore indipendente. Ha insegnato presso l’Università La Sapienza di Roma e svolge attività di ricerca e inchiesta nel Laboratorio sulle Transizioni, il mutamento sociale e le nuove soggettività dell’Università degli Studi di Roma Tre. Si occupa del rapporto tra sviluppo capitalistico e Mezzogiorno.
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