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di: Alberto Piccinini e Carlo Sorgi
1.
Il tema del salario minimo (SM) è in stretta connessione con quello della necessità di individuare un argine per affrontare il gravissimo problema sociale del lavoro povero.
A 20 mesi dal lockdown, il numero dei lavoratori dipendenti – secondo l’Istat – ha superato il livello del febbraio 2020. Ma i rapporti a tempo indeterminato hanno ceduto il passo, sostituiti da contratti brevi che spesso sono anche a tempo parziale. Un’evoluzione che, come ha evidenziato l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (INAPP), inevitabilmente allarga la platea dei working poors, ricomprendendo quelle persone che nonostante abbiano un posto non arrivano a fine mese e hanno bisogno del sostegno del welfare. Perché la retribuzione media annua di un lavoratore precario (dati Inps 2020) è di 8.500 euro che scendono a 5.600 per gli stagionali. E per l’occupazione femminile si può parlare di “debolezza rafforzata” perché, come rileva sempre l’INAPP: «quasi la metà (il 49,6%) delle nuove assunzioni di donne è a tempo parziale, contro il 26,6% di quelle degli uomini. E il 42% dei nuovi contratti di donne associa al regime orario a tempo parziale anche una forma contrattuale a termine o discontinua, debolezza questa che riguarda solo il 22% della nuova occupazione maschile…».
Neppure la crescita economica realizzata nel 2021 in Italia (+ 6,2%) si è trasmessa sull’occupazione, meno che mai in termini qualitativi. Ma il lavoro povero, oltre ai profili economici, ha anche delle conseguenze sociali e politiche esplosive: il precariato non individua solo la sofferenza derivante dall’incertezza del posto di lavoro ma anche un’insicurezza nella stessa identità, oltre all’impossibilità di esercitare un controllo sul tempo. A tale situazione occorre reagire con politiche sociali di workfare, mettendo in campo ambiziose riforme sociali e politiche che vadano in direzione del riconoscimento del diritto alla sicurezza finanziaria. In mancanza di decisioni coraggiose e incisive su questi temi, le società andranno incontro a ondate di violenza e di collera, e all’emergere di istanze populistiche o intolleranti cavalcate da partiti di estrema destra.
Un punto deve essere chiaro come premessa per qualsiasi ragionamento: per i sindacati, la lotta per un salario equo dovrebbe rappresentare un elemento costitutivo della loro stessa ragion d’essere, nel perseguimento del fine di rendere il lavoro condizione effettiva di inclusione e cittadinanza, di sconfiggere la povertà e di evitare la competizione distruttiva fra lavoratori e aziende. Tale punto di partenza, che si assume come condiviso, dovrebbe indurre le forze sindacali a un atteggiamento non pregiudizievolmente negativo rispetto alle proposte sul salario minimo, anche se il salario minimo non basta, da solo, per risolvere il problema del “lavoro povero”, legato a doppio filo anche ai troppi part time involontari, alla bassa quota di donne che lavorano, all’assenza di politiche industriali che favoriscano la creazione di posti di alta qualità.
2.
Riprendendo la proposta di direttiva della Commissione Europea dell’ottobre 2020, l’11 novembre 2021 il Parlamento Europeo ha votato a maggioranza una proposta di direttiva relativa a salari minimi adeguati nell’Unione Europea, e lo scorso 6 dicembre il Consiglio dell’Unione Europea ha raggiunto un orientamento generale su un progetto di atto legislativo dell’UE sui salari minimi e su una proposta di direttiva sulla trasparenza delle retribuzioni al fine di migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle persone. Sempre a livello europeo, il punto 6 del Pilastro europeo dei diritti sociali prevede che debbano essere «garantite retribuzioni minime adeguate». Attualmente nella Ue, a fronte di 21 Paesi che hanno un salario minimo nazionale, solo sei (Svezia, Finlandia, Danimarca, Austria, Cipro e Italia) non lo hanno ancora adottato. L’ammontare del salario, rapportato a mese, varia dal massimo del Lussemburgo (circa € 2.200) al minimo della Bulgaria (circa € 332), con previsione di aumenti collegati all’aumento del costo della vita.
È noto che le principali resistenze all’introduzione, anche nel nostro Paese, di un analogo provvedimento, vengono dalle organizzazioni sindacali, che temono le ripercussioni sulla contrattazione collettiva. Tra gli argomenti di contrasto vi è il (giusto) richiamo all’ampia regolamentazione, da parte di questa, di molteplici istituti di carattere normativo che non sarebbero coperti da un intervento che si limitasse all’aspetto economico. Viene inoltre evidenziato dalle Organizzazione sindacali che in Italia oltre l’80% dei lavoratori sono “coperti” dai contratti collettivi e che la garanzia di applicazione dell’art. 36 Costituzione può comunque avvenire, nei singoli casi, attraverso il ricorso alla magistratura che utilizza in via equitativa le tabelle salariali dei contratti collettivi nazionali sottoscritti dai sindacati comparativamente più rappresentativi come parametro di riferimento per adeguare retribuzioni non proporzionate e insufficienti.
Tali argomentazioni non sembrano convincenti, e se da un lato ci sembra comprensibile che esse vengano portate avanti con fermezza e determinazione dalle associazioni datoriali, dall’altro suscita perplessità che esse siano fatte proprie da chi ha a cuore l’interesse dei lavoratori. Quanto alla tesi che la così ampia “copertura” da parte della contrattazione collettiva renderebbe superfluo l’intervento della legge per garantire dei livelli minimi salariali viene facile una riflessione: secondo il 55° rapporto Censis pubblicato all’inizio di dicembre 2021, il nostro Paese è l’unico, in Europa, in cui i salari sono diminuiti negli ultimi 30 anni. Sembrerebbe fin troppo facile, a questo punto, ironizzare sulla enfatizzata portata salvifica della contrattazione collettiva sotto il profilo della garanzia salariale. Parimenti l’argomento secondo cui il risultato della retribuzione sufficiente potrebbe essere ugualmente conseguito instaurando un procedimento giurisdizionale non considera quantomeno due circostanze: a) una controversia giudiziaria comporta oneri, tempi e rischi che disincentivano sempre più il ricorso alla giustizia; b) in un contesto di perdurante assenza di una legge sulla rappresentanza, e in presenza di oltre 900 contratti collettivi (di cui molti “pirata”), non sempre è agevole, per lo stesso giudice, l’individuazione del contratto applicabile. E occorrerebbe, inoltre, un approfondimento, da compiere con la necessaria dose di onestà intellettuale, sulle presunte esclusive colpe dei contratti “pirata”: se, infatti, essi non esistessero, la materia potrebbe ugualmente essere affidata con esclusività alla contrattazione collettiva sottoscritta dalle associazioni comparativamente più rappresentative, senza ingerenze legali o giurisprudenziali? E, ancora: è immaginabile che il giudice possa sconfessare scelte salariali comunque prodotto di una genuina autonomia collettiva? C’è forse il rischio di porsi in contrasto con il principio di libertà sindacale, senza trovare adeguato supporto nel mandato ricavabile sull’art. 36 della Costituzione?
3.
Il fatto che sia difficile, per il giudice, sconfessare i contratti collettivi prodotti da una genuina autonomia collettiva non elimina l’imbarazzo dato dall’esistenza di contratti stipulati da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative che fissano trattamenti retributivi estremamente bassi, tanto da aver determinato la censura di alcuni tribunali che li hanno ritenuti insufficienti, e quindi in contrasto con l’art. 36 Costituzione. La prima di tali sentenze (Trib. Torino 9 agosto 2019 n. 1128) – che ha ritenuto inadeguato il trattamento economico di € 5,37 lordi orari per 40 ore settimanali, corrispondente alla retribuzione di € 930 mensili stabilito dall’art. 24 dalla sezione Servizi Fiduciari del Ccnl Vigilanza sottoscritto da Cgil e Uil – ritiene che il principio sancito dall’art. 36 Costituzione costituisca «un fondamentale punto di riferimento non solo per il legislatore, ma anche per la contrattazione collettiva e un indubbio limite alla facoltà di determinazione del trattamento retributivo da parte di quest’ultima» e considera doverosa la verifica del rispetto dei principi di proporzionalità e adeguatezza della retribuzione. La sentenza procede quindi a un analitico raffronto non solo con il trattamento economico, orario, mensile e annuo, previsto da altri contratti collettivi (Ccnl multiservizi, Ccnl proprietari dei fabbricati, Ccnl Terziario, Ccnl agenzie investigative, Unci), ma anche con il tasso di “povertà assoluta” individuato, nello stesso anno, per un cittadino in un’area metropolitana del Nord con le stesse caratteristiche del lavoratore che aveva promosso il giudizio, risultando la retribuzione a lui corrisposta «sensibilmente inferiore ad esso». Dunque, il riferimento alle retribuzioni fissate dai contratti collettivi sottoscritti dai sindacati comparativamente più rappresentativi è una indubbia giusta base di partenza, ma non può essere il punto di arrivo, e la presunzione di sufficienza di esse deve trovare altre sponde, che a nostro avviso non possono essere solo frutto di interpretazione giurisprudenziale.
Si dice, ancora, che, ove la legge prevedesse un salario minimo poco elevato, questo porterebbe a un allineamento al ribasso anche dei livelli retributivi più alti; al contrario, ove fosse addirittura più alto di quello previsto da molti contratti collettivi, ciò creerebbe non meglio precisati problemi, a parte l’imbarazzo per coloro che li hanno negoziati. Da giuristi non proviamo scandalo a immaginare che, laddove i rapporti di forza contrattuali non abbiano potuto consentire, a chi rappresenta gli interessi dei lavoratori, di conseguire risultati auspicati, a supporto degli stessi interessi possa intervenire il legislatore, in piena attuazione di una Carta costituzionale che, ponendo il lavoro al suo epicentro, certo non intendeva solo esprimere astratti precetti. Pur non essendo mai mancati pareri contrari all’intervento della legge nelle relazioni industriali, tutto il diritto del lavoro che è sorto nel dopoguerra e si è sviluppato nei successivi primi decenni, con la specifica finalità di garantire per legge certi diritti, non si è posto in contrapposizione con la contrattazione collettiva, ma a supporto di essa, a partire dalla tutela contro i licenziamenti illegittimi, fino al 1966 affidata ai soli accordi interconfederali.
Quanto alla sua misura, non bisogna “temere” che il salario minimo sia troppo alto rispetto alle paghe medie. Ove tale provvedimento servisse a controbilanciare, seppure parzialmente, lo squilibrio sociale consolidatosi negli ultimi decenni a vantaggio dei più abbienti e delle imprese, ciò non impedirebbe affatto alle associazioni sindacali dei lavoratori di negoziare, eventualmente, salari ancora più alti per determinati settori e/o categorie di lavoratori: troverebbe, in questa ipotesi, più spazio il secondo requisito richiesto dall’art. 36 Costituzione rispetto alla “sufficienza” (concetto, per definizione, rapportato “ai minimi”), vale a dire la “proporzionalità”. Nello stesso tempo l’intervento legislativo supporterebbe quei negoziatori, anche confederali, che – come si è detto – in qualche settore si sono visti costretti a prevedere minimi salariali censurati dalla magistratura come inadeguati giustificandolo con il fatto che, altrimenti, il contratto sarebbe stato sottoscritto da altri sindacati e/o i datori di lavoro avrebbero trovato altre vie di utilizzo di manodopera al di fuori del lavoro subordinato: un salario minimo legale dignitoso esteso – negli effetti – anche alle collaborazioni coordinate e continuative etero-organizzate spazzerebbe in un sol colpo tutti i contratti “pirata” nati proprio per sotto-pagare il lavoro, proiettando verso l’alto la contrattazione. A ciò si aggiunga che, nei rinnovi contrattuali, spesso incentrati prevalentemente sugli incrementi salariali, ove il tema trovasse uno specifico supporto normativo, verrebbe lasciato maggiore spazio per negoziare su altri temi sui quali spesso si riportano per decenni le stesse formulazioni, anche quando le novità legislative suggerirebbero integrazioni e/o modifiche.
È quindi auspicabile che, come è avvenuto un ripensamento da parte delle organizzazioni sindacali più rappresentative rispetto all’opportunità di regolamentare per legge l’applicabilità erga omnes dell’efficacia dei contratti collettivi, quando la si era fortemente contrastata nei decenni precedenti, anche sul tema del salario minimo si possa pervenire a una nuova riflessione.
Una versione più ampia dell’articolo, con note e riferimenti bibliografici, può leggersi in Questione giustizia (https://www.questionegiustizia.it/articolo/salario-minimo-per-combattere-il-lavoro-povero)
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