Incontriamo
l’avvocato Caterina Calia del Foro di Roma per sviluppare qualche
riflessione circa l’attuale situazione del sistema carcerario italiano e
sui gravi e ripetuti abusi, contro la popolazione carceraria, che si
sono e si stanno consumando in questo periodo di infezione pandemica. Ma
“approfittiamo” anche per una chiacchierata sul complesso dell’universo
carcere in Italia.
*****
Non
ci voleva uno stratega per prevedere che, a fronte della legittima
paura per la preoccupazione di contagiarsi e considerando il cronico
sovraffollamento delle carceri italiane, con i relativi problemi di
vivibilità, si sarebbero prodotte tensioni e proteste da parte della
popolazione detenuta. Che giudizio dài dell’operato – in materia di
previsione e di predisposizione di serie misure a tutela della salute –
del Ministero di Grazia e Giustizia?
Il
giudizio non può che essere negativo. Il pericolo legato alla
diffusione del virus si è innestato su condizioni di fatiscenza,
sovraffollamento, carenza di presìdi sanitari degli istituti
penitenziari. Condizioni note anche a chi il carcere lo conosce
attraverso i comuni mezzi di informazione e che quindi non potevano
cogliere di sorpresa chi istituzionalmente è chiamato ad occuparsi della
loro gestione.
Il ministro Bonafede conosce bene le condizioni da terzo mondo in cui
versano le patrie galere, ma fin dal suo insediamento ha gareggiato con
l’ex ministro dell’interno Salvini nel mostrare il volto più retrivo
dello Stato, facendosi addirittura fotografare con sorrisi a trentadue
denti con la preda di turno.
Atteggiamenti
che rappresentano appieno il suo pensiero e la considerazione che ha
dei poveri cristi che abitano le galere, nient’altro che animali da
esibire come trofei di un safari perverso, corpi privi di diritti che
devono marcire in galera, nient’altro che oggetti al pari delle
suppellettili (letti, materassi e armadietti) che risalgono ai tempi
della riforma penitenziaria del 1975 e che i detenuti, spinti da paura e
disperazione per il timore del contagio, hanno distrutto nel vano
tentativo di far sentire la loro voce.
Il
suo pensiero e le sue certezze circa la necessità di utilizzare il
pugno di ferro non sono state scosse nemmeno dal coronavirus che anzi
potrebbe rivelarsi un comodo alleato per liberare posti per i futuri
ingressi che, a causa del generale peggioramento delle condizioni
economico sociali, sono destinati ad aumentare esponenzialmente.
In questo quadro la risposta alla tua domanda è presto data: pur
prevedendo un esito che potrebbe essere addirittura catastrofico in
termini di perdita di vite il Ministero della giustizia non ha fatto
assolutamente nulla per tutelare la salute dei prigionieri.
Le
misure di isolamento imposte alla popolazione: dall’isolamento in casa,
alla distanza sociale, al divieto di qualsiasi “assembramento”, al
blocco di qualsiasi attività collettiva, di lavoro, di studio, ecc.,
diventano nel caso della popolazione detenuta, una dimensione ironica e
surreale, se non fosse invece drammaticamente tragica.
Le
uniche misure adottate dal Dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria hanno il sapore della beffa: blocco dei colloqui con i
familiari, blocco di tutte le attività trattamentali, dove esistenti
(scuola, incontri con educatori e volontari autorizzati, sportelli
giuridici gestiti da associazioni esterne come Antigone, Arci ecc.,
blocco dei colloqui anche con gli avvocati, garantiti solo per casi di
effettiva urgenza e sostituiti con colloqui telefonici e solo in pochi
istituti, con videochiamate).
In
pratica una vera e propria segregazione rispetto al mondo esterno e al
contempo una promiscuità spaventosa all’interno delle celle, in sei o
anche otto persone in pochi metri quadrati con un unico cesso alla
turca, in fila in cinquanta e più per una doccia e in un numero ancora
maggiore negli angusti cortili per l’aria, laddove questa viene almeno
in parte garantita.
Finora,
a quasi due mesi dall’inizio dell’emergenza sanitaria non c’è stata
alcuna distribuzione, adeguata alle necessità e al numero dei ristretti,
né di mascherine né di disinfettanti e a dire il vero non vengono
garantite nemmeno le forniture ordinarie di saponi e altri materiali per
l’igiene personale ed ambientale che, in tantissimi, non possono
provvedere ad acquistare con le risorse personali. In concreto le
condizioni che i detenuti sono costretti a subire somigliano sempre più a
quelle del bestiame rinchiuso negli allevamenti intensivi con un totale
e sprezzante azzeramento dei diritti.
La
tardiva ed apparente misura deflattiva che il governo ha posto in campo
a fronte di un sovraffollamento di oltre il 125%, non ha determinato
alcun alleggerimento della grave situazione esistente. La detenzione
domiciliare prevista dall’art. 123 del decreto n. 18/2020, cosiddetto
“cura italia”, non è che un doppione di una legge già esistente dal
2010, la cosiddetta 199.
In entrambi i casi è prevista la possibilità di espiare gli ultimi 18 mesi
nella propria abitazione, ma solo per alcune tipologie di reati (vale a
dire che restano esclusi da entrambe le previsioni i reati di cui
all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, ossia i cosiddetti reati
“ostativi”, sia di prima che di seconda fascia, quindi non solo i reati
più gravi come l’associazione mafiosa, il sequestro di persona a scopo
di estorsione, le associazioni per finalità di terrorismo o finalizzate
allo spaccio di sostanze stupefacenti, ma anche tantissime altre
tipologie di reato come la rapina aggravata, l’estorsione,
l’associazione a delinquere semplice e addirittura il favoreggiamento
dell’immigrazione clandestina, per citarne solo alcune).
La
misura prevista dall’art. 123, al pari di quella prevista dalla Legge
199/2010 non è automatica: è il detenuto a dover presentare la richiesta
e ciò mal si concilia con la necessità di fronteggiare la grave
emergenza sanitaria in tempi rapidi e contingentati; la decisione –
sempre al pari della 199 – è demandata ai magistrati di sorveglianza
territorialmente competenti, che non hanno un termine per pronunciarsi
e, soprattutto, decidono sulla base dei loro convincimenti
ideologico-culturali; quindi situazioni simili vengono spesso decise in
modi totalmente difformi.
L’unica
misura, asseritamente deflattiva, adottata dal decreto n. 18, peraltro
emessa con colpevole ritardo solo il 17 marzo, è subordinata – per le
pene da espiare superiori ai sei mesi – all’applicazione dei
braccialetti elettronici, la cui carenza impedisce nei fatti l’uscita
dal carcere in tempi rapidi. Perciò l’unico provvedimento dettato per
l’emergenza sanitaria non allarga le maglie della 199, ma le restringe ulteriormente, rivelandosi per quello che è: un guscio vuoto, un provvedimento del tutto apparente.
La
sbandierata uscita di alcune migliaia di detenuti non è stata
determinata dalla misura adottata nel DPCM, ma dalla concessione, sui
istanza degli avvocati, di arresti domiciliari a ristretti in attesa di
giudizio per lo più in relazione a imputazioni di lieve entità (i
detenuti in attesa di giudizio erano a marzo oltre 20 mila con una media
di circa il 34% a fronte di una media europea di circa il 22%) e dai
provvedimenti assunti dalla magistratura di sorveglianza attraverso
l’utilizzo della 199, dell’affidamento provvisorio e in misura
ridottissima del differimento della pena – sempre nella forma della
detenzione domiciliare – per detenuti affetti da gravissime patologie.
Nel
conto delle scarcerazioni sono stati inseriti anche i detenuti già
ammessi al regime di semilibertà, che con il successivo art. 124 del
decreto sono stati autorizzati a permanere la notte nelle proprie
abitazioni (fino a giugno), anziché rientrare la sera in carcere. Le
centinaia di detenuti ammessi da tempo ai permessi premio e al lavoro
all’esterno rimangono invece rinchiusi in carcere, anche se la logica ed
il buon senso avrebbe dovuto indurre all’adozione di un analogo
provvedimento di provvisoria detenzione domiciliare.
In
ogni caso l’uscita di poche migliaia di detenuti, anche se importante
per ogni singola persona, non incide in alcun modo nella condizione di
vita di chi rimane recluso.
Per
alleggerire concretamente le condizioni di vivibilità in carcere e per
affrontare in parziale sicurezza la pandemia in atto dovrebbero uscire
dal carcere almeno 30 mila persone, così da ridurre in modo importante
la presenza dei detenuti dentro le celle e consentire, se non un vero
distanziamento sociale, una minore promiscuità che possa attenuare i
rischi di contagio.
Di
fronte alla sprezzante indifferenza mostrata dal Ministero della
Giustizia e dal governo le proteste nelle carceri sono destinate a
montare, non perché ci sia dietro una regia occulta ed esterna legata ad
organizzazioni criminose o a gruppi di estremisti, come anche è stato
detto, ma perché ci sono condizioni di assoluta invivibilità e cresce
ogni giorno di più il terrore di morire come topi in trappola per
l’aumento quotidiano del numero dei contagiati, sia tra i prigionieri
che tra il personale di polizia penitenziaria, mentre si contano i primi
morti.
In
assenza di provvedimenti urgenti e reali quello che è successo e sta
succedendo nelle RSA è purtroppo drammaticamente destinato a ripetersi
ed amplificarsi nelle carceri.
E’
evidente che la risposta dello Stato a tali proteste è stata dura e
senza nessuna possibile forma di ascolto e mediazione sociale. A
distanza di settimane è ancora impreciso il numero dei detenuti morti
(in gran parte cittadini extracomunitari) e centinaia sono stati i
feriti prodotti dall’intervento delle forze dell’ordine per “ristabilire
l’ordine”. Inoltre esistono denunce circostanziate di numerosi pestaggi
collettivi avvenuti in quasi tutte le carceri, con il solito corollario
di trasferimenti punitivi, i quali, tranne rari casi, si sono consumati
senza che i Giudici di Sorveglianza, le Procure o i vari Garanti dei
Detenuti potessero impedirli o sanzionare i responsabili. Ritieni che
gli Avvocati avrebbero potuto fare di più per impedire questo ennesimo
sfregio ai diritti sociali?
La
risposta del guardasigilli Bonafede e del DAP alle legittime paure,
proteste e rivolte nelle carceri è stata di una violenza inaudita che
rimanda a concezioni ed ideologie proprie del ‘giustizialismo’ di marca
fascista.
Il
numero dei morti nel corso della protesta dovrebbe essere di 14, se non
addirittura di 15 prigionieri (ancora, a distanza di 40 giorni non si
conosce nemmeno il numero esatto): 5 nel carcere di Modena e 4 negli
istituti dove sono stati trasferiti nottetempo (Verona, Parma,
Alessandria, Ascoli Piceno), tre nel carcere di Rieti e uno il giorno
dopo in ospedale, dove in sette erano stati ricoverati in gravi
condizioni e di cui nient’altro si è saputo; uno nel carcere di Bologna e
un altro il giorno dopo in ospedale.
Queste
morti sono state etichettate come avvenute per overdose da farmaci:
metadone a Modena e Rieti, cocktail da farmaci a Bologna, asseritamente
presi e consumati dai detenuti nelle infermerie. U
na
versione che lascia aperti molti dubbi e interrogativi anche perché
fornita a poche ore dalle rivolte, prima che venisse effettuata una sola
autopsia. I detenuti morti avrebbero dovuto essere tutti tossici (e
sembra che in molti non lo fossero!) e talmente disperati ed ignari
delle conseguenze dell’assunzione di farmaci e metadone.
Per
non parlare dell’inverosimiglianza che in un numero così elevato
anziché pensare ad evadere o mettersi in salvo abbiano deciso di
suicidarsi allo stesso modo. Finora non si è parlato di una sola
immagine ripresa dalle telecamere che sono ovunque all’interno dei
reparti.
E’
comunque criminale il fatto che 4 dei detenuti siano stati trasportati
in gravissime condizioni e siano morti nel corso dei trasferimenti
punitivi verso altri carceri, invece che verso centri di Pronto Soccorso
o punti di assistenza sanitaria.
Naturalmente
agli esami autoptici non hanno partecipato consulenti di parte, e del
resto non poteva essere altrimenti visto che la gran parte dei
prigionieri deceduti erano extracomunitari senza nessun familiare o
ufficio diplomatico che abbia potuto interessarsi alla loro sorte.
Il
Garante Nazionale, parecchi giorni dopo i fatti, ha annunciato di
essersi costituito come persona offesa nei procedimenti aperti d’ufficio
dalle Procure e di aver nominato un proprio consulente per la verifica
degli esiti autoptici, di fatto confermando che nessun consulente esterno ha partecipato direttamente alle autopsie.
Ci
sono testimonianze dirette di estesi e feroci pestaggi dei detenuti,
sia nelle carceri dove si è svolta la protesta, sia nelle carceri dove
sono stati trasferiti per punizione. Stiamo aspettando che le Procure,
gli uffici di sorveglianza e gli uffici dei garanti avviino e portino a
termine le loro inchieste in merito, prima o poi qualcosa dovranno fare o
almeno dire… forse.
Le
misure di limitazione ai colloqui dei detenuti, sia con le famiglie che
con i legali (ridotte, se non annullate, dalle misure disposte dal DAP o
dalle direzioni), hanno reso difficile il loro intervento. Per 15-20
giorni né i familiari né gli avvocati sono riusciti a sapere dove
moltissimi detenuti erano stati trasferiti. E’ un quadro che solo a
pezzi si comincia ora a ricostruire.
Sia
l’Unione delle camere penali che il Consiglio nazionale forense hanno
denunciato le illegalità perpetrate, ma dovranno essere portate avanti
forme di protesta adeguate ed efficaci per far emergere quanto di infame
ed illegale stanno facendo i funzionari ed i dirigenti del DAP, sotto
la responsabilità del ministro (nonché, purtroppo, avvocato) Bonafede!
In
particolare penso che vada fortemente sollecitata la costituzione di
una Commissione d’Inchiesta in merito alle morti dei detenuti e a quanto
avvenuto immediatamente dopo le rivolte e nei giorni successivi.
Penso
infine che gli avvocati dovranno assumersi maggiori responsabilità
costruendo una rete che consenta di acquisire dettagliate informazioni
sulla situazione di tutti i detenuti; una organizzazione con un minimo
di struttura e di coordinamento tra le varie regioni e città, così da
poter garantire, anche attraverso un sistema di collaborazione e di
deleghe, la propria funzione di garanti dei diritti inalienabili dettati
dalla Costituzione.
Sarebbe
auspicabile anche una presenza e una vigilanza nei presidi che
sporadicamente gruppi di familiari e di solidali cercano di organizzare
sotto le carceri, “violando” le misure governative!
Nel
corso delle proteste dei detenuti è stata avanzata la parola d’ordine
dell’Amnistia/Indulto come strumento concreto di depenalizzazione e di
decarcerizzazione attiva nei confronti di una amministrazione della
giustizia sempre più imperniata sulla generalizzazione di leggi speciali
e di decreti securitari.
Un
obiettivo difficile da affermare considerato il pesante clima sociale
in auge nella società dove la tendenza prevalente nell’agenda politica
ufficiale vira decisamente verso forme dispotiche ed autoritarie della
governance. Cosa occorrerebbe fare per costruire le condizioni culturali
e politiche per far crescere questo obiettivo di Libertà e Giustizia
nell’opinione pubblica?
Il
pesante clima sociale che tu richiami si compone sostanzialmente di una
tendenza governativa nella gestione delle carceri (ormai
pluridecennale) orientata ad una politica di sicurezza interna che ha
tra i suoi capisaldi il trattamento differenziato, il binomio
premio-punizione e il 41bis come apice di un sistema trattamentale
punitivo. Una gestione portata avanti dai governi degli ultimi vent’anni
e che annovera in personaggi come Salvini e Bonafede i più entusiasti
ideologi e gestori.
La
politica dell’esclusione sociale di intere fasce di popolazione, che
tutti i governi hanno portato avanti in questi ultimi anni, ha avuto al
centro la fake new dell’“allarme sociale”, il cui unico
obiettivo in realtà è quello di distrarre l’attenzione dalla catastrofe
economica e sociale che la crisi ha scatenato anche nei settori di
classe, piccoli imprenditori e ceti semi-parassitari, che tali
giustizialisti intendono rappresentare.
Ora
che questa emergenza fa giustizia della più bieca propaganda degli
ultimi anni, mettendo in luce le gravi responsabilità di questo sistema
di potere, dallo stato in cui è stata ridotta la sanità alle carceri
usate come discariche sociali, dobbiamo avanzare con forza richieste di
decarcerizzazione per fronteggiare adeguatamente la immediata emergenza
sanitaria all’interno delle carceri.
Molti
Stati europei hanno adottato importanti misure per decongestionare le
carceri, ma anche stati come Iran e Turchia hanno liberato
immediatamente decine e decine di migliaia di detenuti, come misura
immediata per alleggerire e gestire la situazione sanitaria e quella
sociale.
Solo
l’Italia, il paese dove la pandemia ha provocato il più alto numero di
vittime rispetto al numero degli abitanti, non ha adottato alcun
concreto provvedimento per salvare le vite delle persone che custodisce,
barricandosi dietro le solite politiche securitarie.
In
assenza di provvedimenti realmente incisivi le carceri rischiano di
trasformarsi in lazzaretti-focolai di infezione tra i detenuti, i loro
familiari – quando saranno consentiti i colloqui – ed il personale
carcerario. Ogni momento perso nell’apertura e sviluppo di questa
discussione non può far altro che aggravare quotidianamente la
situazione e le sue pericolose conseguenze.
Il
numero complessivo dei detenuti è pari a quello di una città di medie
dimensioni, ad oggi di circa 58 mila: 9.500 detenuti in custodia
cautelare sono ancora in attesa della sentenza di primo grado; 17.000
hanno condanne residue sotto i 24 mesi; 2.700 sono donne; 20.000 sono
provenienti da altri paesi e sono detenuti in gran parte per reati di
spaccio di sostanze stupefacenti o altri piccoli reati legati alle
necessità di sopravvivenza.
La
parola d’ordine dell’indulto\amnistia è l’unica che per la sua velocità
ed immediatezza potrebbe costituire una risposta adeguata dal punto di
vista della Costituzione e della decenza umana e sarebbe l’unica misura
immediatamente efficace dal punto di vista dell’emergenza.
Tuttavia,
concordando sul fatto che questa strada non sarà priva di ostacoli,
visto il quadro politico generale, andrebbero di pari passo avanzate
altre richieste come l’applicazione della detenzione domiciliare per
tutti quelli che devono espiare pene inferiori a tre anni senza
esclusioni legate alla tipologia di reati. Ossia per tutti i detenuti
affetti da gravi patologie o di età superiore ai 70 anni; per tutti
quelli che sono in carcere da oltre 30 anni, perché una detenzione di
tale portata – oltre ad essere indegna in un paese “civile” – ha
sicuramente inciso sulle condizioni generali di vita dei prigionieri;
per tutti quelli che hanno già scontato 2/3 della pena inflitta.
Andrebbero
infine individuate soluzioni alternative per i tanti che pur potendo
accedere ai benefici già esistenti rimangono in carcere perché troppo
poveri per avere una casa.
Negli
anni settanta, ed anche dopo, l’universo/carcere è stato analizzato ed
inchiestato da parte del movimento di classe e dalle organizzazioni del
conflitto politico e sociale. Tale lavoro contribuì – assieme allo
sviluppo generale del conflitto sociale nella società – a far affermare
nuovi diritti e forme di alternativa alla detenzione. Con
l’affermarsi del liberismo a larga scala e di una conseguente “cultura
manettara” le carceri sono tornate ad essere un buco nero e poco
osservato.
Tu
che, per motivi professionali, frequenti questo universo/carcere puoi
dirci come è cambiata la composizione sociale di chi è ristretto in
simili luoghi e se – naturalmente in valori statistici – riflette i
moderni processi di ristrutturazione economica e sociale in atto nei
territori e nel complesso della società?
I
processi di liberalizzazione totale dell’organizzazione e del mercato
del lavoro hanno determinato una parcellizzazione del processo
produttivo, una frammentazione della forza-lavoro, una precarizzazione
estrema delle condizioni di lavoro e di vita di tutti i lavoratori, ma
in massima parte della forza-lavoro giovanile. Dalle
nuove fabbriche informatizzate, ai grandi centri della distribuzione
computerizzata, al precariato del piccolo e piccolissimo commercio, fino
ai citatissimi riders.
E’
un proletariato che in parte si trova sullo spartiacque tra lavoro
periodico e precario e forme di redditualità extralegale. Un altro
riflesso del liberismo della nostra epoca è stato l’arrivo di
forza-lavoro immigrata di origine comunitaria ed extracomunitaria, e la
sua introduzione nel mercato del lavoro in filiere produttive
ultraprecarie, quando non semplicemente semischiavistiche.
La
gran parte dei detenuti si trovano in carcere perché hanno commesso
reati finalizzati a garantirsi i minimi mezzi di sussistenza, un terzo
dei detenuti (circa 20 mila) proviene da altri paesi e non ha alcun
sostegno economico dall’esterno, quindi possiamo immaginare quale sia la
situazione che vivono.
La
composizione sociale ha subito notevoli modificazioni rispetto a 40-50
anni fa che vedeva una presenza massiccia di detenuti del ciclo di lotte
di quegli anni ed una grossa politicizzazione di gran parte dei settori
extralegali.
Ma,
mantenendo un minimo livello di analisi strutturale e di inchiesta
sociale, si può, io credo, poter dire che anche l’attuale composizione
dei prigionieri rappresenta, in gran parte, una vera e propria frazione
di proletariato disoccupato escluso dal ciclo produttivo, di precari e
schiavizzati senza diritti.
La
crisi economica, politica, sociale e sanitaria che stiamo vivendo e che
vivremo nei prossimi anni è destinata a scaricarsi prima di tutto sugli
ultimi e non a caso l’unica risposta che viene dalle istituzioni è
quella di nuove carceri, pacchetti sicurezza e uno stato penale sempre
più forcaiolo e pervasivo che oggi approfitta persino della crisi
sanitaria per attaccare i diritti e le libertà di tutti.
Alla
fine degli anni ‘60 e gli inizi degli anni ’70 del secolo scorso le
lotte nelle carceri misero a nudo la natura di classe delle istituzioni
totali. Da prima partirono le rivendicazioni per parziali miglioramenti
delle condizioni di vita per poi arrivare a vere proprie rivolte che
scossero nel profondo l’intero sistema di reclusione.
Queste
rivolte si proiettarono oltre le mura coniugandosi con le lotte che si
sviluppavano all’esterno e viceversa, portando ad un netto miglioramento
delle condizioni di vita ed alla approvazione della riforma
penitenziaria del ’75, che li riconosceva come soggetti che – pur
privati della libertà – erano titolari di diritti incomprimibili ed
insopprimibili, tra questi anche il fondamentale diritto alla salute.
La
riforma del 1975 è stata ridotta a carta straccia negli ultimi 20-30
anni così come il timido tentativo di riforma del ministro Orlando,
attaccata perché in controtendenza rispetto alle imperanti politiche
giustizialiste. Oggi come allora il grido di aiuto dei detenuti ha
iniziato a squarciare le mura dell’invisibilità e non può essere fatto
cadere nel vuoto.
La
questione non sarà solo quella di chiedere il rispetto dei loro diritti
costituzionali così come non è solo quella della solidarietà umana
verso persone in difficoltà. La questione è quella di solidarizzare con
le loro lotte e di valorizzarle come momento di unità di classe, di
inserirli nel dibattito e nelle lotte che immagino ci attendano con
enorme forza nel prossimo futuro.
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