C’è un passo dell’intervista di Repubblica
del 21 aprile al paziente numero uno del Covid-19, Mattia, che mi ha
particolarmente colpito. Ed è questo: «I medici mi hanno detto che
almeno da gennaio, non solo in Lombardia, erano esplose polmoniti
incurabili. Tra gli anziani era una strage, ma nessuno credeva che il
coronavirus, dalla Cina, fosse già arrivato in Europa. Con me, l’età ha
fatto la differenza». Visetti che intervista il trentottenne domanda:
«Vuol dire che con un anziano l’attenzione dei medici è inferiore?».
Risposta di Mattia che ne completa il pensiero: «No. Dico che la
dottoressa Malara non si è rassegnata a perdere un paziente senza capire
perché. Tra gli anziani, colpiti anche da altre malattie, non è
scientificamente inconcepibile una polmonite mortale. Io sarei stato
un’eccezione».
Ormai
sappiamo con certezza che, di persone over 70, ne erano mancate tante
fra gennaio e le prime due decadi di febbraio (il tampone venne fatto a
Mattia il 20 febbraio e il giorno dopo il suo caso fu classificato come
il primo ufficiale di coronavirus in Italia e in Europa) senza tuttavia
destare allarme. Con eccezioni, segnalate dalle cronache di questi
giorni, fra i medici di base della Bergamasca, il responsabile del 118
della stessa zona e personale ospedaliero. La Regione Lombardia era
stata allertata per una “casistica anomala” di polmoniti fra anziani.
Sappiamo pure che non se ne fece nulla in coerenza con quanto
verificatosi dopo rispetto alla cura degli anziani al tempo del
coronavirus in un certo numero di RSA: abbandonati in reparti chiusi e
infermieri a loro volta in quarantena per lo stesso motivo. E, semmai,
con “ospiti” in alcune strutture ulteriormente esposti al contagio dalle
delibere delle Regioni Lombardia (in prima fila!) dell’8 marzo e
Piemonte (20 marzo) che hanno aperto le porte di RSA ai ricoverati in
ospedali “in via di negativizzazione”.
Si fa la
conta dei morti, la si aggiorna in base a chi è stato sottoposto al
tampone e chi no ma aveva i sintomi del virus, a chi è stato portato a
morire in un ospedale e chi in un’altra residenza. Si discute di chi sia
la responsabilità. Ma di come si può morire in totale solitudine si
poteva solo immaginare sino alla testimonianza, consegnata a una lettera
d’addio ai familiari, di un ottantacinquenne morto per Covid-19 in una
RSA: «Se potessi tornare indietro supplicherei mia figlia di farmi
restare con voi sino all’ultimo respiro, almeno il dolore delle vostre
lacrime unite alle mie avrebbero avuto più senso di quelle di un povero
vecchio, qui dentro anonimo, isolato e trattato come un oggetto
arrugginito e quindi anche pericoloso…», firmato «vostro nonno». Che
aveva premesso: «Ho deciso io di venire qui, una volta resomi conto che
non sarei più stato autosufficiente. Non volevo essere di peso». Il sito
Open l’ha pubblicata integralmente il 23 aprile.
Il mondo a
parte delle RSA e degli anziani che vi vivono e muoiono può essere
argomento di interesse generale, al di là della pietà che suscitano le
parole di un nonno andatosene con tutta questa amarezza negli ultimi
pensieri?
Il nostro
tempo segnato dal Coronavirus sta scavando un ulteriore solco fra i
sani e i non sani, giovani e anziani. Fra i primi vi sono i produttivi e
i benestanti che evitano anche da anziani, sia pure con eccezioni che
la solitudine crea, di finire i loro giorni in quelle strutture. Né
consola che vada così anche in altri paesi, come il Regno Unito, il
Belgio e la Francia, dove nelle maison de répos si sta consumando un’autentica strage.
Le RSA
non sono tutte uguali e non lo sono anche per la differenza di servizi e
tariffe economiche che richiedono ai loro ospiti. La media è attorno ai
3 mila euro al mese, di cui le Regioni, per le RSA accreditate,
corrispondono una parte a integrazione dei redditi più bassi. Non è poco
e non può stupire che sul business degli anziani si siano ormai
lanciati imprenditori del peso economico di Debenedetti e Angelucci (si
veda il servizio de Il Fatto Quotidiano del 22 aprile).
Attenzione però all’arresto di un certo Massimo Blasoni, qualche mese
fa, per truffa nei confronti di numerose Regioni: ha fatto emergere la
storia della sua “Sereni Orizzonti”, holding da 3000 posti letto solo in
Italia. RSA aperte in tutto il Paese con il sistema “chiavi in mano”:
progetto, costruzione, convenzione con il pubblico. Né può stupire
troppo scoprire che, insieme a tanti anziani non più autosufficienti, in
queste strutture vi fossero, e siano rimasti, anche più giovani
pazienti psichiatrici, considerati e trattati come cronici. Se mai
l’intraprendenza imprenditoriale di Blasoni – a lungo consigliere
regionale in Friuli e, in ragione del ruolo istituzionale, diventato
vicepresidente della locale Commissione sanità – gli ha fatto scoprire
come queste figure fra le più fragili si sovrappongano facilmente nelle
storie delle persone. Gli era così chiaro da estendere la sua
“protezione” a minori abbandonati con particolari problemi di fragilità
personale. Per questa “fascia” di “ospiti” aveva aperto apposite
strutture anch’esse convenzionate. Dove i bambini dovevano tirare la
cinghia ogni volta che si sedevano a tavola. I guai per la holding di
Blasoni sono nati dalle fatturazioni gonfiate alle Regioni per
prestazioni di figure qualificate (medici e infermieri) e rese invece da
personale di tutt’altra formazione e competenza. Quel signore
interpreta un profilo imprenditoriale particolare (quanto diffuso?)
affermatosi rapidamente in un contesto socialmente protetto per
definizione (e in realtà?). Nessuna delle numerose istituzioni pubbliche
con cui “Sereni Orizzonti” era convenzionata aveva mai eccepito nulla.
Oggi fa
arrabbiare e stupisce che, alla prova del Coronavirus, troppe RSA nel
nostro Paese si siano presentate con dotazioni insufficienti o
inesistenti di dispositivi di protezione (mascherine, guanti eccetera)
per il proprio personale. Non ne avevano ospedali, aziende sanitarie
territoriali, regioni, protezione civile locale e nazionale: dovremmo
giustificare gli uni per le insufficienze e i ritardi degli altri,
sentirci meno inquieti per come si fronteggiava la diffusione di
infezioni tutt’altro che sconosciute nel nostro sistema sanitario e
assistenziale e di cui pur si moriva? Non vi erano anziani
immunodepressi prima?
In ogni
caso, di più e di diverso han fatto numerose istituzioni per anziani, a
cominciare da quella più antica, grande per dimensioni e peso sociale ed
economico: il Pio Albergo Trivulzio di Milano. Dove, all’inizio di
marzo, è stato sospeso un geriatra che faceva indossare le mascherine al
personale del suo reparto. «Non si dovevano spaventare gli ospiti». È
storia nota e non mi ci soffermo. Se non per sottolineare
l’insopportabile ipocrisia che sovrasta la cosiddetta cura degli anziani
nelle relazioni con i familiari e con gli stessi infermi in condizioni
di lucidità per informare a loro volta i propri cari. Il Coronavirus ha
lacerato questo velo e le procedure che si applicavano e applicano
almeno in un tempo come questo. Non troppo lontane da quelle cui si
ricorreva negli ospedali psichiatrici di nefasta memoria. Dove venivano
abbandonati al loro destino i diversi e gli improduttivi, ma dove anche
molti familiari si recavano a far visita ai propri parenti. Che si
trattasse di genitori di bambini rinchiusi in quei lager, o di fratelli o
figli, venivano rassicurati dalle comunicazioni delle istituzioni cui
avevano affidato la vita dei loro cari. Pensate alla scelta delle
parole: istituto medico-pedagogico in luogo di cronicario di bambini
ritenuti scarti sociali. Pensate a come doveva essere consolante l’idea
di lasciare una figlia in una Villa Azzurra, con un bel giardino dove
però i piccoli ospiti venivano legati agli alberi o alle panchine. Oggi
siamo pieni di ville serene o fiorite per anziani. Non sarebbe il caso
di renderle rassicuranti per davvero?
Questo
nuovo tempo ci dovrebbe portare a riflettere anche sul fine vita che ci
attende se e quando invecchiamo: sto rileggendo con attenzione
particolare Saramago per l’interesse che ha dedicato al tema della
vecchiaia e della morte. Che viviamo (o vivevamo) come un evento
definitivo angosciante, misterioso e da esorcizzare sempre e comunque.
Vivere e morire con dignità dovrebbe essere la riconquista di una
consapevolezza perduta da tanti.
Ma il
tempo eccezionale del Coronavirus non ci offre solo l’opportunità di
riflessioni personali. Le cronache attente di questo strano tempo aprono
squarci su realtà nascoste e impensabili ai giorni nostri:
un’istituzione religiosa che racchiude in una sua sede, nelle campagne
del Bresciano, 300 vite di persone con problemi di disabilità o
psichiatrici. Se ne è data notizia perché una parte significativa ha
mostrato di avere i sintomi del virus e si chiedevano tamponi e aiuti.
Cos’è? Un vecchio manicomio dimenticato o un luogo di carità, come è
stato raccontato da alcuni media?
Abbiamo
individualmente, rinchiusi nelle nostre rispettive quarantene, un sacco
di tempo per approfondire. Ma se non ti puoi spostare sul “campo” devi
dipendere da informazioni che non sono verificabili se non con l’aiuto
di chi sia indipendente. Ed è il secondo grande problema che si
affaccia: non poter approfondire insieme a tanti, non poter condividere
con tutti. C’è una generazione di poveri, spesso anziani, poveri anche
nella dotazione di tecnologie e nel saperle gestire, che rischia una
verticale emarginazione in questo nuovo tempo di scatto in avanti della
comunicazione a distanza. La parte del Paese più debole e confinata in
una realtà separata, destinata a diventare periferia sociale ancora più
estrema. E invisibile, se non si continuerà a raccontarla con i suoi
bisogni e a supportarla. E a mettere in guardia dalla ipocrisia/retorica
secondo cui da questo strano tempo usciremo migliori, con più
opportunità per tutti.
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