martedì 28 aprile 2020

Anziani e RSA nel tempo del virus-(articolo molto interessante)

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C’è un passo dell’intervista di Repubblica del 21 aprile al paziente numero uno del Covid-19, Mattia, che mi ha particolarmente colpito. Ed è questo: «I medici mi hanno detto che almeno da gennaio, non solo in Lombardia, erano esplose polmoniti incurabili. Tra gli anziani era una strage, ma nessuno credeva che il coronavirus, dalla Cina, fosse già arrivato in Europa. Con me, l’età ha fatto la differenza». Visetti che intervista il trentottenne domanda: «Vuol dire che con un anziano l’attenzione dei medici è inferiore?». Risposta di Mattia che ne completa il pensiero: «No. Dico che la dottoressa Malara non si è rassegnata a perdere un paziente senza capire perché. Tra gli anziani, colpiti anche da altre malattie, non è scientificamente inconcepibile una polmonite mortale. Io sarei stato un’eccezione».

Ormai sappiamo con certezza che, di persone over 70, ne erano mancate tante fra gennaio e le prime due decadi di febbraio (il tampone venne fatto a Mattia il 20 febbraio e il giorno dopo il suo caso fu classificato come il primo ufficiale di coronavirus in Italia e in Europa) senza tuttavia destare allarme. Con eccezioni, segnalate dalle cronache di questi giorni, fra i medici di base della Bergamasca, il responsabile del 118 della stessa zona e personale ospedaliero. La Regione Lombardia era stata allertata per una “casistica anomala” di polmoniti fra anziani. Sappiamo pure che non se ne fece nulla in coerenza con quanto verificatosi dopo rispetto alla cura degli anziani al tempo del coronavirus in un certo numero di RSA: abbandonati in reparti chiusi e infermieri a loro volta in quarantena per lo stesso motivo. E, semmai, con “ospiti” in alcune strutture ulteriormente esposti al contagio dalle delibere delle Regioni Lombardia (in prima fila!) dell’8 marzo e Piemonte (20 marzo) che hanno aperto le porte di RSA ai ricoverati in ospedali “in via di negativizzazione”.
Si fa la conta dei morti, la si aggiorna in base a chi è stato sottoposto al tampone e chi no ma aveva i sintomi del virus, a chi è stato portato a morire in un ospedale e chi in un’altra residenza. Si discute di chi sia la responsabilità. Ma di come si può morire in totale solitudine si poteva solo immaginare sino alla testimonianza, consegnata a una lettera d’addio ai familiari, di un ottantacinquenne morto per Covid-19 in una RSA: «Se potessi tornare indietro supplicherei mia figlia di farmi restare con voi sino all’ultimo respiro, almeno il dolore delle vostre lacrime unite alle mie avrebbero avuto più senso di quelle di un povero vecchio, qui dentro anonimo, isolato e trattato come un oggetto arrugginito e quindi anche pericoloso…», firmato «vostro nonno». Che aveva premesso: «Ho deciso io di venire qui, una volta resomi conto che non sarei più stato autosufficiente. Non volevo essere di peso». Il sito Open l’ha pubblicata integralmente il 23 aprile.
Il mondo a parte delle RSA e degli anziani che vi vivono e muoiono può essere argomento di interesse generale, al di là della pietà che suscitano le parole di un nonno andatosene con tutta questa amarezza negli ultimi pensieri?
Il nostro tempo segnato dal Coronavirus sta scavando un ulteriore solco fra i sani e i non sani, giovani e anziani. Fra i primi vi sono i produttivi e i benestanti che evitano anche da anziani, sia pure con eccezioni che la solitudine crea, di finire i loro giorni in quelle strutture. Né consola che vada così anche in altri paesi, come il Regno Unito, il Belgio e la Francia, dove nelle maison de répos si sta consumando un’autentica strage.
Le RSA non sono tutte uguali e non lo sono anche per la differenza di servizi e tariffe economiche che richiedono ai loro ospiti. La media è attorno ai 3 mila euro al mese, di cui le Regioni, per le RSA accreditate, corrispondono una parte a integrazione dei redditi più bassi. Non è poco e non può stupire che sul business degli anziani si siano ormai lanciati imprenditori del peso economico di Debenedetti e Angelucci (si veda il servizio de Il Fatto Quotidiano del 22 aprile). Attenzione però all’arresto di un certo Massimo Blasoni, qualche mese fa, per truffa nei confronti di numerose Regioni: ha fatto emergere la storia della sua “Sereni Orizzonti”, holding da 3000 posti letto solo in Italia. RSA aperte in tutto il Paese con il sistema “chiavi in mano”: progetto, costruzione, convenzione con il pubblico. Né può stupire troppo scoprire che, insieme a tanti anziani non più autosufficienti, in queste strutture vi fossero, e siano rimasti, anche più giovani pazienti psichiatrici, considerati e trattati come cronici. Se mai l’intraprendenza imprenditoriale di Blasoni – a lungo consigliere regionale in Friuli e, in ragione del ruolo istituzionale, diventato vicepresidente della locale Commissione sanità – gli ha fatto scoprire come queste figure fra le più fragili si sovrappongano facilmente nelle storie delle persone. Gli era così chiaro da estendere la sua “protezione” a minori abbandonati con particolari problemi di fragilità personale. Per questa “fascia” di “ospiti” aveva aperto apposite strutture anch’esse convenzionate. Dove i bambini dovevano tirare la cinghia ogni volta che si sedevano a tavola. I guai per la holding di Blasoni sono nati dalle fatturazioni gonfiate alle Regioni per prestazioni di figure qualificate (medici e infermieri) e rese invece da personale di tutt’altra formazione e competenza. Quel signore interpreta un profilo imprenditoriale particolare (quanto diffuso?) affermatosi rapidamente in un contesto socialmente protetto per definizione (e in realtà?). Nessuna delle numerose istituzioni pubbliche con cui “Sereni Orizzonti” era convenzionata aveva mai eccepito nulla.
Oggi fa arrabbiare e stupisce che, alla prova del Coronavirus, troppe RSA nel nostro Paese si siano presentate con dotazioni insufficienti o inesistenti di dispositivi di protezione (mascherine, guanti eccetera) per il proprio personale. Non ne avevano ospedali, aziende sanitarie territoriali, regioni, protezione civile locale e nazionale: dovremmo giustificare gli uni per le insufficienze e i ritardi degli altri, sentirci meno inquieti per come si fronteggiava la diffusione di infezioni tutt’altro che sconosciute nel nostro sistema sanitario e assistenziale e di cui pur si moriva? Non vi erano anziani immunodepressi prima?
In ogni caso, di più e di diverso han fatto numerose istituzioni per anziani, a cominciare da quella più antica, grande per dimensioni e peso sociale ed economico: il Pio Albergo Trivulzio di Milano. Dove, all’inizio di marzo, è stato sospeso un geriatra che faceva indossare le mascherine al personale del suo reparto. «Non si dovevano spaventare gli ospiti». È storia nota e non mi ci soffermo. Se non per sottolineare l’insopportabile ipocrisia che sovrasta la cosiddetta cura degli anziani nelle relazioni con i familiari e con gli stessi infermi in condizioni di lucidità per informare a loro volta i propri cari. Il Coronavirus ha lacerato questo velo e le procedure che si applicavano e applicano almeno in un tempo come questo. Non troppo lontane da quelle cui si ricorreva negli ospedali psichiatrici di nefasta memoria. Dove venivano abbandonati al loro destino i diversi e gli improduttivi, ma dove anche molti familiari si recavano a far visita ai propri parenti. Che si trattasse di genitori di bambini rinchiusi in quei lager, o di fratelli o figli, venivano rassicurati dalle comunicazioni delle istituzioni cui avevano affidato la vita dei loro cari. Pensate alla scelta delle parole: istituto medico-pedagogico in luogo di cronicario di bambini ritenuti scarti sociali. Pensate a come doveva essere consolante l’idea di lasciare una figlia in una Villa Azzurra, con un bel giardino dove però i piccoli ospiti venivano legati agli alberi o alle panchine. Oggi siamo pieni di ville serene o fiorite per anziani. Non sarebbe il caso di renderle rassicuranti per davvero?
Questo nuovo tempo ci dovrebbe portare a riflettere anche sul fine vita che ci attende se e quando invecchiamo: sto rileggendo con attenzione particolare Saramago per l’interesse che ha dedicato al tema della vecchiaia e della morte. Che viviamo (o vivevamo) come un evento definitivo angosciante, misterioso e da esorcizzare sempre e comunque. Vivere e morire con dignità dovrebbe essere la riconquista di una consapevolezza perduta da tanti.
Ma il tempo eccezionale del Coronavirus non ci offre solo l’opportunità di riflessioni personali. Le cronache attente di questo strano tempo aprono squarci su realtà nascoste e impensabili ai giorni nostri: un’istituzione religiosa che racchiude in una sua sede, nelle campagne del Bresciano, 300 vite di persone con problemi di disabilità o psichiatrici. Se ne è data notizia perché una parte significativa ha mostrato di avere i sintomi del virus e si chiedevano tamponi e aiuti. Cos’è? Un vecchio manicomio dimenticato o un luogo di carità, come è stato raccontato da alcuni media?
Abbiamo individualmente, rinchiusi nelle nostre rispettive quarantene, un sacco di tempo per approfondire. Ma se non ti puoi spostare sul “campo” devi dipendere da informazioni che non sono verificabili se non con l’aiuto di chi sia indipendente. Ed è il secondo grande problema che si affaccia: non poter approfondire insieme a tanti, non poter condividere con tutti. C’è una generazione di poveri, spesso anziani, poveri anche nella dotazione di tecnologie e nel saperle gestire, che rischia una verticale emarginazione in questo nuovo tempo di scatto in avanti della comunicazione a distanza. La parte del Paese più debole e confinata in una realtà separata, destinata a diventare periferia sociale ancora più estrema. E invisibile, se non si continuerà a raccontarla con i suoi bisogni e a supportarla. E a mettere in guardia dalla ipocrisia/retorica secondo cui da questo strano tempo usciremo migliori, con più opportunità per tutti.

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