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I tedeschi non sono più bravi di noi, e lavorano di meno. Però sono
organizzati, ognuno fa la sua parte, non si parlano addosso e amano
obbedire. Rispettano le regole, avvantaggiati dal fatto che le loro sono
chiare. E perciò si possono permettere di più, rischiando di meno. Sul
coronavirus, la Merkel ha parlato tre volte. La prima per dire che il
70% dei tedeschi si sarebbe ammalato, la seconda per chiudere il paese,
la terza per riaprirlo affermando che, se la situazione peggiorerà
nuovamente, farà retromarcia. Poche parole, chiare. Tutto il contrario
di quanto avvenuto in Italia. Per questo, i tedeschi possono permettersi
di andare al fiume a gruppi la domenica, mentre se da noi uno prende il
sole senza nessuno intorno nel raggio di mezzo chilometro, il drone lo
fotografa e arrivano i carabinieri per fargli la multa. L’Italia ha 500
esperti e un numero di commissioni ignoto, ma del loro lavoro non
traspare nulla. Vive in un perenne talk-show. Manca perfino un’analisi
della situazione che parta dai numeri. Nessuno parla di rischio
sostenibile, non avendolo calcolato. In Italia siamo in troppi a non
decidere? Se mettete dieci medici intorno a un malato, questo non ha
speranze: muore. In un gruppo allargato, ognuno si sente in dovere di
dire una cosa più intelligente di quella che ha appena ascoltato, e
finisce con lo spararla grossa. Se ci sono più di cinque o sei persone a
decidere, la commissione diventa inutile nel migliore dei casi, e
dannosa nel più frequente, perché l’accordo lo si raggiunge sempre al
livello più basso.
Abbiamo fatto bene a fare la quarantena più rigida di tutti? Se
stanno tutti in casa, ci sono meno malati: ma il virus non scompare.
Quando esci, te lo ritrovi: e sei daccapo, a meno che nel frattempo non
si sia trovato il vaccino. Quarantena inutile? No,
è servita a contenere il contagio e allentare la pressione sugli
ospedali. È stata una prevenzione necessaria a non far collassare il
sistema. Chi sta a casa però non sviluppa anticorpi, e quando esce non è
più al sicuro di prima. Anzi… Perché ci sono stati più morti in Italia
che in Germania?
Se il paese è disorganizzato, non si può pretendere che la sua sanità
sia organizzata. Io però farei un’ altra domanda: come mai si è morti
così tanto, in Italia? Perché l’Italia ha ignorato l’allarme lanciato
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità tre anni fa, quando il pianeta
venne allertato in merito alla probabilità dell’insorgenza di
un’epidemia nel breve periodo. La Germania
comperò mascherine e protezioni sanitarie. Noi, per quanto mi risulta,
non abbiamo tenuto in considerazione la segnalazione. D’altronde, la
prevenzione non crea consenso: perché ha successo se non accade nulla.
Ma come fai a rivenderti politicamente il nulla?.
La Lombardia, dove ci sono stati metà dei morti italiani, non è
un’eccellenza medica? Per la terapia intensiva sicuramente. È allo
stesso livello di Francia e Germania,
superiore a Spagna e Regno Unito. Infatti il numero di morti che
abbiamo avuto ha fatto scalpore, nel mondo della comunità scientifica. È
finito sotto accusa il modello lombardo: dicono che dia troppo spazio
al privato? Qualcosa non ha funzionato. Occhio alla distinzione tra
pubblico e privato. Le aziende private si fanno pagare il servizio dalla
Regione, e quindi sono anche un po’ pubbliche, mentre negli ospedali
pubblici da anni la fanno da padrone i manager, che hanno cominciato a
chiamare “aziende” le strutture sanitarie, importando una mentalità di
profitto. In questo passaggio si è perso il senso della missione e si è
dato via libera ai tagli,
che non aiutano, perché peggiorano sia la qualità del servizio sia
quella dei medici, che sono oberati di lavoro e non hanno più tempo per
studiare e prepararsi. Lasciatemi aggiungere che i grandi medici si
formano nel pubblico, che un tempo non era ossessionato dalle spese;
poi, casomai, passano al privato. Il numero chiuso a medicina è stato un
errore? Rientra nella filosofia dell’ottimizzare la sanità: slogan
politico pergiustificare
il taglio dei fondi. Un posto di terapia intensiva però non è solo un
letto. Sono sette infermieri ogni due pazienti e cinque medici ogni
cinque pazienti. E quando parlo di medici, mi riferisco a specialisti
che sanno quello che bisogna fare. Solo così si evitano le morti.
Mancata prevenzione e tagli eccessivi: per questo siamo finiti a terra. Comunque è anche questione di metodo. Se in Germania
hai dei sintomi di Covid-19 e vai all’ospedale, all’ingresso trovi un
grande cartello che ti ordina di non entrare per nessuna ragione e ti
invita a suonare un campanello. A quel punto esce un sanitario che ti
prende in cura senza che tu metta piede nell’ospedale e decide se
ricoverarti, in strutture riservate ai malati Covid-19, o mandarti a
casa, dove viene ordinato al tuo medico curante di assisterti. Mi sembra
che in Italia l’individuazione del virus sia appaltata al paziente, in
autodiagnosi da casa, al telefono con il medico del territorio. Sempre
meglio comunque di quanto avveniva nei primi tempi, quando i sinotmatici
erano accolti in pronto soccorso senza percorsi differenziati. Ora si
muore meno e i malati sono meno gravi. Il virus può essersi trasformato,
ma noi non lo sappiamo. Certo non muta a seconda dei nostri desideri o
umori. La sua forza resta la stessa. Cambia la carica virale, e chi è
colpito da più molecole contagiose se la passa peggio, e può cambiare la
resistenza che incontra. Ecco, non direi che è diventato meno letale,
piuttosto che siamo diventati più bravi noi a curarlo. Per le prime tre
settimane i medici sono andati avanti a tentoni.
Molta gente morta un mese e mezzo fa oggi si sarebbe potuta salvare?
Decongestionare gli ospedali è stato fondamentale, perché meno pazienti
hai, meglio li curi. E poi, certo, più conosci la malattia, più la
terapia è efficace. Nei primi venti giorni i pazienti arrivavano con
insufficienze respiratorie severe e veniva sparata aria nei polmoni a
pressione alta. Poi si è scoperto che così la situazione peggiorava. Con
il tempo abbiamo anche capito che era fondamentale che il sangue non si
coagulasse, e abbiamo iniziato a usare con ottimi risultati l’eparina.
E’ un percorso. La scienza procede per tentativi ed errori, e
l’esperienza non è altro che l’analisi critica dei propri errori. Quindi
oggi sappiamo come curare il Covid-19? No, abbiamo imparato come
arginarlo meglio. Ma finché non conosceremo bene tutti i meccanismi di
replicazione del virus, non troveremo mai la terapia. Sparirà
con il caldo? Non ci resta che aspettare. Può darsi che al caldo si
trovi peggio che al freddo. Fatto sta che noi nel corpo abbiamo 36-37
gradi, e lui ci sta benissimo. Quanto dovremo aspettare per il vaccino?
Questo chiedetelo ai virologi. Quando parlano del loro mestiere dicono
cose interessantissime. Se però si allargano e iniziano a fare gli
epidemiologi, e poi i rianimatori, i tuttologi e magari anche i
politici, fanno scivoloni in abbondanza, come tutti.
In Italia siamo emotivi: infatti abbiamo avuto la reazione più irrazionale e meno scientifica di tutti, al virus. Parlo della politica e della società, non della scienza. L’epidemia è dolore. Va di moda dire che ci renderà migliori? Bisognerebbe studiare la storia
a quarant’anni, non alle elementari. Ci sono sempre state epidemie,
sono sempre passate e l’animo umano non è mai cambiato. L’emergenza
esalta gli istinti brutali. Buoni e cattivi. Poi, quando passa, tutto
torna come prima. Si freme per ripartire, ma se si fosse in Germania
si starebbe più tranquilli? Forse perché si riconosce alla Merkel
un’autorevolezza superiore a quella che si attribuisce a Conte. Se è
così, penso che si debba al fatto che la Cancelliera ha parlato meno ma
ha detto di più. La comunicazione del governo italiano è stata poco
chiara, quasi fosse voluto. I cittadini sono stati bombardati di norme
che cambiavano di continuo e a volte si contraddicevano. Di conseguenza,
in Italia ciascuno ha fatto da sé. È mancato il manico, e si è usato un
tono apocalittico per essere ascoltati. Poi ci si è nascosti dietro il
parere degli scienziati, solo che il virus era sconosciuto e ogni
professore aveva la sua opinione. Si è creata una confusione non da
poco, volendo andare dietro a tutti. Peccato che la medicina non è
democratica: può essere che uno abbia ragione e il 99% torto. Cosa fare
per ripartire tranquilli? Mantenere la calma e non ripetere gli errori.
Osservare gli altri, anziché proporsi come modello: guardiamo cosa
succede dove si è riaperto; e se il contagio lì non riparte, copiamo. E
poi bisogna fare un calcolo tra il rischio epidemico e il disastro
economico che la chiusura comporta.
(Luciano Gattinoni, dichiarazioni rilasciate a Pietro Senaldi per
l’intervista “Perché gli italiani muoiono di coronavirus più dei
tedeschi”, pubblicata da “Libero” il 28 aprile 2020. Luminare
dell’anestesia e rianimazione, il professor Gattinoni lavora a
Göttingen, dopo essersi allontanato cinque anni fa dal Policlinico di
Milano. Anni fa, a Monza, salvò il figlio dell’allora cancelliere
tedesco Helmut Kohl).
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