E’
finita una stagione politica. Breve, quasi sempre fuori da ogni logica
costituzionale, greve, senza un disegno unitario che potesse cogliere e
provare a sciogliere i nodi che inchiodano questo paese sulla via del
declino e le fasce deboli della popolazione su quella dell’impoverimento continuo.
Matteo
Salvini e la Lega hanno infine tolto la spina al governo Conte.
Sono
passate settimane di provocazioni continue, assorbite dai grillini con
atteggiamento suicida e complice delle peggiori nefandezze, nell’eterno
e noioso “gioco del cerino” su chi dovesse intestarsi la crisi di
governo.
Basti pensare alla presentazione strumentale di una “mozione No
Tav” (nelle certezza che sarebbe stata bocciata) il giorno dopo aver
votato la fiducia a quel “decreto sicurezza bis” che consentirà a
qualsiasi futuro ministro dell’interno di affrontare il Movimento No Tav
manu militari.
Salvini
ha provato ieri a portare a casa l’ultimo successo possibile: le
dimissioni “volontarie” di Giuseppe Conte, l’apertura di una velocissima
crisi extraparlamentare (le Camere sono state appena chiuse) e infine
il voto anticipato entro la prima metà di ottobre. Per capitalizzare –
come riferito esplicitamente dallo stesso Conte in tarda serata – “il
consenso conferitogli dalle elezioni europee e dai sondaggi”.
Vantaggi privati in barba alle esigenze pubbliche, insomma.
Le
consultazioni tra il presidente del consiglio venuto dal nulla e il
Quirinale sono state probabilmente continue e la durissima dichiarazione
di ieri sera – “non è il ministro dell’interno a decidere i tempi della
crisi”, “venga in Parlamento come semplice senatore e capo della Lega” –
porta direttamente a un dibattito parlamentare da concludersi con la
sfiducia verso il governo, l’uscita della Lega dalla maggioranza e
l’avvio del classico iter previsto dalla Costituzione (consultazioni al
Quirinale, tentativo di presentare un “governo elettorale” o “tecnico”, e
solo dopo – eventualmente – scioglimento delle Camere e indizione delle
elezioni anticipate).
Questo
percorso, come tutti sanno, comporta un certo allungamento della
tempistica della crisi, tale da poter portare con molta probabilità
alle urne non prima di novembre.
Ovvero quando il nuovo Parlamento e il
governo che ne uscirà non avranno materialmente il tempo di scrivere la
“legge di stabilità”, peraltro sotto il controllo occhiuto della
Commissione Europea, rendendo
quindi necessario – per la prima volta nel dopoguerra – il ricorso
all’”esercizio provvisorio di bilancio” e quindi lo scatto automatico
delle clausole di salvaguardia; a cominciare dall’aumento dell’Iva di 3
punti per ogni scaglione di aliquota.
Per un’economia che viaggia al
ritmo dello zero percento, in un contesto di recessione continentale,
sarebbe una botta fortissima.
Dunque, come scrivevamo già ieri, la crisi c’è, la soluzione no.
La
“finestra” utile per votare ad ottobre è infatti strettissima.
Bisognerebbe chiudere la vicenda delle dimissioni dell’esecutivo entro
agosto.
In
molti, nei talk show, si sono chiesti perché Salvini non abbia scelto
la via più veloce per ottenere il voto prima possibile: ritirare la delegazione dei ministri leghisti. Il motivo ci sembra di evidenza solare: sarebbe stato costretto ad abbandonare il ministero dell’interno,
ossia il ruolo che gli ha consentito per oltre un anno di dettare ora
per ora l’agenda politica del governo attraverso una parossistica e
compulsiva presenza mediatica.
Il
tentativo fatto ieri con Conte – costringere lui a dimettersi – è stato
l’ultimo azzardo per restare al suo posto e di lì gestire la macchina
elettorale (che fa capo, ricordiamo, proprio al Viminale). Sarebbe, o
sarebbe stata, la prima volta che si vota con il capo di un partito
politico seduto nella war room
cui affluiscono i dati del voto.
E di certo uno come Salvini non può
essere considerato da nessuno un “elemento di garanzia” e di neutralità
istituzionale.
Ma
c’è di più e di peggio. Nei 14 mesi da ministro di polizia, il
fascioleghista ha trasformato buona parte della pubblica sicurezza
(carabinieri e finanza compresi) in una sua forza militare fidelizzata.
Lo dimostrano a iosa non solo le continue sortite di agenti delle “forze dell’ordine” in funzione di “militanti politici” – nelle strade, nei bar, sugli autobus, ecc – ma anche i frequenti casi di uso propagandistico delle indagini.
Le diffusione di immagini di persone arrestate (da Cesare Battisti a
Carola Rackete, ai due ragazzotti statunitensi per l’omicidio del
carabiniere Cericiello Rega) è avvenuta in evidente “collaborazione” tra
militari delle varie polizie e “la Bestia”, ossia lo staff della
comunicazione personale di Salvini.
Fino al tentativo di innescare un pogrom anti-immigrati, accusando “due nordafricani” per l’omicidio di Roma, messo in atto da un sito ufficialmente gestito da sbirri.
Ce
n’è a sufficienza, insomma, per sconsigliare che sia l’attuale batteria
di ministri a gestire la scadenza elettorale anticipata.
Un
ministro dell’interno con evidenti tentazioni “golpiste”, o comunque
insofferente per i vincoli costituzionali, è un pericolo anche per la
normale dialettica politica, non solo per “le zecche dei centri sociali”
(definizione neonazista, come sa chi pratica davvero l’antifascismo).
Ma Salvini ha fatto davvero bene i suoi conti?
Non
ci sembra affatto un caso che lo stop secco alla richiesta di
concentrare di fatto i poteri nelle mani di un uomo solo sia arrivata
dai “garanti nei confronti dell’Unione Europea”.
Conte e Mattarella, con
il tentativo per ora incontrastabile di “parlamentarizzare la crisi di
governo”, rendono
più complicata la resistibile ascesa del “nuovo Truce”.
Paradossalmente, il venir meno della maggioranza potrebbe portare anche a
un ritiro delle deleghe ai ministri leghisti, Salvini compreso, perché
costituzionalmente è il presidente del Consiglio a indicarli.
Certo,
questo comporterebbe un aumento della temperatura probabilmente
ingestibile, ma nulla può essere più escluso, in via di principio.
Del
resto, il percorso del governo gialloverde si è incagliato con le
scelte dei due soci di maggioranza in sede europea, con i grillini a
fornire i voti indispensabile per la nomina di Ursula Von del Leyen a
presidente della Commissione e i leghisti a votare contro.
In quel momento sono finite le velleità anti-sistema dei Cinque Stelle e si è infranto il sogno leghista di cambiare dall’interno l’Unione Europea.
Due strategie fallimentari, diverse tra loro, obbligate a improvvisare nuovi obbiettivi e comportamenti.
Debolezza istituzionale e forza “populista”
La
dinamica istituzionale e quella sociale viaggiano ormai da anni su
binari differenti. Quel che sul piano istituzionale appare il primo vero
passo falso di Salvini – aprire la crisi tardi rispetto agli obbiettivi
– non è detto che si tramuti in perdita immediata di consensi. Anzi…
Ma il suo composito “blocco sociale”, al di là del consenso generico interclassista e razzista, strutturalmente volatile,
è robustamente centrato sulla piccola e media impresa, soprattutto del
Nord. E questo tipo di gente ha bisogno, sì, di ridurre la portata di
diversi vincoli imposti dalla UE, ma nessun desiderio di entrare in
conflitto serio con il resto dell’economia continentale.
In
fondo, nel bene e nel male, sono proprio loro i terminali nazionali
delle filiere produttive che hanno cuore e testa in Germania. Magari
vorrebbero poter esportare di più in Russia, Iran o altrove, ma non al
prezzo di perdere contratti e funzioni infra-UE, che costituiscono il
grosso del loro business. Non è insomma gente da battaglia, tutta d’un
pezzo e con ideologia “antagonista”. Sono affaristi dalla visione corta,
pronti a fuggire delocalizzando, abili nello sfruttare le connessioni
tra amministrazione e politica, nel chiedere leggi su misura per i
propri interessi (la flat tax,
assolutamente irrealizzabile, nasce di lì…), investimenti pubblici in
grandi opere anche inutili per non correre alcun rischio di impresa.
E
se questo “cuore pensante” del fascioleghismo trova qualcun altro
capace di sostenerne gli interessi senza sollevare troppo casino (spread
che sale, Iva che aumenta, ritorsioni commerciali infra-europee, ecc)
il divorzio con la Lega può essere rapidissimo.
Come del resto
dimostrano le rapide ascese e le precipitose cadute di Renzi e in parte
degli stessi Cinque Stelle.
Alla ricerca di una via d’uscita
Le
soluzioni sono insomma relativamente poche. Salvini e la Lega ora
debbono volteggiare senza rete (la sicurezza di stare in un governo di
cui determinano le priorità) e con il rischio di veder slittare il voto
anticipato a primavera, se non addirittura a giugno 2020.
Sono
obbligati a forzare ancora di più la mano, e cercare di conquistare
tutto (voto immediato, vittoria elettorale, governo monocolore, ecc),
oppure cominciare a vedersi sfilacciare la trama degli interessi fin qui
raccolti intorno a loro. Un’avventura, più che un calcolo politico
scientifico…
Il contesto non aiuta nessuno.
La congiuntura economica sta precipitando in tutto il Vecchio Continente – oltre
ai dati estremamente negativi della Germania, anche Olanda (-0.8) e
Francia (-2.3%) vedono la produzione industriale andare in recessione – e
la “guerra dei dazi” aperta da Trump coinvolge ormai direttamente le
merci europee (specie tedesche).
Se
anche la Lega dovesse ottenere elezioni rapide e una vittoria
schiacciante, molto precipiterebbe al momento di varare una manovra
lacrime e sangue mentre il Pil si riduce ancora. Senza più nessun altro
da accusare per questo… E che questo insieme sia disposto ad “uscire
dall’Unione Europea e dall’euro” è una scemenza che può esser detta solo
dal Pd e da Repubblica.
La governance di Bruxelles mostra crepe nei fondamenti fin qui proposti come “assolutamente indiscutibili”. E’ notizia di oggi che la Germania si appresta ad aumentare la spesa pubblica per supportare il proprio sistema produttivo
a secco di ordini dall’estero.
E sarà difficile – anche se ci
proveranno di sicuro – continuare ad imporre ai paesi dell’Eurozona
quella stessa austerità che Berlino considera un danno per se stessa.
Si
aprono margini di conflittualità inter-statuale e tra economie
continentali piuttosto ampi. Le istituzioni fin qui costruite sono
solidissime se si tratta di gestire la “ribellione” di un singolo paese
(la Grecia resta un monito per tutti), ma per nulla efficienti se si
tratta di “vivere con il terremoto”, con il tutti contro tutti.
E’
il contesto che favorisce avventure reazionarie, ma che fornisce anche
il terreno per una ripresa di conflittualità sociale e politica indipendente
dal bipolarismo forzato tra “europeisti ordoliberisti” e “nazionalisti
liberisti”. Certo, bisogna sapersi mettere a quest’altezza, altrimenti si cincischia solo per salvarsi la coscienza…
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