sabato 22 aprile 2017

“Macché paese post-industriale, qui ci sono tanti operai quanto in Germania”.

Intervista realizzata da Radio Città Aperta a Sergio Bellavita, dell'Usb Lavoro Privato.
 
fca-680x365_cPartirei dalla presentazione di un’inchiesta che avverrà questo fine settimana, qui a Roma (Centro Congressi Cavour, domenica 23, ore 10), un’inchiesta sul lavoro in fabbrica in Italia, “La grande fabbrica”, e soprattutto concentrarci su alcuni dati che ci hanno un po’ colpito. Da questa inchiesta emerge ad esempio che l’Italia è il secondo paese per produzione manifatturiera d’Europa, con un numero di addetti, di lavoratori, di operai, di poco inferiore alla Germania. E già questi due dati fotografano una realtà condizione dei lavoratori, salari, livelli occupazionali – in cui forse c’è qualcosa che non funziona…
Questa inchiesta è molto importante… Erano anni che non si affrontava il tema della nuova composizione di classe nei luoghi di lavoro e, soprattutto, anche del ruolo che viene assegnato all’Italia nell’ambito della divisione internazionale del lavoro. Da questo punto di vista, come ricordavi, emerge con nettezza il fatto che l’Italia non è un paese post-industriale, è un paese manifatturiero; che c'è un’occupazione significativa e c’è una produzione altrettanto significativa.
Il problema in realtà è che siamo nel pieno di un processo di valorizzazione, nel senso che pur mantenendo questo ruolo di assoluto primo piano, però c’è una fase di parcellizzazione del ciclo produttivo; quindi la catena del valore ha condotto con sé anche il processo di esternalizzazione e  frammentazione dei processi produttivi, con un’aggressione formidabile ai diritti dei lavoratori che è, in parte, anche conseguenza di questo processo. E’ un processo un po’ sinergico, purtroppo. Il lavoro operaio oggi non è solo il lavoro operaio classico, perché ci sono anche processi di proletarizzazione di alcune figure che tradizionalmente potevano essere considerata non operaie, e quindi che si ritrovano invece spinti verso il basso, diciamo. Quindi è un’inchiesta molto importante, perché la mappatura, il quadro, un’analisi precisa di quella che è la situazione del tessuto produttivo di questo paese diventa uno strumento decisivo, se si vuole mettere in piedi un’iniziativa sindacale adeguata, che abbia come obiettivo la riunificazione del mondo del lavoro a prescindere dal colore del camice o dalla tuta che si indossa, perché mette al centro la ricostruzione dei diritti dei lavoratori e la valorizzazione dei salari. L’inchiesta è dunque molto importante l’inchiesta e ci serve davvero, soprattutto nella fase congressuale e in quella post-congressuale, che sarà anche più impegnativa, vista la crescita di Usb nel lavoro privato.
 
Parto da una tua considerazione: l’Italia non è un paese post industriale. Quindi quali sono le differenze con i lavoratori in Germania, da dove nasce questa differenza, visto il livelli di importanza di quantità e il livello di produzione più o meno non siamo così distanti? Quindi la narrazione si un’Italia che avrebbe abbandonato la fase industriale è una narrazione tossica, ci viene dato da pensare. Le differenze dove sono? Solo nelle condizioni trattamento dei lavoratori o ci sono anche gli altri elementi?
Parte di questo processo riguarda direttamente le classi dimensionali di impresa, che non è un dato irrilevante per un’analisi corretta… La Germania è un paese che ha ancora una grande impresa industriale e questo, evidentemente, determina il fatto che ci siano per i lavoratori dei benefici di derivazione contrattuale superiori rispetto ai livelli dei lavoratori delle piccole imprese. L’Italia continua ad essere un paese che assolutamente non è postindustriale, ed è azzeccata la definizione di questa narrazione tossica che da tanti anni ci accompagna in tutta una serie di sconfitte e di arretramenti, molte volte anche utilizzando a pretesto questa narrazione per dire che “il mondo è cambiato”. Quindi, la differenza con la Germania innanzitutto riguarda la grande impresa e il ruolo che queste imprese hanno a livello globale. L’Italia, con la crisi, ha visto la frammentazione colpire soprattutto la grande impresa, per cui ci troviamo un tessuto industriale di dimensioni più piccole. Penso all’Emilia Romagna, dove pure siamo cresciuti molto, considerando grande già un’azienda che ha 500-600 dipendenti, mentre in passato la “grande impresa” ne occupava 10 mila, o comunque nell’ordine di migliaia di lavoratori. Un’altra differenza tra Italia e Germania? Anche qui, parte della narrazione tossica è sul fatto che in Germania comunque, a fronte di questa supremazia assoluta sul terreno industriale, ci sia una condizione dei diritti tendenzialmente superiore a quella dei lavoratori che sono in Italia. In parte è vero, ma in parte non è così; perché in Germania, a partire dal 2003, con l’introduzione dei mini jobs, questo strumento cosiddetto di “lavoro atipico” che ha consentito alle aziende di avere grandi quote di lavoratori con salari più bassi e condizioni lavorative peggiori, è alla base del cosiddetto miracolo economico della Germania. Quindi, in realtà, i processi di precarizzazione sono del tutto simili a quelli che stanno vivendo anche i lavoratori italiani. A differenza dei lavoratori tedeschi, buona parte dei lavoratori italiani ha goduto di una contrattazione di conquista, di crescita dagli anni ’60 fino agli anni ’80; ma negli ultimi 10-15 anni sono costantemente sotto attacco in un processo che abbiamo chiamato desindacalizzazione, cioè di restituzione di tutto quello che avevano guadagnato, portato a casa, strappato con le lotte importanti di un ventennio. Questo è un processo che in Germania è meno presente, perché è stato meno presente il sindacato conflittuale, e molto più presente il sindacato invece, tra virgolette, che “codeterminava” i processi insieme alle imprese; anni che quindi sono stati vissuti con un conflitto di tipo assolutamente diverso o proprio senza conflitto, in Germania. Tutto viene scaricato sulle nuove figure… Si parla molto del carrellista della Volkswagen che guadagna più di 2.000 euro al mese, ma poco si dice sui milioni di lavoratori mini Jobs. Una parte non piccola di questi lavora anche per Volkswagen e tutta l’industria automobilistica; e questi lavoratori, evidentemente, non hanno gli stessi salari che hanno i quelli portati a modello della Germania.
 
Chiarissimo. Volevo chiederti: ma quanto, secondo te, il lavoro migrante può incidere sulla nuova categoria operaia che si sta formando qui anche in Italia? Parlo non soltanto dell’agricoltura, o del bracciantato, ma anche di grande distribuzione e via dicendo…
Io penso che il lavoro migrante, così come l’avevamo connotato un po’ di anni fa, nella stagione dei movimenti in cui c’era la fase di costruzione del protagonismo del lavoro migrante, ancora oggi sia un fattore decisivo per la ripresa delle lotte. Faccio un paragone che per certi versi è un po’ azzardato, ma ci sta. Le grandi lotte delle fabbriche dei metalmeccanici, ma non solo, che ci sono state in Italia negli anni ’60 e ’70 – nel nord Italia soprattutto – hanno avuto come motore il lavoro migrante; in quel caso era il lavoro migrante dal sud Italia verso il nord. Sono state le condizioni soggettive di chi pagava un prezzo doppio, la condizione di fabbrica e la condizione di lavoratore strappato dal suo paese e costretto a vivere in condizioni ultra precarie di vita, a costituire la molla anche per cambiare in profondità un sindacato che invece parlava il dialetto del nord ed era ostico ad aprirsi alle nuove soggettività. Questa carica di ribellione, questa rabbia per quella condizione, è stata decisiva per le lotte di quegli anni. Io penso che possa essere decisiva anche oggi. In parte, nella logistica, lo vediamo già, almeno nel nord, perché buona parte della logistica al sud è fatta da lavoratori del sud e non da lavoratori migranti; ossia non italiani, non nativi.
 
In chiusura, parliamo un attimo della questione voucher. Il Senato ha approvato l’abrogazione dei voucher, disattivando così di fatto il referendum proposto dalla Cgil. Una tua valutazione su questa questione…
Intanto una valutazione su tutto il pacchetto che la Cgil aveva preparato per il referendum. All’epoca, quando si era discusso, io ero ancora componente del direttivo nazionale Cgil; mi ero contrapposto non tanto alla scelta dei referendum, quanto ad alcuni particolari quesiti che non volevano in realtà smontare l’impianto del diritto del lavoro per come era stato descritto, ma semplicemente accompagnare la proposta della Cgil alla “carta dei diritti”, che non è esattamente il ripristino dello Statuto dei lavoratori. Ad esempio, sull’art. 18; la Cgil, nella sua “carta dei diritti”, non propone tout court, così come erano, le stesse modalità tutelanti nell’art. 18 con la reintegra piena. Prende atto, invece, di un mondo ultra precario e decide di dare diritti anche ai lavoratori autonomi; quindi è la fine di una lunga battaglia, se mai l’avesse fatta davvero fino in fondo, rispetto al contrasto del lavoro atipico e il lavoro precario, per riportarlo nell’alveo del lavoro subordinato. Detto questo, si spiega anche perché non sia stato approvato il quesito sull’art. 18. Dal punto di vista formale – quanto meno sulla cancellazione dei voucher – la vittoria per la Cgil c’è, ed è innegabile. Ma è una vittoria di Pirro, perché la cancellazione dei voucher ha lasciato un vuoto che verrà colmato. E addirittura l’intenzione del governo è di riprendere vecchi tipologie contrattuali mai utilizzate fino in fondo, perché un po’ troppo “rigide”, come il lavoro a chiamata, e di introdurre anche in Italia i mini Jobs di cui parlavo prima, che ormai in Germania riguardano dai 6-7 milioni di lavoratori dipendenti. Quindi non è una vittoria sul terreno sociale; è una vittoria semplicemente d’immagine, con la cancellazione dei voucher, ma il governo sta già studiando insieme alle parti – e qui Gentiloni fa una piccola discontinuità con Renzi, perché ha riaperto il dialogo con Cgil-Cisl-Uil, un dialogo che non è più neanche concertazione, ma è perfino peggio, a livello quasi di complicità – per poter dare risposte alle imprese, che hanno protestato per l’abolizione dei voucher. Confindustria chiede di consentire di utilizzare il lavoro precario con una riduzione di costi. Faccio presente che i mini jobs, così come in Germania, prevedono che tutta una serie di oneri indiretti – che però sono salario effettivo per il lavoratore – non vengano riconosciuti; e quindi è una sorta di paga globale, con tutto ciò che comporta questo per i salari dei lavoratori e la condizione lavorativa. In più c’è anche il lavoro a chiamata… Hanno intenzione di modificarlo rendendolo più flessibile, senza tenere il lavoratore a disposizione dell’impresa e garantendo un minimo di 400 giornate lavorative nel triennio. Quindi in realtà questa operazione del governo non reintroduce dei paletti a tutela del lavoro garantito e stabile, ma semplicemente è un maquillage per un nuovo attacco e un nuovo sfondamento – invece – rispetto a tutto il lavoro precario che ancora c’è e sempre di più intacca il lavoro cosiddetto stabile.
 
Bene Sergio, molto chiara la tua analisi. Grazie e buon lavoro, grazie della tua disponibilità.
Grazie a voi.

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