sabato 22 aprile 2017

Libro. Il grande imbroglio dell’arte contemporanea.

“Nell’era della riproducibilità tecnica sembra essere sparita l’opera d’arte. Ne resta solo una vacua aura. A prevalere è una produzione di installazioni, video, performance a effetto choc o che all’opposto cercano l’anestesia più totale con opere iper-concettuali, che celebrano il vuoto”. Proponiamo un brano dal volume “Attacco all’arte. La bellezza negata” di Simona Maggiorelli (L'asino d’oro edizioni). Il libro verrà presentato domenica 23 aprile a Reggio Emilia alle Giornate della Laicità.



micromega Simona Maggiorelli
Tra la fine del Novecento e il primo quindicennio degli anni Duemila l’arte contemporanea sembra aver vissuto una lunga notte piena di incubi orrorifici, quanto improbabili, popolati di squali in formaldeide (firmati Damien Hirst), bambole gonfiabili (Jeff Koons), cloache meccaniche (Wim Delvoye), autoritratti scolpiti nel proprio sangue congelato (Marc Quinn) e via di questo passo. Si è dispiegato cosi un universo visivo di figure grottesche, di funeree nature morte, di trovate goliardiche e raccapriccianti.


Nel frattempo l’estetica si innamorava dei cyborg e del ‘post-umano’ sostenendo le azioni sceniche masochistiche di personaggi come Stelarc, che si esibiva nudo agganciato a supporti con decine di uncini conficcati nella pelle. La carne, la morte e il diavolo. Torna la vecchia triade romantica studiata da Mario Praz con una variante: al posto del demonio compare un automa; analogo alle modelle anoressiche che Vanessa Beecroft rende indistinguibili dai manichini. Negli anni Novanta sono salite alla ribalta internazionale insieme ai mutanti di Matthew Barney e ai giganteschi manga di Takashi Murakami, prodotti in serie, con un sistema di fabbricazione che va ben oltre quello della Factory di Andy Warhol, che al confronto pare artigianale.

Nell’era della riproducibilità tecnica sembra essere sparita l’opera d’arte. Ne resta solo una vacua aura. A prevalere è una produzione di installazioni, video, performance a effetto choc o che all’opposto (e in modo complementare, come se fossero le due facce di una stessa medaglia) cercano l’anestesia più totale con opere iper-concettuali, che celebrano il vuoto. L’astrattismo si è fatto assoluto in molta Digital art computerizzata, regno di una razionalità arida e spirituale che annulla completamente corpo. Portando all’estremo il minimalismo geometrico e i giochi ottici, ipnotici, della Op art e della psichedelia anni Settanta, sembra voler imporre una nuova forma di iconoclastia.

Nella cosiddetta società delle immagini, della pubblicità, della fotografia, degli avatar e della realtà virtuale, pare non esserci più spazio se non per figurazioni svuotate di senso, e una desertificata astrazione. Cosi piace al ristretto e facoltoso pubblico che frequenta le aste a Londra, a New York, in Svizzera. Il valore economico delle mucche squartate e conservate da Hirst in teche simil-acquario è da capogiro. Non importa se fra dieci anni saranno poltiglia. Per gli artifici della finanziarizzazione dell’arte contemporanea, per i tycoon ultramiliardari che le acquistano, conta la spettacolarizzazione, il gigantismo, la dismisura, in spregio alla crisi. Non importa se l’effetto è palesemente kitsch. Il fatto che opere di questo tipo siano diventate uno status symbol per pochi (chi, anche volendo, potrebbe tenerle in salotto?) ha fatto strage di ogni altro significato. Ai galleristi non importa se tutto ciò abbia provocato un impoverimento culturale della proposta, gli interessa che l’opera abbia le caratteristiche per essere vendibile all’upper class. Il pubblico che frequenta le biennali, le gallerie e i musei del contemporaneo, del resto, non se ne lamenta. Anzi. Sembra sentirsi parte di una élite, di un circolo esclusivo, di una «statusfera», direbbe Tom Wolfe.

«L’arte contemporanea è un surrogato della religione, che si celebra in ghetti patinati», scrive la storica dell’arte Sarah Thornton ne Il giro del mondo dell’arte in sette giorni, (2009). Una religione dogmatica, aggiungerei, che non ammette critiche. Ed è questo forse l’aspetto più bizzarro dell’attuale Art world. In fondo, che l’estetica dominante sia imposta da una manciata di collezionisti miliardari, magnati della moda come François Pinault, galleristi come Larry Gagosian ed ex pubblicitari come Charles Saatchi, potrebbe anche interessarci relativamente, se ci fossero spazi pubblici di dibattito critico e per un vivace confronto fra proposte artistiche differenti. Ma chi fa ricerca oggi perlopiù resta fuori dai riflettori. E se non ha risorse economiche proprie, rischia di far la fame, specialmente in Italia dove non ci sono ancora strutture pubbliche come il British Council (nonostante gli annunci del ministro Dario Franceschini nel 2016). Tuttavia non si alzano cori di proteste. E se qualche voce, pur autorevole, prova a sollevare obiezioni sensate, viene subito additata come passatista e conservatrice, notava Angelo Crespi in Ars attack. Il bluff del contemporaneo (2014). È successo anche ad un intellettuale e critico d’arte come l’ex direttore del Musée Picasso Jean Clair quando ha pubblicato il pamphlet L’inverno della cultura (2011) e saggi come De immundo (2005), in cui denuncia il cinismo e la perdita di senso della produzione artistica che oggi cerca di scandalizzare scegliendo l’informe, utilizzando scarti biologici e altri rifiuti, cadaveri, deiezioni e gli aspetti più prosaici della quotidianità, oppure realizzando opere altrettanto poco sopportabili perché legate a una fascinazione per la teratologia, per le deformazioni biologiche e patologiche.

Analoga sorte è toccata al Nobel Mario Vargas Llosa, quando si è permesso di prendere in giro l’ossequio verso l’arte iper-concettuale che appare oggi generalizzato. Ha commesso questo ‘peccato’ nel 2016, scrivendo sul quotidiano spagnolo “El País” dell’esperienza che ha fatto durante una giornata libera a Londra. «Per dimenticare la Brexit», dice di aver deciso di andare a vedere il nuovo edificio della Tate Modern: «Come mi aspettavo, ci ho trovato l’apoteosi della civiltà dello spettacolo», tanto da voler rinunciare. Poi però, vedendo tanti giovani e turisti, si è messo in scia per cercare di capire i motivi del loro entusiasmo. Al primo piano del museo è stato colpito dallo zelo con cui una insegnante cercava di convincere la scolaresca che quel manico cilindrico, probabilmente di scopa, esposto con cura, era di fatto una scultura «a cui l’artista aveva tolto le setole di saggina o di nylon che l’avevano resa funzionale, come oggetto quotidiano per le faccende domestiche». Che fosse una scultura era evidente perché intorno al manico una corda formava un rettangolo che impediva agli spettatori di avvicinarvisi troppo e di toccarlo. La tentazione, confessa Vargas Llosa nel suo report, sarebbe stata dirle che ciò che stava facendo «con dedizione, ingenuità e innocenza, non era altro che contribuire a un imbroglio monumentale, a una sottilissima congiura poco meno che planetaria su cui gallerie, musei, illustrissimi critici, riviste specializzate, collezionisti, professori, mecenati e mercanti sfacciati si sono messi d’accordo per ingannarsi, ingannare mezzo mondo e, di passaggio, permettere che pochi si riempissero le tasche grazie a una simile impostura».

Benché negli anni Ottanta abbia tenuto a battesimo la Transavanguardia, lo stesso Achille Bonito Oliva ha denunciato l’effetto omologante della globalizzazione sull’arte. Visitando il MoMA, il Guggenheim di New York, il Centre Pompidou nel cuore di Parigi o la Tate Gallery vicina alla City di Londra, sarà capitato a molti di notare che le rispettive collezioni si assomigliano in modo impressionante, tanto da avere la sensazione di un continuo déjà-vu. In alleanza con il Modern Art Museum e con il PS1, questi templi del contemporaneo formano una specie di cartello di aziende, come fossero le sette sorelle dell’arte contemporanea. Così le ha ribattezzate ABO, segnalando la rete di alleanze e fusioni tipiche dei grandi gruppi finanziari multinazionali che regolano i loro rapporti, fin quasi a formare un’unica holding museografica.

«L’arte è diventata un grande condominio in cui il museo è il proprietario, i curatori sono i ragionieri e il pubblico un veloce ospite-voyeur», scriveva il critico napoletano già nel 1999. La finanziarizzazione dell’arte, nell’era della globalizzazione, ha imposto su scala internazionale una sorta di pensiero unico: un’estetica prevalentemente anglo-americana, che lascia poco o nessuno spazio alla ricerca sulle immagini con un senso e un contenuto profondo, che non siano fantasticheria, vuota figurazione o arido concettualismo. Il discorso sull’arte prevale sulle immagini, l’arte è diventata meta-arte, sur-arte. Al punto che la maggior parte di ciò che viene esposto risulta incomprensibile senza un debito apparato di spiegazioni.

Come siamo arrivati a questa supremazia del linguaggio razionale su quello muto e irrazionale delle immagini? Perché a poco più di un secolo di distanza dalle avanguardie storiche, che avevano mandato in soffitta un’idea di pittura come mimesis della realtà, siamo circondati da opere che della realtà propongono il calco più triviale?

Al Museion di Bolzano, nell’ottobre 2015, dopo una festa, gli addetti alle pulizie hanno gettato via per sbaglio un’opera di Goldschmied & Chiari intitolata Dove andiamo a ballare stasera?: pensavano che fossero i resti del banchetto. Scherzi da buontemponi, si dirà, come quella volta che alla Biennale di Venezia un visitatore si è divertito a mettere in posa un sacchetto pieno di spazzatura per godersi lo spettacolo di acritici spettatori che si fermavano a osservarlo con aria seria e contemplativa. Iper-realismo incellophanato, vacuo estetismo, provocazione fine a stessa compongono la trama invisibile che percorre tante Biennali anni Novanta e Duemila, da Venezia a Istanbul, passando per una fiera di tendenza come Frieze London, per la mostra mercato di Basilea e la prestigiosa dOCUMENTA di Kassel. Non credendo a Hegel e alla sua profezia sulla morte dell’arte, torna la domanda: cosa è accaduto? Come si è arrivati fin qui?

(21 aprile 2017)

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