lunedì 3 aprile 2017

Clima, la resistenza non è solo politica


È passato poco più di un anno dalla firma, a Parigi, di quell’accordo sul clima, che diffuse molte aspettative fra gli ambientalisti. Più o meno tutte le grandi associazioni ecologiste del mondo, Greenpeace in testa, pensarono che finalmente la lotta al riscaldamento globale sarebbe diventata una delle priorità nell’agenda politica dei principali paesi della terra, i più inquinatori.
Forse un anno è un periodo troppo breve per poter trarre un bilancio. L’assenza di un calendario per la progressiva, ma totale, sostituzione delle fonti energetiche fossili, doveva insospettire. Oggi molte cose sono indubbiamente cambiate e se si getta uno sguardo realista su ciò che è successo negli ultimi quindici mesi è impossibile ignorare che quella svolta positiva, rappresentata dall’accordo ratificato, è venuta meno. Non bastano a riaccendere le speranze i colpi di tamburo e le antiche grida di guerra della tribù Sioux di Standing Rock che marcia a Washington per difendere il proprio territorio contro la decisione dell’amministrazione Trump di sbloccare l’oleodotto che passerà sulle loro terre. Ormai a presiedere la principale e più inquinante potenza del mondo è stato eletto un dichiarato negazionista delle responsabilità umane nel cambio di clima e questi pochi mesi di presidenza hanno già fatto capire che la nuova amministrazione americana è impegnata a trasformare gli accordi di Parigi in carta straccia, non riciclabile.
Il nuovo capo dell’agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (EPA) già nega che le emissioni di anidride carbonica siano la causa del riscaldamento globale, contraddicendo la comunità scientifica, gli stessi esperti dell’agenzia e gli scienziati della NASA. Ma questo è il nuovo corso del presidente Trump che ha tagliato di un terzo il bilancio dell’agenzia preposta alla protezione dell’ambiente, con conseguente immediata eliminazione di numerosi programmi.
Insomma sfumano le possibilità, aperte dagli accordi di Parigi, di un declino dei combustibili fossili e un corrispondente decollo di un nuovo modello energetico, decentrato e 100% rinnovabile, poco bisognoso di energia e capace di indurre una profonda revisione degli stili di vita della parte ricca del pianeta.
Pensare che il problema sia solo l’elezione di Trump è riduttivo, perché finisce per assolvere, senza alcuna ragione, tutti gli altri sottoscrittori del testo. Nessun paese, tantomeno l’Europa, ha le carte in regola per criticare e soprattutto neutralizzare il disimpegno di Trump e della sua America nella lotta ai cambiamenti climatici.
Tutti i paesi europei si sono guardati bene dal promuovere modelli energetici 100% rinnovabili, ma al contrario si sono distinti nella difesa dei combustibili fossili, incentivando ovunque la disperata ricerca di nuovi giacimenti di petrolio, gas metano e persino carbone. Le grandi compagnie energetiche e i loro referenti politici obiettano, esibendo dati rassicuranti che dimostrano che il contributo di sole, vento e altre fonti rinnovabili al bilancio energetico è in costante crescita ovunque. In effetti si registra un peso crescente delle fonti rinnovabili. La domanda che va posta è se a questa indubbia crescita delle installazioni eoliche e solari, corrisponde anche una riduzione dei gas serra utile a contenere nei 2° l’aumento della temperatura del pianeta, soglia oltre la quale il cambiamento climatico viene considerato ingovernabile, dalla comunità scientifica, nonostante Trump. Non c’è alcuna corrispondenza perché lo sviluppo delle risorse solari viene considerato un supporto utile alle fonti fossili per soddisfare l’aumento della domanda di energia, considerato, dai custodi del vecchio modello energetico, non solo illimitato, ma da perseguire. La verità è che le concentrazioni di gas serra in atmosfera non diminuirebbero neppure producendo con fonti rinnovabili il 100% dell’energia necessaria, se contemporaneamente non si agisce su quanta energia serve per garantire una buona qualità della vita a tutti.
La scelta rinnovabile senza perseguire una decrescita della domanda di energia, nei paesi sviluppati dell’occidente capitalistico non può abbassare la febbre al pianeta. Risparmiare energia non solo affidandosi alle tecnologie che garantiscono una maggiore efficienza, ma anche avviando una modifica degli stili di vita dissipativi della parte più consumista e più ricca del pianeta. La maggioranza dei decisori politici non nega l’esistenza di una emergenza ambientale angosciosa, né il tossico continuare ad accumularsi di scorie e veleni, ma ogni volta si blocca davanti al dilemma della crescita economica, per la quale alla fine la scelta è sempre quella di pagare un prezzo in termini ambientali, naturalmente con la promessa di renderlo minimo con le opportune tecnologie di controllo e ripristino. E’ proprio questa cultura politica, questa diffusa resistenza a modificare gli stili di vita, a vanificare qualsiasi accordo sul clima.
Se è giusto prendersela, di fronte al dramma del cambio climatico, con l’inconcludenza delle classi dirigenti, politiche e non, che attuano scelte che provocano, nel tempo, la distruzione della vita sul pianeta, forse bisogna anche iniziare a interrogarsi sul fatto che esiste ed è forte una resistenza non solo politica, ma sociale a prendere atto che continuare a inseguire la crescita in realtà produce sempre meno benessere, impoverisce la vita sociale e distrugge il pianeta.
Mesi dopo gli accordi di Parigi, sulle pagine dei principali giornali del mondo, veniva annunciato con giubilo che la nave da crociera per super ricchi Crystal Serenity avrebbe solcato le gelide acque dell’Artico per raggiungere New York attraverso il delicato passaggio a Nord Ovest, reso possibile dallo scioglimento dei ghiacci. Un modo elegante di fare parecchi soldi con il disastro climatico dell’Artico. E questa è solo la punta dell’iceberg, appunto, della crescente possibilità di industrializzare una zona altamente vulnerabile dove è presente una fauna unica, già molto stressata da un clima sempre più caldo. Altrettanto significativo è ciò che succede nel piccolo arcipelago delle Canarie sottoposto a una pressione turistica chiaramente insostenibile. L’insicurezza ormai di gran parte del mondo, con il terrorismo, la povertà e le guerre, ha trasformato le isole Canarie nell’ultima meta di vacanze e relax a basso costo per milioni di persone, alimentando il turismo del “mordi e fuggi”. Si privilegia il turismo del “tutto incluso”, compresa naturalmente la devastazione dell’ambiente, che in pochi anni può divorare questi fragili ecosistemi. Ma c’è un consenso diffuso all’aumento delle presenze, o meglio all’afflusso di soldi che genera, indipendentemente dalle possibilità dell’arcipelago di reggere l’invasione crescente, di riuscire a smaltirne i rifiuti prodotti o di dare acqua potabile ed energia sufficienti. Come è noto le isole Canarie sono anche il più grande giacimento di risorse solari al mondo e l’esempio dell’isola di Hierro, ormai 100% rinnovabile, dimostra che l’autonomia energetica dell’arcipelago è possibile. Un’autonomia però che non può fermare il degrado dell’arcipelago se non mette mano al turismo usa&getta, per cui qualsiasi cosa è buona purché aumenti il patrimonio considerato sempre scarso di strade, case, macchine e infrastrutture. Forse è tempo per l’ambientalismo politico ed associativo di prendere atto dell’insufficienza del suo radicamento sociale, della sua capacità di aprire conflitti in grado di modificare i rapporti di forza oggi favorevoli a quanti vedono profitto dallo scioglimento dei ghiacci o dalla vulnerabilità di intere aree geografiche. Un aiuto in questo senso viene dalle donne e la loro decisione di riprendersi l’otto marzo per trasformarlo da festa in conflitto, riuscendoci. Non c’è molto tempo. La Women4Climate Conference, lanciata per rafforzare il ruolo della leadership femminile di fronte ai cambiamenti climatici, a partire proprio dalle grandi città e convocata a New York in questi giorni, è stata rinviata a causa di una tempesta. Più chiaro di così.

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