Predicano bene e razzolano male. Detengono il potere e per questo credono di avere il diritto di dire agli altri cosa fare e come. Sono ovunque: politici, giornalisti, imprenditori. Per loro un solo messaggio: state zitti.
L'Espresso Paolo di PaoloCari Papà Tromboni, tutto bene? Vi trovate in quella strana fase della vita - fra i cinquanta e i sessanta, o poco più - che pare dia un po’ alla testa. A distanza di sicurezza della terza età, se non cadete nella classica regressione (Peter Pan-insegue-Lolita), il potere è la vostra droga.
Piccolo o grande che sia, vi tiene comunque su di giri: dal lunedì al venerdì siete nella bolla dei workaholic, non fate che bearvi della vostra agenda stracarica. Sabato e domenica siete come palloni sgonfi. Per il resto, nient’altro che cravatte, smartphone, pance che crescono: non è un bello spettacolo! Ma non è per questo che vi giunge la nostra lettera. Non siamo preoccupati per il vostro stress, e nemmeno per il fatto che il cosiddetto senso della realtà vi sta abbandonando. A preoccuparci è la vostra inarginabile inclinazione alla retorica. Chi fra voi è sulla scena politica non può farne a meno: è così da sempre, fa parte del gioco e del mestiere.
Il “conservatore” moralista François Fillon, classe 1954, in corsa per l’Eliseo, preferendo - così diceva - “le parole che salvano a quelle che seducono”, assegnava intanto falsi impieghi ai parenti per oltre un milione di euro. Il cinquantaduenne premier russo Dmitrij Medvedev, uso a richiamare “con pieno senso di responsabilità il nostro bene e il bene generale della società”, è ambiguo titolare di conti offshore, piste da sci private, ville con piscina ed eliporti, aziende vinicole in Toscana. Niente di nuovo, per carità. Nessuno è nato ieri. Ma il punto è che questi babbi non si limitano a razzolare male, si impegnano con eccessivo (e sospetto) slancio a predicare benissimo.
Anche dalle nostre parti, la sera a tavola - così come nei corsivi di prima pagina - fanno un uso smodato di retorica, oltre il livello di guardia. Come il sale per gli ipertesi, non è buona norma. Guardate cosa è successo all’ex direttore del “Sole 24 Ore”: tutte le domeniche pronto a infliggerci la sua omelia laica, è finito indagato per falso in bilancio. Fosse pure innocente su un piano giuridico, non lo sarebbe comunque al tribunale delle false coscienze. Dante gli farebbe indossare - come minimo! - il mantello degli ipocriti: dorato fuori, di piombo dentro. In uno dei suoi ultimi editoriali, Roberto Napoletano puntava il dito, nell’ordine, contro «furbetti del cartellino», «corruttele varie e sistemiche», «distribuzione di seggiole e poltrone», «vecchie e nuove clientele». Cito alla lettera: «Tornano le ombre dei soliti maestri dell’eterno galleggiamento italiano in un Paese sospeso che fugge dalle sue responsabilità. Promana da tutto ciò una sensazione mista di nausea e di disorientamento» (“Il Sole 24 Ore”, 26 febbraio 2017, a undici giorni dall’avviso di garanzia). Impressionante: come il protagonista di un racconto di Savinio che sentiva odore di morte dappertutto, senza capire che a emanarlo era lui. La chiusa dell’articolo? Canonica: sull’Italia che «brucia il futuro dei nostri giovani». Non che il faraonico stipendio di Napoletano - 93mila euro lordi mensili, pare - contribuisse a spegnere le fiamme, ma l’ipocrisia è perfino più colpevole. L’aspetto psicologico della questione è avventuroso: che cosa spinge stimati e solitamente spietati professionisti (del giornalismo, della politica, della finanza, dell’industria) ad ammannirci quintali di retorica moraleggiante? Qual è il vantaggio interiore del trombonismo, per chi lo pratica?
Illustrazione di Giuseppe Fadda |
Storia vecchia: di “doppia morale” si parlava già sui giornali di sessant’anni fa. Erano i giorni del torbido caso Montesi (1953), e un politico che si era scagliato contro la turpitudine altrui venne subito fotografato all’uscita di un bordello (con l’auto blu!). Non basta: Franco Moretti, nel recente Il borghese (Einaudi), torna parecchio più indietro; esplora, attraverso Ibsen, una «zona grigia» fatta di slealtà, reticenza, mezze verità, costitutiva di una classe sociale e del suo modo di stare al mondo. La menzogna – scrive – diventa “vita”: una contraddizione tra due moralità «impossibile da conciliare», il trionfo dell’ambiguità, l’onestà di facciata, a parole. Bisogna rassegnarsi? Al peggio della natura umana forse sì; ai falsi maestri, no.
Esiste un antidoto? È possibile una moratoria della retorica a buon mercato? Più ancora che proseguire in una (ormai indiscriminata) lotta alle oligarchie (vedi in proposito l’illuminante saggio di Giulio Azzolini Dopo le classi dirigenti, Laterza), occorre intanto inchiodarle a una responsabilità verbale. O, almeno, ridimensionare le loro tribune. Dà il voltastomaco sentir parlare, con falsa partecipazione, di “futuro rubato” ai giovani, proprio da chi ha collaborato al furto. Non è più accettabile vedere una selva di indici puntati nel vuoto, contro responsabili sempre troppo generici. I colpevoli sono sempre gli altri. Ma di preciso che faccia hanno? Ai Tartufi di turno, gli ipocriti in servizio permanente, farebbe gioco la rilettura di certa disinvolta trattatistica tra Cinque e Settecento: se il “sommo bene” è un ideale, tanto vale sembrare onesti senza esserlo davvero. “Dissimulazione” è la parola chiave - e più che il solito Machiavelli, meglio scomodare il rassegnato Mandeville: “Solo i pazzi si affaticano per creare un grande e onesto alveare” (1705). I “sani”, allora, restano a guardare, ma non tacciono: tengono viva l’onestade a parole. In una palude di parole facili e comode, alligna un’etica falsa e tanto più irresponsabile, che inquina, confonde, e in sostanza mette al sicuro.
A mo’ di antibiotico, o meglio, di avviso di garanzia preventivo, sarebbe utile recapitare a parecchi notabili odierni non un saggio rinascimentale, ma un recente - e ovviamente troppo poco letto - romanzo. L’ha scritto Aldo Busi, si intitola Vacche amiche (Marsilio). Busi si fa beffe, o peggio, di “gente chiaramente puzzona a libro-paga di questo e di quello”, di gente che predica anche bene - appunto - “ma razzola che peggio non si può”. Si può considerare l’ipocrisia già una forma di corruzione? Sì. “Non capirò mai - scrive Busi - perché una merda vuole spacciarsi per pan di zucchero: sei una merda, e allora? L’unico modo per esserlo di meno è andarne fiero, no? Certo, a una vera merda interessa esserlo di più, non di meno, negherà anche con le spalle alla ceramica di un water e è senza speranza di riscatto fino a che non gli danno quindici anni di galera o il manicomio criminale a vita, cosa praticamente impossibile, perché le merde si proteggono e sostengono tra di loro, essendo della stessa pasta fanno comunella anche a distanza di chilometri l’una dall’altra, una sul marciapiede è sorella di una in un Ministero o al Riesame o in Cassazione, sono a piede libero per definizione: le pesti per sbadataggine, le diffondi e le espandi, fai il loro gioco per il solo fatto di camminare e, contrariamente al detto, porti tu fortuna a loro, e è scontato infine chi schiaccia chi”.
Nell’attesa di esserne sicuri, cari Papà Tromboni, ci basterebbe un piccolo gesto generoso e tuttavia gratuito (altro è difficile chiedervi): il vostro silenzio. Firmato: i vostri figli delusi.
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