Basti
ricordare gli oltre 1000 indagati negli ultimi sei anni e mezzo, con
imputazioni che vanno dall’accusa di terrorismo a 5 ragazzi per il rogo di un compressore
(poi fortunatamente cadute in Cassazione) all’istigazione a delinquere
per lo scrittore Erri De Luca, reo di aver invitato al boicottaggio del
TAV in un’intervista del 2013 (De Luca è stato successivamente assolto
per insussistenza del fatto).
Anticipato da una serie di articoli
su Internazionale, il testo ricostruisce (come da sottotitolo)
“venticinque anni di lotte No Tav”. Le sue 652 pagine restituiscono il
senso di un imponente lavoro di ricerca basato sull’analisi di centinaia
di atti giudiziari, di documenti prodotti dal movimento, di libri e
articoli di giornale, nonché di svariate interviste ad attivisti e a
giornalisti che si sono occupati della lotta No Tav come Luca Rastello e
Maurizio Pagliassotti.
La domanda da cui parte Wu Ming 1 è di non facile risposta: perché
proprio in di Val di Susa? Come è stato possibile che, come l’autore
scrive a pagina 30, “sotto l’aspetto della resistenza, quel margine
estremo di territorio nazionale, quel lembo d’Italia misconosciuto,
quella zona di confine fosse diventata un centro, e territori centrali
fossero diventati più marginali”?
La
risposta secondo l’autore sta in alcune pre-condizioni. In primis le
lotte precedenti dei valsusini contro altre grandi opere inutili: quella
persa contro l’autostrada A32, “invasiva e deturpante, oltreché (…) la
più cara d’Italia” (p. 244), e quella vinta contro il mega-elettrodotto a
Grand Ile- Piossasco (ora però di nuovo in discussione).
Risalendo il corso della storia a ritroso, Wu Ming 1 individua poi
radici più antiche, che si sono fuse insieme con evidente successo dal
1991 ad oggi: la lotta partigiana e quella operaia, il cristianesimo di
base e le sue pratiche di non violenza. Il che spiega la composizione
straordinariamente eterogenea del movimento No Tav odierno, che va dai
“Cattolici per la vita della valle” fino ai militanti dei centri
sociali.
Benché
ovviamente concentrato sulla Val di Susa, il libro dedica spazio anche
ad altri scempi ad alta velocità e ai movimenti che vi si oppongono,
come i No Tav che si oppongono al Terzo Valico fra Genova ed
Alessandria. La logica che ha permeato lo sviluppo dell’alta velocità in
Italia ben si confà al “keynesismo criminale”
che ha caratterizzato il modello di sviluppo italiano negli ultimi
decenni: “l’obbiettivo non è finire l’opera, ma drenare denaro pubblico”
(p. 314). Inevitabile quindi che la critica alle grandi opere diventi
anche critica del modello di sviluppo capitalistico.
Due
sono gli insegnamenti che mi sembra si possano trarre da questo testo e
in generale dall’esperienza del movimento No Tav. Il primo è che la
forza di questo movimento stia nell’essere un’esperienza di lotta
popolare che è andato oltre l’autoreferenzialità delle singole
componenti ed è stato capace di superare la dicotomia imposta dal nemico
fra una parte “buona” moderata e una parte “cattiva” di violenti. E
così alle incursioni al cantiere partecipano spesso e volentieri
militanti over 60. Il secondo è che i No Tav valsusini sono stati in
grado di reggere un trattamento mediatico ostile nei loro confronti (di
cui il testo riporta molteplici esempi, basti citare il caso Marco Bruno,
reo di aver chiamato un carabiniere “pecorella) grazie ad un enorme
lavoro di contro-informazione, basato su analisi tecniche di grande
competenza e pratiche comunicative efficaci. Sono elementi da tenere in
considerazione, in Val Susa (dove la battaglia contro il TAV continua) e
altrove.
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