martedì 10 gennaio 2017

"La vicenda Almaviva ci parla di un Paese in mano a chi ha un alto potere di ricatto e non accetta nessun tipo di mediazione". Intervento di Maurizio Messina

controlacrisi Autore: maurizio messina
Nel silenzio quasi generale e nell’indifferenza di questa città e della cosiddetta opinione pubblica si è consumato un dramma del lavoro, forse il più grande che questa città abbia mai conosciuto: 1666 lavoratori addetti ai Call Center sono stati licenziati da Almaviva Contact.
Così, mentre gli ultimi giorni frenetici per lo shopping natalizio vedevano il solito traffico impazzito e la gente isterica, 1666 famiglie venivano gettate nella disperazione. La sede aziendale di Roma è stata chiusa ed il lavoro trasferito alle sedi di Palermo e Milano. Questo il risultato di un’estenuante trattativa durata molti mesi, che ha visto momenti intensi di lotta e anche divisioni fra i lavoratori. Gli 845 addetti della sede di Napoli hanno avuto altri 3 mesi di ossigeno fino al 31 marzo, in attesa di trovare una soluzione definitiva.



Il mondo dei Call Center è una giungla, come ben dipinta da Ascanio Celestini o da Paolo Virzì, ma non è fatto solo di fastidiose persone che rompono le scatole alle 9 di sera per venderti qualcosa, è anche il servizio informazione delle aziende, la raccolta di segnalazioni e reclami dalla clientela, è l’orario dei treni delle ferrovie, il pagamento delle assicurazioni e molto altro. Un mondo che è cresciuto impetuosamente nel corso ormai di decenni, senza regole ben definite, con una concorrenza selvaggia e il ricorso al precariato perenne come regola.

In questo caos, voluto e tollerato dai governi succedutisi nel tempo e di tutti i colori, molte aziende hanno prosperato e si sono arricchite ed Almaviva è stata quella che è cresciuta di più, diventando la numero uno. E’ cresciuta talmente tanto fino ad arrivare ad avere quasi 12.000 addetti in tutta Italia e successivamente aprire sedi in tutto il mondo, dalla Cina al Brasile, tanto per fare qualche esempio. E fino a comprarsi dieci anni fa il più grande gruppo di informatica in Italia: la Finsiel. In questi anni molti portafogli si sono gonfiati, mentre i lavoratori venivano sfruttati, malpagati e usati a seconda del bisogno e poi scaricati, grazie anche ai famigerati contratti conosciuti come co.co.pro., co.co.co., partite IVA, etc…. Ma in Almaviva le lotte dei lavoratori nel tempo avevano ottenuto successo e le vertenze avevano visto l’assunzione e la stabilizzazione dei precari.

Finchè il mercato era in crescita c’era spazio e ricchezza per tutte le aziende, poi è arrivata la crisi, la spending review, i tagli ai budget sia nel privato che nella pubblica amministrazione e la competizione è diventata spietata. Così le aziende hanno cominciato a delocalizzare i loro impianti trasferendoli nei paesi dell’Europa dell’Est (Albania e Romania soprattutto), dove si pagano salari molto più bassi che da noi ed il sindacato non esiste. Da qui è nata una competizione spietata e scorretta, facilitata dallo stato e dalle gare al massimo ribasso, in cui vince chi offre il servizio a prezzi più bassi e la qualità diventa un optional. Nessuno dei governi degli ultimi dieci anni si è mai sognato di porre un freno alla delocalizzazione di aziende che magari hanno usufruito di finanziamenti statali per mettere su il business e degli ammortizzatori sociali nei momenti di difficoltà, perché non frega niente a nessuno, il dogma del libero mercato recita, com’è noto, che il mercato si regola da sé. Così in Italia il mercato è precipitato e i lavoratori finiscono per strada, mentre all’estero i padroni italiani fanno affari d’oro. Tanto è vero che anche Almaviva ha aperto di recente una sede in Romania.

Ma per tornare alla vertenza, a maggio, dopo mesi di lotta durissima e mobilitazioni costanti dei lavoratori, si è conclusa la prima fase della vertenza al tavolo del Ministero dello Sviluppo Economico, con un accordo che dava un po’ di fiato in attesa di trovare una soluzione definitiva. Almaviva puntava a cambiare le regole del gioco, cercando ottenere dal governo un argine contro i danni delle localizzazioni utilizzando i lavoratori come “scudi umani” ed il ricatto dei licenziamenti come mannaia permanente. Ma già nell’estate c’erano state avvisaglie di quanto sarebbe successo, con comunicati aziendali che parlavano di situazione insostenibile. Così ad ottobre è stata aperta la procedura di licenziamento collettivo. Nei 75 giorni che ne sono seguiti la trattativa è parsa subito stanca e senza sbocco, con il governo che faceva manfrina, l’azienda che rifiutava gli ammortizzatori sociali offerti e la lotta cominciava a dare segni di stanchezza. Nella notte fra il 21 e 22 dicembre c’è stata l’ultima maratona al tavolo del MISE, che ha prodotto il classico topolino: un accordicchio per i lavoratori, che in cambio di altri tre mesi di ammortizzatori sociali (fino ad oggi Contratto di solidarietà al 45%), ottiene dai firmatari tagli pesanti (in deroga al CCNL) al salario per renderlo più concorrenziale, maggior efficienza e produttività (tradotto: aumento dei ritmi di lavoro già pesantissimi e maggiore disponibilità) e interventi in deroga all’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, quello che parla degli strumenti di controllo. In sintesi: in cambio del mantenimento del posto di lavoro per altri tre mesi l’azienda porta a casa una nuova filosofia del modo di lavorare, che prevede per i lavoratori la rinuncia ai diritti e la sottomissione più completa.

Le RSU di Roma non hanno firmato, quelle di Napoli si. Da qui le lettere di licenziamento, arrivate martedì 27 e mercoledì 28. Lo smarrimento e la disperazione hanno preso il sopravvento fra i lavoratori e la CGIL ha organizzato in fretta una consultazione sull’accordo, a questo punto accettato dai lavoratori di Roma seppur con una maggioranza risicata. Ma ormai l’azienda ha smobilitato e ha dichiarato pubblicamente che non intende rivedere le sue posizioni. L’ultimo tentativo di conciliazione avvenuto al MISE giovedì 29 è risultato vano. Ed il dramma si è compiuto.
Alcune considerazioni vanno fatte in maniera chiara.

La prima è che è cambiato il clima di relazioni sindacali. I padroni (e Almaviva fra questi) hanno la consapevolezza di aver vinto la partita e di poter avere mano libera per fare o disfare a proprio piacimento, utilizzando i lavoratori come carne da cannone, alla faccia della Costituzione che prevede all’art. 41 la responsabilità sociale dell’impresa. Non c’è più la ricerca di una mediazione, c’è solo arroganza e l’interesse privato, della proprietà, che prevale su tutto il resto. Almaviva incassa e si arricchisce in tempi di vacche grasse ed in tempi di crisi scarica il peso morto dei lavoratori: profitto privato e socializzazione delle perdite. Almavica Contact per ora risulta cinicamente “risanata”, ma fino a quando? Quanto reggerà ancora?

I 1666 lavoratori licenziati sono le ultime vittime della globalizzazione e del liberismo imperante. L’obiettivo dei padroni è abbattere il costo del lavoro per renderlo più competitivo, non importa se si calpestano i diritti acquisiti, i contratti nazionali, leggi e regolamenti, bisogna fare concorrenza ai paesi del terzo mondo e quindi bisogna comprimere i lavoratori nel nostro paese fino a farli scoppiare, chi non ci sta viene scaricato. E’ una rincorsa verso il baratro della competizione selvaggia e senza freni.

Lo Stato brilla per la totale assenza o inconsistenza di proposte, essendo, ben si sa, assoggettato a sua volta alle leggi di mercato qualunque esse siano, senza nemmeno sognarsi di mettere dei paletti o almeno di introdurre qualche regolamentazione a garanzia di una corretta competizione: lo stato ed il governo sono di parte e stanno dalla parte del più forte, i padroni.
I lavoratori di Almaviva sono stati lasciati soli nella loro lotta. Non ci sono state solidarietà degli altri lavoratori e mobilitazioni a sostegno, come sarebbe stato lecito aspettarsi. A parte qualche comunicato (pochi per la verità) si è trattato di una lotta isolata, che non ha coinvolto neppure tutta la categoria. E qui le responsabilità sindacali sono pesantissime. Si poteva fare della vertenza Almaviva una vertenza modello da generalizzare, per scardinare la folle rincorsa alla trasformazione dei lavoratori in sudditi, senza voce e senza diritti. E invece no. Si è preferito l’isolamento e la sconfitta. Non ci vuole molto a capire che il “modello Almaviva” di relazioni industriali sarà replicato presto ovunque possibile. Sono stati lasciati soli dalla città, completamente distratta, e dalle istituzioni (la Regione Lazio è stata lungamente e colpevolmente assente dal tavolo, a differenza della Regione Sicilia e anche Campania). Sono stati lasciati soli dalla politica nel suo complesso, salvo rare eccezioni, impegnata più a rinchiudersi in beghe di bottega che a risolvere i grandi temi sociali del paese, a partire dal lavoro.

I lavoratori di Almaviva si sono divisi e questo è stato decisivo nella svolta della vertenza. Nelle grandi lotte di primavera tutte le sedi erano coinvolte a pieno titolo e la firma di maggio era stato un risultato importante seppur parziale, frutto della mobilitazione di tutti. Poi quando si è capito che alcune sedi si sarebbero salvate, il problema è rimasto solo per Roma e Napoli ed alla fine solo per Roma. Le altre si sono progressivamente sfilate. Come se questo fosse garanzia di un futuro certo.
Personalmente, come lavoratore e dipendente Almaviva, provo una profonda vergogna, non rabbia ma vergogna.

E’ una sconfitta pesantissima per tutti, non solo per i lavoratori ingiustamente licenziati, per il sindacato, dimostratosi una volta di più incapace, per il governo e lo stato, collusi con i padroni, per la politica, totalmente assente ed inutile. Dimostra che il paese è ancora all’interno di una crisi profonda da cui non si uscirà se non sovvertendo le regole e rimettendo in discussione il sistema nel suo complesso, perché l’assetto attuale capitalistico-padronale non è più in grado di garantire sviluppo e prosperità, ma solo desolazione, solitudine e disperazione. Dobbiamo impedirlo prima che sia troppo tardi.

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