controlacrisi Autore:
maurizio messina
Nel
silenzio quasi generale e nell’indifferenza di questa città e della
cosiddetta opinione pubblica si è consumato un dramma del lavoro, forse
il più grande che questa città abbia mai conosciuto: 1666 lavoratori
addetti ai Call Center sono stati licenziati da Almaviva Contact.
Così,
mentre gli ultimi giorni frenetici per lo shopping natalizio vedevano
il solito traffico impazzito e la gente isterica, 1666 famiglie venivano
gettate nella disperazione. La sede aziendale di Roma è stata chiusa ed
il lavoro trasferito alle sedi di Palermo e Milano. Questo il risultato
di un’estenuante trattativa durata molti mesi, che ha visto momenti
intensi di lotta e anche divisioni fra i lavoratori. Gli 845 addetti
della sede di Napoli hanno avuto altri 3 mesi di ossigeno fino al 31
marzo, in attesa di trovare una soluzione definitiva.
Il mondo
dei Call Center è una giungla, come ben dipinta da Ascanio Celestini o
da Paolo Virzì, ma non è fatto solo di fastidiose persone che rompono le
scatole alle 9 di sera per venderti qualcosa, è anche il servizio
informazione delle aziende, la raccolta di segnalazioni e reclami dalla
clientela, è l’orario dei treni delle ferrovie, il pagamento delle
assicurazioni e molto altro. Un mondo che è cresciuto impetuosamente nel
corso ormai di decenni, senza regole ben definite, con una concorrenza
selvaggia e il ricorso al precariato perenne come regola.
In
questo caos, voluto e tollerato dai governi succedutisi nel tempo e di
tutti i colori, molte aziende hanno prosperato e si sono arricchite ed
Almaviva è stata quella che è cresciuta di più, diventando la numero
uno. E’ cresciuta talmente tanto fino ad arrivare ad avere quasi 12.000
addetti in tutta Italia e successivamente aprire sedi in tutto il mondo,
dalla Cina al Brasile, tanto per fare qualche esempio. E fino a
comprarsi dieci anni fa il più grande gruppo di informatica in Italia:
la Finsiel. In questi anni molti portafogli si sono gonfiati, mentre i
lavoratori venivano sfruttati, malpagati e usati a seconda del bisogno e
poi scaricati, grazie anche ai famigerati contratti conosciuti come
co.co.pro., co.co.co., partite IVA, etc…. Ma in Almaviva le lotte dei
lavoratori nel tempo avevano ottenuto successo e le vertenze avevano
visto l’assunzione e la stabilizzazione dei precari.
Finchè il
mercato era in crescita c’era spazio e ricchezza per tutte le aziende,
poi è arrivata la crisi, la spending review, i tagli ai budget sia nel
privato che nella pubblica amministrazione e la competizione è diventata
spietata. Così le aziende hanno cominciato a delocalizzare i loro
impianti trasferendoli nei paesi dell’Europa dell’Est (Albania e Romania
soprattutto), dove si pagano salari molto più bassi che da noi ed il
sindacato non esiste. Da qui è nata una competizione spietata e
scorretta, facilitata dallo stato e dalle gare al massimo ribasso, in
cui vince chi offre il servizio a prezzi più bassi e la qualità diventa
un optional. Nessuno dei governi degli ultimi dieci anni si è mai
sognato di porre un freno alla delocalizzazione di aziende che magari
hanno usufruito di finanziamenti statali per mettere su il business e
degli ammortizzatori sociali nei momenti di difficoltà, perché non frega
niente a nessuno, il dogma del libero mercato recita, com’è noto, che
il mercato si regola da sé. Così in Italia il mercato è precipitato e i
lavoratori finiscono per strada, mentre all’estero i padroni italiani
fanno affari d’oro. Tanto è vero che anche Almaviva ha aperto di recente
una sede in Romania.
Ma per tornare alla vertenza, a maggio,
dopo mesi di lotta durissima e mobilitazioni costanti dei lavoratori, si
è conclusa la prima fase della vertenza al tavolo del Ministero dello
Sviluppo Economico, con un accordo che dava un po’ di fiato in attesa di
trovare una soluzione definitiva. Almaviva puntava a cambiare le regole
del gioco, cercando ottenere dal governo un argine contro i danni delle
localizzazioni utilizzando i lavoratori come “scudi umani” ed il
ricatto dei licenziamenti come mannaia permanente. Ma già nell’estate
c’erano state avvisaglie di quanto sarebbe successo, con comunicati
aziendali che parlavano di situazione insostenibile. Così ad ottobre è
stata aperta la procedura di licenziamento collettivo. Nei 75 giorni che
ne sono seguiti la trattativa è parsa subito stanca e senza sbocco, con
il governo che faceva manfrina, l’azienda che rifiutava gli
ammortizzatori sociali offerti e la lotta cominciava a dare segni di
stanchezza. Nella notte fra il 21 e 22 dicembre c’è stata l’ultima
maratona al tavolo del MISE, che ha prodotto il classico topolino: un
accordicchio per i lavoratori, che in cambio di altri tre mesi di
ammortizzatori sociali (fino ad oggi Contratto di solidarietà al 45%),
ottiene dai firmatari tagli pesanti (in deroga al CCNL) al salario per
renderlo più concorrenziale, maggior efficienza e produttività
(tradotto: aumento dei ritmi di lavoro già pesantissimi e maggiore
disponibilità) e interventi in deroga all’art. 4 dello Statuto dei
lavoratori, quello che parla degli strumenti di controllo. In sintesi:
in cambio del mantenimento del posto di lavoro per altri tre mesi
l’azienda porta a casa una nuova filosofia del modo di lavorare, che
prevede per i lavoratori la rinuncia ai diritti e la sottomissione più
completa.
Le RSU di Roma non hanno firmato, quelle di Napoli si.
Da qui le lettere di licenziamento, arrivate martedì 27 e mercoledì 28.
Lo smarrimento e la disperazione hanno preso il sopravvento fra i
lavoratori e la CGIL ha organizzato in fretta una consultazione
sull’accordo, a questo punto accettato dai lavoratori di Roma seppur con
una maggioranza risicata. Ma ormai l’azienda ha smobilitato e ha
dichiarato pubblicamente che non intende rivedere le sue posizioni.
L’ultimo tentativo di conciliazione avvenuto al MISE giovedì 29 è
risultato vano. Ed il dramma si è compiuto.
Alcune considerazioni vanno fatte in maniera chiara.
La
prima è che è cambiato il clima di relazioni sindacali. I padroni (e
Almaviva fra questi) hanno la consapevolezza di aver vinto la partita e
di poter avere mano libera per fare o disfare a proprio piacimento,
utilizzando i lavoratori come carne da cannone, alla faccia della
Costituzione che prevede all’art. 41 la responsabilità sociale
dell’impresa. Non c’è più la ricerca di una mediazione, c’è solo
arroganza e l’interesse privato, della proprietà, che prevale su tutto
il resto. Almaviva incassa e si arricchisce in tempi di vacche grasse ed
in tempi di crisi scarica il peso morto dei lavoratori: profitto
privato e socializzazione delle perdite. Almavica Contact per ora
risulta cinicamente “risanata”, ma fino a quando? Quanto reggerà ancora?
I
1666 lavoratori licenziati sono le ultime vittime della globalizzazione
e del liberismo imperante. L’obiettivo dei padroni è abbattere il costo
del lavoro per renderlo più competitivo, non importa se si calpestano i
diritti acquisiti, i contratti nazionali, leggi e regolamenti, bisogna
fare concorrenza ai paesi del terzo mondo e quindi bisogna comprimere i
lavoratori nel nostro paese fino a farli scoppiare, chi non ci sta viene
scaricato. E’ una rincorsa verso il baratro della competizione
selvaggia e senza freni.
Lo Stato brilla per la totale assenza o
inconsistenza di proposte, essendo, ben si sa, assoggettato a sua volta
alle leggi di mercato qualunque esse siano, senza nemmeno sognarsi di
mettere dei paletti o almeno di introdurre qualche regolamentazione a
garanzia di una corretta competizione: lo stato ed il governo sono di
parte e stanno dalla parte del più forte, i padroni.
I lavoratori di
Almaviva sono stati lasciati soli nella loro lotta. Non ci sono state
solidarietà degli altri lavoratori e mobilitazioni a sostegno, come
sarebbe stato lecito aspettarsi. A parte qualche comunicato (pochi per
la verità) si è trattato di una lotta isolata, che non ha coinvolto
neppure tutta la categoria. E qui le responsabilità sindacali sono
pesantissime. Si poteva fare della vertenza Almaviva una vertenza
modello da generalizzare, per scardinare la folle rincorsa alla
trasformazione dei lavoratori in sudditi, senza voce e senza diritti. E
invece no. Si è preferito l’isolamento e la sconfitta. Non ci vuole
molto a capire che il “modello Almaviva” di relazioni industriali sarà
replicato presto ovunque possibile. Sono stati lasciati soli dalla
città, completamente distratta, e dalle istituzioni (la Regione Lazio è
stata lungamente e colpevolmente assente dal tavolo, a differenza della
Regione Sicilia e anche Campania). Sono stati lasciati soli dalla
politica nel suo complesso, salvo rare eccezioni, impegnata più a
rinchiudersi in beghe di bottega che a risolvere i grandi temi sociali
del paese, a partire dal lavoro.
I lavoratori di Almaviva si sono
divisi e questo è stato decisivo nella svolta della vertenza. Nelle
grandi lotte di primavera tutte le sedi erano coinvolte a pieno titolo e
la firma di maggio era stato un risultato importante seppur parziale,
frutto della mobilitazione di tutti. Poi quando si è capito che alcune
sedi si sarebbero salvate, il problema è rimasto solo per Roma e Napoli
ed alla fine solo per Roma. Le altre si sono progressivamente sfilate.
Come se questo fosse garanzia di un futuro certo.
Personalmente, come lavoratore e dipendente Almaviva, provo una profonda vergogna, non rabbia ma vergogna.
E’
una sconfitta pesantissima per tutti, non solo per i lavoratori
ingiustamente licenziati, per il sindacato, dimostratosi una volta di
più incapace, per il governo e lo stato, collusi con i padroni, per la
politica, totalmente assente ed inutile. Dimostra che il paese è ancora
all’interno di una crisi profonda da cui non si uscirà se non
sovvertendo le regole e rimettendo in discussione il sistema nel suo
complesso, perché l’assetto attuale capitalistico-padronale non è più in
grado di garantire sviluppo e prosperità, ma solo desolazione,
solitudine e disperazione. Dobbiamo impedirlo prima che sia troppo
tardi.
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martedì 10 gennaio 2017
"La vicenda Almaviva ci parla di un Paese in mano a chi ha un alto potere di ricatto e non accetta nessun tipo di mediazione". Intervento di Maurizio Messina
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