mercoledì 4 gennaio 2017

La Ford ri-localizza negli Usa, come Trump e profitto chiedono.

Contrordine, americani! La gobalizzazione non ci conviene più….
WCCOR1_0I4PSCNR-kM1C-U43270547874623a0-1224x916@Corriere-Web-Sezioni-593x443Gli analisti sono ancora alla ricerca di una chiave di lettura unitaria che consenta di tracciare lo scenario giusto entro cui infilare il “Mule”, il miliardario impresentabile che tra 15 giorni entrerà alla Casa Bianca da presidente dell'unica superpotenza ancora in vita.
Ma alcuni effetti già si vedono, anche se il tycoon gioca sporco (e facile) attribuendosene il merito.
La notizia è semplice. Nella giornata di ieri Trump ha sparato un tweet (per ora ancora non governa…) con cui criticava pesantemente la General Motors, rea di assemblare in Messico uno dei modelli più venduti negli Stati Uniti, la Chevy Cruz (in Europa nota come Cruze, sotto il marchio Chevrolet, che ha assorbito qualche anno fa la coreana Daewoo). La minaccia più pesante era comunque quella di istituire una “tassa di confine”, in pratica un dazio pesantissimo, tale da da rendere antieconomico produrre laggiù (dove i salari sono ovviamente assai più bassi). "Fatelo in Usa – ha twittato Trump – oppure pagate una consistente tassa".
Poche ore dopo la Ford ha annunciato di aver annullato un accordo con lo stesso Messico che prevedeva un investimento di 1,6 miliardi di dollari a San Luis Potosì. Ne spenderà solo 700, ma per allargare lo stabilimento di Flat Rock, in Michigan. L'azienda ci ha tenuto a precisare che la decisione era stata presa molto prima, dunque in completa autonomia e senza tener conto del futuro presidente Usa. Il quale ha però subito emesso il solito tweet con cui rivendicava: "Tutto merito mio".

Chiacchiere e propaganda, storytelling… Fatto sta che tutta la grande industria manifatturiera Usa “sente” la pressione – sia del nuovo presidente che dei cittadini impoveriti, clienti d'obbligo per i modelli più piccoli, come Focus e Fusion (che qualche anno fa non venivano neppure distribuiti negli States). E sente ormai molto meno il vantaggio di produrre altrove.
Lo stesso amministratore delegato della Ford, infatti, pur smentendo che la decisione sia stata frutto della futura linea Trump, ha tenuto a far sapere che lui "incoraggia le politiche pro crescita che il presidente eletto Donald Trump e il nuovo Congresso hanno indicato di voler perseguire. Crediamo che queste riforme fiscali e regolatorie siano criticamente importanti per aumentare la competitività degli Usa e naturalmente portare a una ripresa nel manifatturiero americano e nell'innovazione high-tech".
Trump, però, ha solo tradotto il slogan di successo qualcosa che stava già avvenendo sotto la presidenza Obama: la ri-localizzazione della produzione manifatturiera delle multinazionali Usa.
Dicevamo all'inizio che la crisi economica ha messo di fatto fine al processo di globalizzazione (o mondializzazione), innescando un movimento in direzione opposta. Vuoi per l'aumento dei costi di trasporto delle merci, vuoi per l'aumento dei salari anche nei paesi di nuova industrializzazione, i margini di profitto su prodotti che devono fare il giro del mondo si sono alquanto ridotti.
Ma c'è anche una ragione ancora più strutturale, specie con riguardo a un prodotto “maturo”, ma altamente simbolico, come l'automobile: le catene di montaggio sono ormai quasi completamente automatizzate (basta guardare attentamente, nella foto di apertura, una delle catene di montaggio più moderne utilizzate dalla stessa Ford, come peraltro fanno i concorrenti). Questo significa che i dipendenti in carne e ossa sono ridotti al minimo, in prospettiva sono “in via di estinzione”. La conseguenza sui costi di produzione è immediata: la parte destinata ai salari (operai, tecnici, impiegati) diventa quasi irrilevante. Quindi il vantaggio di produrre all'estero si riduce a ben poco, specie per quei modelli che debbono raggiungere un mercato lontano come quello “patrio”. Ed è un vantaggio eroso o annullato dai costi della logistica, soprattutto per i modelli meno costosi (che ovviamente garantiscono un margine di profitto per unità molto basso).
Dunque si può “tornare a casa”, quasi senza rimetterci nulla. Anzi, guadagnandoci in popolarità, benefici fiscali, finanziamenti agevolati, trattamenti di favore.
Unico neo (ma ci vorrà qualche tempo prima che la “classe operaia bianca” statunitense se ne accorga): i benefici per l'occupazione saranno pressoché nulli.

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