Dopo un lungo e ingiustificato oblio, si è aperta a livello internazionale una nuova stagione di studi intorno alla complessiva operazione filosofica di Sartre. In Italia è tornato ad occuparsi di Sartre Luca Basso, con "Inventare il nuovo. Storia e politica in Jean-Paul Sartre", di cui pubblichiamo, per gentile concessione dell'autore e dell'editore (ombre corte) l'introduzione.
micromega di LUCA BASSO
Introduzione
Sappiamo che c’è soltanto un valore d’arte e di verità: la “prima mano”, l’autentica novità di ciò che si dice, la “piccola musica” con cui la si dice. Sartre è stato questo per noi (per la generazione che aveva vent’anni al momento della Liberazione). Chi seppe dire qualcosa di nuovo (nouveau) allora, se non Sartre? Chi ci insegnò dei nuovi modi di pensare? Per quanto fosse brillante e profonda, l’opera di Merleau-Ponty era professorale e per molti aspetti dipendeva da quella di Sartre [...] I temi nuovi [...], un certo nuovo stile, una nuova maniera polemica e aggressiva di porre i problemi venivano da Sartre. Nel disordine e nelle speranze della Liberazione si scopriva e si riscopriva tutto: Kafka, il romanzo americano, Husserl e Heidegger, le infinite riarticolazioni del marxismo, lo slancio verso un nuovo romanzo [...] Tutto è passato per Sartre, non solo perché, in quanto filosofo, aveva il genio della totalizzazione, ma perché sapeva inventare il nuovo (inventer le nouveau).
Gilles Deleuze, “È stato il mio maestro”
[...] la negazione non è semplice distruzione della determinazione ma momento subordinato alla libera produzione di qualcosa di completamente “nuovo” (nouveau). Non è la semplice distruzione del marmo per negazione della sua forma data che darà la statua [...] Il momento essenziale è quindi la “creazione”, cioè il momento dell’immaginario e dell’invenzione (invention).
Jean-Paul Sartre, Quaderni per una morale
[...] in talune circostanze, un gruppo in fermento nasce e opera là dove non c’erano che assembramenti e, attraverso tale effimera formazione sociale, ciascuno intravede statuti nuovi (statuts nouveaux) (il Terzo Stato come gruppo con l’aspetto della nazione, la classe come gruppo in quanto produce i suoi apparati di unificazione, ecc.) e più profondi ma “da creare” [...] Comunque quel che conta, è che tale forma si costituisca davvero in certi momenti dell’esperienza storica e che si configuri allora come nuova (neuve) [...]. Parigi, dopo la presa della Bastiglia, non può più essere la Parigi del giugno 1789. Nuove organizzazioni (nouvelles organisations) si formano sulle rovine delle antiche [...] Joseph Le Bon [...] diceva, dalla prigione, dopo il Termidoro, che nessuno poteva – e neppure lui – capire né giudicare assolutamente eventi ed atti prodottosi con “un’altra velocità”.
Jean-Paul Sartre, Critica della ragione dialettica
“Sartre sapeva inventare il nuovo”, scrive Gilles Deleuze, in omaggio a colui che ha indicato, in un breve testo del 1964, come il suo maestro, affermazione che potrebbe sembrare sorprendente[1]. L’“inventare il nuovo”, che dà il titolo al libro[2], può essere interpretato secondo una duplice lettura, una relativa alla rappresentazione complessiva del filosofo in questione, l’altra riguardante il nucleo del contenuto specifico della riflessione politica sartriana. Infatti, in merito al primo punto, l’affermazione deleuziana sembrerebbe muoversi in completa distonia con l’immagine di Sartre che è stata fornita negli ultimi decenni. Troppo spesso, a una precedente esaltazione acritica di Sartre, perlomeno in un certo milieu gauchiste, sono succeduti, anche in seguito al crescente rilievo dello strutturalismo e del cosiddetto poststrutturalismo nelle sue diverse declinazioni, una critica altrettanto semplicistica e un sostanziale oblio, oltre che una contrapposizione troppo rigida tra differenti figure all’interno dello scenario francese.
Il presente libro non è volto, per gusto di provocazione, a sostenere il carattere strutturalistico e antiumanistico della concezione sartriana, ma a far emergere che determinate contrapposizioni (come quella fra umanismo e antiumanismo), che trovavano una loro ratio existendi negli anni Sessanta e Settanta, anche in rapporto a un posizionamento sia rispetto a Marx e al suo percorso interno sia rispetto a quella congiuntura politica, oggi, se ipostatizzate, rischiano di condurre in un cul de sac. Non si tratta di stabilire una sorta di armonia postuma fra filosofi che hanno polemizzato reciprocamente, come ad esempio, da un lato, Sartre, e, dall’altro, Althusser e Foucault. Né si tratta, rispetto a una certa “moda” poststrutturalista, di contrapporre ad essa, in termini ugualmente acritici, lo scenario sartriano. Occorre però tenere presente che, pur nelle soluzioni anche radicalmente differenti in alcuni casi, i filosofi operanti in quel contesto francese avevano un campo di problemi, per molti versi, comuni. E la stessa rappresentazione di un Sartre soggettivista necessita di una problematizzazione, soprattutto se si esamina lo scenario del dopoguerra. Tali osservazioni non spingono a negare che siano presenti problemi interni all’orizzonte sartriano, dal punto di vista teorico e dal punto di vista politico: prova ne è che la seconda parte della Critique de la raison dialectique, l’opera filosofico-politica più importante di Sartre, non sia stata completata e presenti un carattere inachevé. Inoltre la sua stessa funzione, talvolta un po’ “sacerdotale”, di intellettuale engagé in alcuni casi lo ha condotto a compiere scelte, e ad attivare interlocuzioni, che lasciano non pochi dubbi. Lo scopo del libro non consiste, quindi, nel fornirne un’immagine risolta e priva di contraddizioni, ma nel mettere in luce la presenza di elementi rilevanti e innovativi all’interno della riflessione politica sartriana. Da questo punto di vista, dovrebbe risaltarne un’interpretazione anche “complessificata”, ma lontana da quella del vecchio filosofo dialettico, storicista e magari essenzialista, rispetto alle tendenze feconde che lo hanno seguito.
La seconda declinazione dell’“inventare il nuovo” risulta connessa non al ruolo svolto dal filosofo Sartre, ma a uno dei nuclei teorico-politici più importanti della sua trattazione. Al centro del discorso sta la dinamica della rivoluzione, nella sua capacità di mettere in discussione assetti consolidati e apparentemente inamovibili, attraverso la prassi destrutturante del gruppo in fusione. Ma tale rilievo non implica una sottovalutazione delle zone d’ombra, della permanenza di elementi di serialità in uno scenario non privo di chiaroscuri. All’interno di tale percorso saranno presenti, nel libro, anche scritti antecedenti al 1945, e soprattutto L’essere e il nulla, ma particolare rilevanza rivestiranno le opere del dopoguerra (in primis, relative al periodo compreso fra l’inizio degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Settanta), in cui l’interesse per la storia e la politica diventa sempre più forte, come lo stesso Sartre ha ammesso. Non avendo alcuna velleità di esaustività e cercando di far “ruotare” i testi intorno al baricentro teorico del libro, ho fatto riferimento in modo solo cursorio a un’opera importante dell’ultima fase come L’idiota della famiglia.
Il fil rouge del libro è costituito dal rapporto fra la singolarità, sia del soggetto sia dell’evento politico rispetto a uno schema onnicomprensivo, e l’universalità della Storia, sulla base di un tentativo di cogliere il senso di quest’ultima a partire dal riferimento alla praxis, adottando non un approccio lineare, ma un andamento a spirale, in cui ciò che viene negato viene costantemente ripreso: si tratta di una relazione aperta, in cui non si perviene mai a una sintesi compiuta. Nella prima parte del libro il problema viene indagato a partire dall’attraversamento sartriano di momenti decisivi della modernità, dal riferimento critico ma anche costitutivo a Cartesio in merito alla libertà del soggetto, passando attraverso il pensiero settecentesco, in particolare rousseauiano, e l’evento epocale della Rivoluzione francese, fino ad arrivare all’interazione (sempre più intensa col passare del tempo) con Marx e il marxismo, contraddistinta nello stesso tempo da una critica nei confronti di determinati suoi limiti e da un tentativo di un suo “rilancio”. Inoltre l’eredità della Rivoluzione francese, e delle sue “parole” liberté, égalité, fraternité, risulta cruciale all’interno del percorso indicato. In particolare una questione aperta, e anche una possibile tensione interna, riguardano il rapporto fra la forte valorizzazione, fin dai primi testi, della libertà, e il ruolo-chiave esercitato dalla fratellanza nella Critica della ragione dialettica, in relazione alla dimensione fusionale dell’agire in comune del gruppo.
Nella seconda parte del libro, attraverso uno sviluppo della questione dell’istituzionalizzazione del gruppo, il problema indicato viene declinato a partire da un’analisi del “secolo breve”, e in primis dell’Unione Sovietica in quanto incarnazione del marxismo, che però costituisce anche una deviazione: addirittura un “mostro”, nell’ambivalenza di tale elemento rispetto allo schema marxista tradizionale. Secondo Sartre, trapiantare il marxismo in Russia ha significato fornirne un’incarnazione particolaristica, sulla base di un elemento di totalizzazione (che però non è mai totalità, esito pienamente compiuto), con la sua doppia faccia di unificazione e di dispersione. Ogni prassi costituisce una totalizzazione nella misura in cui si configura come superamento in vista di un fine, ma tale totalizzazione presenta un carattere ambiguo, mai perfettamente trasparente. Comunque sia, la serializzazione sottesa a tale prassi-progetto, con la funzione rilevante giocata dalla burocrazia, costituisce anche un disciplinamento della forza propulsiva del gruppo in fusione. Mentre numerosissime sono state le indagini storiche al riguardo, quella sartriana costituisce forse l’analisi filosofica più ampia dell’Unione Sovietica, possedendo il merito di impostare una critica a partire però da una prospettiva articolata, e contraddistinta da una sorta di prudenza storica, irriducibile a una lettura semplicistica dello scenario successivo alla Rivoluzione bolscevica. L’approccio critico, in particolare dopo il 1956, nei confronti dell’Unione Sovietica, unitamente all’interesse per la situazione cubana, e al sempre maggior rilievo delle lotte anticoloniali e di una serie di nuove esperienze che troveranno nel 1968 una loro condensazione, spingono Sartre a una sempre maggiore “complessificazione” della riflessione politica.
La posta in gioco consiste nel cogliere la rilevanza del rapporto fra le potenzialità espansive dei soggetti (sulla base di una sorta di fenomenologia dei gruppi) e l’orizzonte storico complessivo. L’espressione sartriana “universale singolare”, nel suo carattere apparentemente ossimorico, cerca di interpretare la questione indicata, venendo ad articolare una relazione stretta, ma anche instabile, fra storia e politica. Ne deriva una rappresentazione tutt’altro che immediatamente soggettivista, dal momento che i soggetti sono “quasi-oggetti”, in quanto agiti dagli eventi, e sia l’oggettività del pratico-inerte sia il collettivo, con il suo carattere anche reificato, costituiscono elementi inaggirabili. Il tentativo risiede nel ripensare la soggettivazione al di là del dualismo “individuale”-“collettivo”, e nell’articolare politicamente il discorso evitando il rischio, peraltro in parte presente nello stesso Sartre, di una diffidenza movimentista nei confronti di qualsiasi forma di organizzazione. Così si rivela cruciale, ma anche arduo, il problema di come far durare la rivoluzione, di come renderne effettuali le conquiste, in modo tale che i bisogni e le capacità dei soggetti possano “sedimentare” nelle pratiche quotidiane e nelle dinamiche istituzionali.
NOTE
[1] Cfr. Gilles Deleuze, “Il a été mon maître” (1964), in Id., L’île déserte. Textes et entretiens 1953-1974, a cura di D. Lapoujade, Les Éditions du Minuit, Paris 2002, trad. it. a cura di D. Borca, “È stato il mio maestro”, in L’isola deserta e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974, Einaudi, Torino 2007, pp. 95-99: 95-96. Si veda anche: ivi, pp. 97-98: “Parliamo di Sartre come se appartenesse a un’epoca passata. Ma siamo piuttosto noi a essere già passati nell’ordine morale e conformista attuale. Almeno Sartre ci consente di aspettare in maniera vaga dei momenti futuri, delle riprese in cui il pensiero si riformerà e ripeterà le proprie totalità, in quanto potenza insieme collettiva e privata. Ecco perché Sartre resta il nostro maestro. Il suo ultimo libro, Critica della ragione dialettica, è uno dei libri più belli e importanti usciti negli ultimi anni”.
[2] Per la realizzazione del libro sono stati decisivi i miei lunghi soggiorni presso la Bibliothèque Nationale de France, la Bibliothèque de l’École Normale Supérieure di Parigi, e la Staatsbibliothek di Berlino.
(10 novembre 2016)
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